Patria indipendente

Il gappista di via Rasella di nuovo assolto dalla Cassazione

Rosario Bentivegna racconta della Resistenza a Roma

Figure leggendarie. Minuto per minuto l’attacco militare alla colonna nazista in marcia nel cuore di Roma. “Azione legittima di guerra”

 

Il mese scorso la Corte di Cassazione ha confermato per il quotidiano Il Giornale e per i giornalisti Vittorio Feltri e Francobaldo Chiocci la condanna inflitta in appello al risarcimento danni per diffamazione in favore di Rosario Bentivegna, gappista a Roma durante la lotta di Liberazione e componente della Presidenza Onoraria dell’ANPI. I fatti risalgono al 1996 quando, con una serie di articoli ed editoriali, sulla testata di proprietà della famiglia Berlusconi venne condotta una vera e propria campagna denigratoria e revisionista nei confronti degli autori dell’azione di via Rasella contro il battaglione tedesco di SS “Bozen”. Secondo la suprema Corte quello del 24 marzo 1944 fu un «legittimo atto di guerra, rivolto contro un esercito straniero occupante, e diretto a colpire unicamente dei militari» e, in merito alle accuse rivolte a Bentivegna negli articoli in questione, ha emesso il suo giudizio (come già la Corte di Appello di Milano nel 2003) in base a tre capisaldi. In primo luogo non risulta essere vero che il reparto di SS attaccato fosse composto da «vecchi militari disarmati» (come affermato sulle colonne de Il Giornale) ma, al contrario, «si trattava di soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole». Non risponde a verità neanche il fatto che il battaglione “Bozen” fosse composto da italiani, in quanto «facendo parte dell’esercito tedesco i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica». E più di ogni altra cosa è falsa la tesi, sostenuta dal quotidiano milanese, che subito dopo l’attacco «erano stati affissi manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare rappresaglie». Tale versione dei fatti, hanno affermato i giudici in sentenza, trova «puntuale smentita nella circostanza che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 morti) era cominciata circa 21 ore dopo l’attentato e, soprattutto, nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta». In conclusione, la Cassazione ha sentenziato che «la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l’ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all’attentato di via Rasella e l’assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna» va ritenuta «lesiva dell’onorabilità politica e personale» dello stesso Rosario Bentivegna. Nel dare notizia di questa decisione che contribuisce a rafforzare, se ancora ce ne fosse bisogno, la verità storica che intellettuali, giornalisti e storici revisionisti, per fini scopertamente politico-ideologici, tentano di distorcere e sovvertire, proponiamo il testo di una intervista sulla Resistenza romana rilasciata da Bentivegna al periodico Interno otto, bimestrale d’informazione e discussione sociale e politica dell’VIII Municipio di Roma “delle Torri”.

Rosario Bentivegna, conosciamo bene il suo impegno nella Guerra di Liberazione. Ma per i più giovani che spesso non conoscono quegli eventi, vorrebbe ricostruire il percorso attraverso cui lei – e tanti altri, come lei – siete giunti a battervi per la libertà?

È stato un lungo e intricato percorso, umano e culturale, che si è sviluppato negli Anni 20 e 30 del secolo scorso, dal dopoguerra della Prima guerra mondiale (1914-1918), che aveva riportato l’Italia, appena ricostituitasi con il Risorgimento, ma anche la gran parte dell’Europa, in condizioni disastrose. L’Italia, e non solo nel Sud, era a livelli di sviluppo molto arretrati; era ancora un paese a prevalente economia agricola, in cui l’industria stentava a svilupparsi, con forme di sfruttamento della miseria assolutamente impensabili per chi è nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale (1939-1945); con una fame e condizioni di vita per la maggior parte della popolazione che si avvicinavano a quelle del “terzo mondo” di oggi. L’Europa fu percorsa, nel primo dopoguerra, dai fremiti di rivolta delle classi subalterne e dalle feroci restaurazioni autoritarie – i diversi “fascismi” che la colorarono di nero – che le nazioni più povere e quelle sconfitte nella Prima guerra mondiale furono costrette a subire. Alla fine degli Anni 30, anche per l’incertezza delle democrazie più sviluppate, il fascismo aveva trionfato, con sanguinose repressioni, nella penisola iberica, in Italia, nei Balcani, in Germania, in Austria, in Ungheria, in Romania, in Bulgaria, in Grecia, in Polonia, e altri Paesi erano a rischio, e a mano a mano cadevano, come la Cecoslovacchia democratica nel 1938, sotto i colpi delle nazioni fasciste più forti, in particolare della Germania di Hitler, che si accingeva ormai a dominare tutto il continente. In Italia furono abolite dal fascismo tutte le garanzie che lo stato liberale si era dato con il Risorgimento; era scomparsa la libertà di pensiero e di parola, la stampa era controllata, giorno per giorno, da una censura preventiva asfissiante, il Parlamento era stato abolito, così come le garanzie costituzionali, i partiti erano vietati, la tessera fascista era ormai diventata, di fatto, obbligatoria. Senza di essa era pressoché impossibile trovare lavoro. Coloro che non accettavano venivano espulsi dal mondo del lavoro, della cultura, dell’arte, dello sport: dovevano rifugiarsi all’estero, in doloroso esilio, o finire, prima o poi, alla fame, alla miseria, o in galera, o al “confino di polizia”. La scuola, la Chiesa, i giornali, il cinema, la radio, la cultura, se non erano asserviti al regime non avevano il diritto di essere. Ogni città, ogni villaggio, vedeva impresse sui muri delle case le frasi retoriche che esaltavano il Duce, fondatore del nuovo impero romano, che incitava gli italiani, poveri e malridotti, ad aggredire il mondo, che imponeva il “pensiero unico”. Perfino le organizzazioni giovanili che non fossero quelle fasciste, compresa l’Azione Cattolica, e malgrado il Concordato con la Chiesa di Roma, furono proibite. O eri “balilla”, o “piccola italiana”, o “avanguardista”, o “giovane fascista”, o non eri. Una sorda, ottusa, continua propaganda assediava e asfissiava le nostre menti. Furono proibiti i film stranieri, il jazz, i libri che potessero sembrare inadatti al “clima” fascista. L’intervento fascista sul “costume” degli italiani pretese addirittura di modificare le regole della convivenza. Fu abolita la “stretta di mano”: ci si doveva salutare con il “fiero saluto romano”. Fu abolito il “lei”: il “superiore” ti dava del “tu”, e tu dovevi gratificarlo con il “voi”, che interveniva anche tra sconosciuti. Furono imposte mille altre ridicole manifestazioni e, soprattutto, il frequente uso di una “divisa” paramilitare: perfino gli impiegati dello Stato furono costretti ad usare, in ufficio, una divisa, oltretutto fornita di gradi militari, non più civili: non c’era più il “capo ufficio”, ma il “maresciallo”, o il “capitano”, o il “colonnello”, e così via, a seconda del “livello” di qualificazione dei diversi dirigenti… Certamente il fascismo riuscì ad imporre, per qualche anno, queste regole, e anche più ridicole (ad esempio, il “passo romano di parata”, copiato dal “passo dell’oca” tedesco), o più pesanti, come il “dono dell’oro alla Patria”, ivi comprese le fedi nuziali, sostituite da fedi di acciaio inossidabile; o, più tardi, dei metalli, ivi compreso quello delle inferriate, che furono abolite o sostituite dal legno o dal cemento, o le attrezzature in rame delle vecchie cucine. Ma il “consenso” che, bene o male, il fascismo era riuscito a raccogliere tra la fine degli Anni 20 e la metà degli Anni 30, cominciò a scemare, soprattutto per l’alleanza con la Germania di Hitler e per il conseguente adeguarsi dell’Italia fascista al razzismo spietato di costui. Fu così che gli italiani, nel ’37, appresero da “scienziati fascisti” di essere di “pura razza ariana (pur se) di tipo mediterraneo”. Nel frattempo la resistenza politica, ma anche militare (per esempio durante la guerra civile spagnola, dove volontari italiani “garibaldini” si batterono valorosamente contro le milizie del Duce, per esempio a Guadalajara), riprese con maggior vigore: le ridicole esibizioni militaresche e razziste, la asfissiante retorica nazionalista, il costume non certo esemplare, sul piano della “moralità maschilista” (la “famiglia”! Il divorzio era proibito, ma tutti, compreso il duce, avevano o potevano avere una o più “amanti”, più o meno ufficiali) e della correttezza amministrativa, i fallimenti della politica di governo (“se potessi avere mille lire al mese”, cantavano, sognando, gli italiani), erano ormai sulla bocca di tutti. Nel 1937 scomparve perfino una famosa canzone, lanciata nel ’34 per rendere popolare la guerra di Etiopia: “Faccetta nera, bella abissina…” (“la legge nostra è schiavitù d’amore, ma libertà di vita e di pensiero…”; ma va’?!): l’Italia fascista aveva sposato ormai il razzismo hitleriano. E così iniziò, nel ’37, la preparazione alla Seconda guerra mondiale, scatenata dall’Asse Roma-Berlino nel ’39, con l’occupazione nel ’38 dell’Austria e della Cecoslovacchia da parte dei tedeschi, “sanata” dalla debolezza politica e militare delle potenze democratiche europee; con l’occupazione dell’Albania da parte dell’Italia nel ’39; e, sempre nel settembre del ’39, con l’aggressione alla Polonia da parte della Germania, cui la risposta inevitabile fu la dichiarazione di guerra alla Germania da parte dell’Inghilterra e della Francia, legate alla Polonia da un patto di reciproca assistenza. Già allora gli italiani cominciarono a mettere in dubbio l’infallibilità del duce e si aprì loro il cuore alla speranza quando Mussolini, sapendo bene – dalle spie della sua polizia politica, la famigerata OVRA (Opera Volontaria Repressione Antifascismo) – qual era l’umore della gente, dichiarò che l’Italia fascista, pur rimanendo fedele alleata della Germania nazista, avrebbe mantenuto, per allora, una posizione di “non belligeranza”. Tuttavia la scarsa preparazione militare delle potenze democratiche e la mancanza di ogni fede ai patti internazionali della Germania nazista, che aggirò le munite posizioni di difesa anglo-francesi con l’aggressione alle nazioni neutrali (Norvegia, Olanda e Belgio), fece temere al duce, che per principio “ha sempre ragione”, di non potersi sedere – come vincitore – al tavolo della pace; e così, malgrado l’opposizione diffusa all’entrata in guerra da parte di molti italiani, ma anche di moltissimi gerarchi fascisti, il 10 giugno del ’40 Mussolini aggredì la Francia morente, il 28 ottobre la Grecia fascista e, in conseguenza delle sconfitte militari che riportò sul fronte africano, su quello francese, ma soprattutto su quello greco, nel marzo del ’41, insieme a Hitler, la Jugoslavia, essa pure fascista. Per concludere questa carrellata storica, dopo aver perso nei primi mesi di guerra l’Impero, dopo le durissime sconfitte subite in Russia e in Africa del Nord dai fascisti tedeschi e italiani, dopo lo sbarco in Sicilia delle truppe Alleate, cui si era aggiunta l’America, a sua volta aggredita dal Giappone, il fascismo cadde rovinosamente, per mano degli stessi gerarchi fascisti e del re; Mussolini fu arrestato, e l’Italia, pur continuando la guerra, si avviò verso l’armistizio dell’8 settembre del ’43. Un’ultima considerazione statistica: quando il 25 luglio del ’43 il fascismo cadde, gli italiani iscritti al PNF e alle organizzazioni collaterali (per avere in tasca, come si diceva allora, la “tessera del pane”) erano oltre quattro milioni. Quando, dopo l’8 settembre, Mussolini ritornò al potere con l’appoggio delle baionette tedesche, gli iscritti al PFR (Partito Fascista Repubblicano) furono circa 250.000.

Che cosa ha spinto lei, come tantissimi altri, giovani e anziani, uomini e donne, ragazze e ragazzi, a partecipare attivamente, nella Resistenza, alla lotta armata contro il nazifascismo?

Il percorso degli italiani, che, dopo il 25 luglio e l’8 settembre del ’43, si schierarono nella grandissima maggioranza contro il fascismo e il nazismo, non è stato uniforme né contemporaneo. Certamente contribuirono in grande misura, ad aprire gli occhi agli italiani, le sconfitte militari che l’Italia subì fin dai primi giorni di guerra. Ci era stato assicurato, dallo Stato fascista, e soprattutto dal duce, che l’esercito italiano, oltre i fatidici “8 milioni di baionette” con cui il duce minacciò il mondo, aveva al suo fianco la flotta di navi da guerra più forte e innumerevoli aeroplani, tra i migliori del mondo; era di per sé invincibile, avendo a disposizione poderosi carri armati, artiglierie e mezzi di trasporto da strabiliare. In realtà il nostro esercito non era attrezzato per una guerra moderna, né per mezzi né per rifornimenti e competenze. Malgrado le spese che per esso erano state stanziate, e che finirono… dove? Indovinate un po’! Del resto già nel ’37-’38, con la partecipazione alla guerra civile spagnola e il razzismo, molti italiani cominciarono a domandarsi dove li stava portando il duce, e perfino tra i gerarchi fascisti si manifestarono dubbi e incertezze, pur sempre nella riconferma della fiducia nel genio illuminato del Grande Capo... Io, allora, avevo 15 anni, passavo dal primo al secondo liceo, ed ero già turbato dalle ingiustizie e dalle miserie che mi vedevo intorno, pur appartenendo a ceti privilegiati. E, soprattutto, mi colpiva l’ipocrisia degli “adulti”, che vedevano anche loro e criticavano, ma si limitavano alla trasmissione via orale di centinaia di barzellette che ridicolizzavano il duce, le sue amanti, i gerarchi, la loro inarrestabile masticazione dei beni del Paese. E cominciavo ad incontrare gli oppositori clandestini, i condannati e i reduci dalle patrie galere, i combattenti fascisti dei diversi fronti di guerra già aperti, fortemente critici (“disfattisti”?) nei confronti di quello che avevano visto, ma tuttavia ancora incerti sulle sorti del Paese. Fu il “razzismo”, però, introdotto all’improvviso in Italia per favorire e consolidare l’alleanza con Hitler, che nel 1937 mi dette la spinta finale. Vidi scomparire dalla mia scuola i miei compagni ebrei, spesso i migliori, i miei professori ebrei, spesso i più preparati... Su tutto questo certamente influì il mio sviluppo culturale, l’approfondimento della storia d’Italia, lo studio del Risorgimento, l’iniziazione alla filosofia. La mia famiglia, originaria della Sicilia, aveva avuto in quel non troppo lontano periodo storico, un’importante valenza nella lotta per il Risorgimento, per la Libertà e l’Unità d’Italia: garibaldini, mazziniani, liberali, parteciparono e diressero le lotte contro i Borboni: due di loro furono fucilati, altri condannati all’ergastolo. I sopravvissuti seguirono Garibaldi nella spedizione dei Mille, e per tutto il Risorgimento, da Calatafimi all’Aspromonte e alla prima giunta democratica del comune di Roma, diretta dal grande sindaco Ernesto Nathan, dedicarono le loro lotte e le loro vite all’Unità e alla Libertà d’Italia. Ero stato educato quindi a un profondo amore per la patria italiana, avevo la casa piena delle opere di Mazzini e, giovanissimo, cominciai a divorarne le pagine. Fu Mazzini il mio primo maestro di antifascismo: mi insegnò che cosa fosse veramente la Patria: non già un’accozzaglia di tronfie retoriche nazionaliste, ma la conquista, la difesa e l’accrescimento della libertà nello sviluppo per le genti che si costituivano in società nazionali. “La Patria”, leggevo in Mazzini, “non è un territorio; il territorio non ne è che la base”; e ancora: “A che gioverebbe aver patria se l’individuo non dovesse trovare in essa e nella sua forza collettiva la tutela della propria libera vita? Come potreste servire la patria e giovarle, se doveste vivere a beneplacito d’altri? È forse la prigione patria del prigioniero?”. E affermava, nei “Doveri degli uomini”: “Battiti contro la tua patria se la tua patria opprime altre patrie”. E che c’entrava, tutto ciò, con la “patria fascista”? Mazzini, inviso alla monarchia, durante il regime fascista era un’icona appena sfumata. Garibaldi, sia pure mistificato, poteva servire alla creazione del mito eroistico (perdonate il neologismo) perseguito dal fascismo per ottundere le coscienze di chi la Patria l’amava davvero. Per me, dunque, il concetto di “patria” fu subito legato al concetto di libertà, e questo era ovviamente indissolubile dal concetto di giustizia, anche sociale che, per essere tale, non poteva esaurirsi nella “carità cristiana”. Per questo, quando a 17 anni lessi un’antologia di saggi di Antonio Labriola, curata da Benedetto Croce, che in appendice riportava anche il Manifesto del partito Comunista prodotto nel 1848 da Marx e Engels, malgrado un saggio dello stesso Croce, dal significativo titolo “Come nacque e come morì il materialismo storico in Italia”, e che non mi convinse affatto, fui sollecitato ad approfondire la storia delle grandi rivoluzioni illuministe, che nella scuola fascista erano appena sfiorate e mai approfondite, ma anzi fortemente criticate e avversate. Nel frattempo, con alcuni miei compagni di scuola e con miei e loro amici, avevamo istituito una specie di “circolo culturale”: eravamo legati, pur con orientamenti diversi, dalle comuni aspirazioni alla libertà, che sapevamo e vedevamo rifiutata di fatto e di diritto nella scuola e nella società fascista, e tra il ’37 e il ’39 studiammo e commentammo insieme libri, opuscoli, riviste e saggi di diverso orientamento, trovati spesso nelle biblioteche di famiglia, o forniteci da quelli di noi che avevano già un collegamento organico con i movimenti clandestini antifascisti. La mia, la nostra maturazione, si stava compiendo, ma le diverse scelte, tra noi, non ci divisero se non sul piano organizzativo. In questo senso ciascuno di noi scelse la sua strada: un gruppo di noi, dopo aver attentamente studiato testi più impegnativi, scelse la via del marxismo di lettura trozkista, e costituimmo una prima struttura, operativa nella clandestinità, che chiamammo Gruppo di Unificazione Marxista (GUM), non anti-sovietica ma in forte contrapposizione allo stalinismo imperante allora in URSS e nella Terza Internazionale. Il nostro intento, di immaturi e presuntuosi giovinotti, era quello di superare i contrasti tra le opposte “internazionali comuniste”, e cioè tra la Terza, stalinista, opportunamente bonificata, e la Quarta, trozkista, che ci sembrava più confacente al nostro bisogno di libertà e di democrazia, in un quadro unitario che avrebbe arricchito – pensavamo – la comune cultura, dalle diverse letture di essa nella reciproca tolleranza, ad evitare i guasti che la frammentazione della sinistra aveva provocato in Spagna, dove aveva favorito la vittoria del fascismo e la sconfitta della democrazia. Così, del resto, era accaduto anche in Italia, dal ’21 al ’25, in Germania, tra la fine degli Anni 20 e i primi dei ’30, e in altri Stati europei. Per questo, dopo la caduta del fascismo, nel ’43, e l’inizio della Guerra di liberazione Nazionale, dopo l’8 settembre mi trovai in piena sintonia con la linea del PCI, con l’ipotesi dell’unità antifascista, del resto già in atto tra gli Alleati nel corso della Seconda guerra mondiale, e con le “quattro libertà” delle Nazioni Unite: “di pensiero, di parola, dalla paura e dal bisogno”.

Come ha avuto inizio la Resistenza a Roma?

Il Comitato Nazionale delle Opposizioni, di cui facevano parte la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista Italiano, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, il Partito d’Azione, il Partito Democratico del Lavoro e il Partito Liberale Italiano, dopo la fuga del re, del governo Badoglio e dello Stato Maggiore dell’Esercito, il 9 settembre del ’43 si costituì in Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), quale Giunta di Governo nell’Italia occupata, e come tale fu successivamente riconosciuto dal legittimo governo italiano che operava nel sud liberato. Il CLN, in quelle drammatiche ore, al fine di sviluppare nella Resistenza, oltre l’intensa iniziativa politica già intrapresa, anche una forte iniziativa militare, come del resto era accaduto in Europa, in Asia e in Africa, laddove si era verificata la feroce occupazione militare nazi-fascista, formalizzò subito una Giunta Militare, che si mise immediatamente all’opera. Del resto, una forte Resistenza militare italiana contro l’occupazione nazista era iniziata spontaneamente subito dopo l’8 settembre, a Roma e in altre zone d’Italia o, all’estero, dove erano dislocate truppe italiane di occupazione. Valga per tutte la rivolta contro i nazisti della Divisione Acqui, in Cefalonia, con migliaia di ufficiali e soldati italiani caduti in combattimento o assassinati dopo la caduta dell’isola, e la battaglia per la difesa di Roma, cui parteciparono militari dell’Esercito e civili (furono circa 700 i Caduti italiani nella battaglia per la difesa di Roma, tra l’8 e il 10 settembre: oltre 400 soldati e oltre 200 civili, tra cui 17 donne, di cui una suora che apprestava le prime cure ai feriti). Roma non si arrese: fu vinta dalla miserabile mancanza di parola dei comandi nazisti, che prima proposero un armistizio ai difensori della nostra Capitale, accolto in quanto, pur non riconoscendo alla città la qualifica di “città aperta”, ne proposero la costituzione in “città libera”, presidiata dalle truppe regolari dell’Esercito italiano. La proposta fu accolta dal Comando militare della città, ma subito dopo fu violata dai nazisti che, pur essendosi impegnati a non entrare in città con truppe o comandi militari, utilizzarono loro truppe corazzate, giunte finalmente dal nord, violarono i patti, cercarono di rastrellare quanti più ufficiali e soldati potevano ma, con razzie nelle strade e nelle case, anche civili in età militare o di lavoro, li deportarono in Germania, o sui fronti di guerra come manovalanza di schiavi. Di qui nasce la straordinaria Resistenza di Roma: la città reagì immediatamente e spontaneamente, con una gara – tra i romani – a salvare e a nascondere i perseguitati di ogni specie, che vi trovarono asili e conforto. Saranno centinaia di migliaia: anzitutto i renitenti alle leve militari e del lavoro imposte dal governo fantoccio di Salò o, direttamente, dai Comandi nazisti: il Maresciallo Kesselring, comandante in capo delle truppe naziste operanti in Italia, emise subito un comunicato in cui dichiarava Roma “territorio in stato di guerra e pertanto soggetto alle leggi militari germaniche”. Altro che “città aperta”! È questa un’altra delle mistificazioni più ignobili degli attuali “revisionisti” ma, allora, dei cosiddetti “attesisti”, di coloro, cioè che, pur proclamandosi antifascisti, ritenevano opportuno “attendere”, ben nascosti ed invisibili come topi nelle fogne, l’arrivo più o meno imminente dei “liberatori”, dei quali non ascoltavano però l’appello alla lotta e alla rivolta. E così Roma, dopo l’8 settembre del ’43, e fino al 5 giugno del ’44, fu soggetta a ben 51 incursioni aeree da parte degli Alleati, alcune delle quali di livello almeno pari alle prime due, a San Lorenzo e all’Appio Prenestino, il 19 luglio e il 14 agosto del ’43. Anche questo è scomparso dalla “memoria storica”. Ma, oltre ai suoi figli renitenti alle leve nazifasciste (secondo la CIA meno del 2% dei romani rispose alla chiamata alle armi e al “lavoro coatto”, contro un 30% circa delle altre zone dell’Italia occupata), Roma difese, nascose, aiutò come poteva, oltre ai soldati che l’avevano difesa e che erano esposti ai rastrellamenti nazisti, anche i politici antifascisti, i prigionieri di guerra alleati sfuggiti l’8 settembre ai campi di concentramento italiani, gli ebrei, i partigiani e perfino la gran parte dei politici fascisti che si erano rifiutati di collaborare con i nazisti. Non a caso il maresciallo Maeltzer, comandante nazista della “piazza militare di Roma” che nel frattempo si era anche proclamato l’8° Re di Roma, il 23 marzo del ’44, subito dopo l’agguato partigiano ai miliziani dell’SS Polizei Regiment Bozen, in via Rasella, urlava, infuriato e ubriaco: “Mezza Roma nasconde l’altra metà”. Voglio riportare, a questo punto, un altro interessante dato statistico. Furono circa 650.000 gli ufficiali e i soldati italiani rastrellati dai nazisti in Italia, nei Balcani, ecc., e deportati nei campi di concentramento in Germania. Sottoposti al duro regime dei campi nazisti, ma sottoposti dai propagandisti della Repubblica di Mussolini a pressioni e lusinghe infinite, solo 50.000 di essi accettarono di aderire alla Repubblica Sociale e di tornare in patria. La gran parte di loro, tornati, si nascose o raggiunse le formazioni partigiane. I 600.000 rimasti in Germania tornarono alla fine della guerra, ma 47.000 di essi morirono di stenti e di malattie in quel lungo periodo di prigionia nei campi nazisti.

Lei a Roma ha operato nell’ambito dei GAP, i Gruppi d’Azione Patriottica. Come operavano sul territorio?

Subito dopo l’occupazione nazista, i partiti antifascisti trasformarono le loro cellule clandestine in strutture militari, le Squadre di Azione Patriottica (SAP). Il territorio della città fu suddiviso in otto zone militari, a loro volta suddivise in settori, cui fu affidata la struttura e la direzione operativa delle SAP. Le SAP furono le prime strutture militari della Resistenza romana a svolgere iniziative militari, di organizzazione, per quanto riguardava i dislocamenti zonali, le strutture, gli armamenti e di lotta, individuando gli obbiettivi da colpire con attacchi militari e atti di sabotaggio. Subito dopo il Comando delle formazioni “Garibaldi”, gestite dal PCI, decise di costituirsi una struttura militare centrale, i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) Centrali, per avere a disposizione combattenti già selezionati nell’attività delle SAP che avevano dimostrato, con la loro condotta militare, politica e morale, di poter dare le più ampie garanzie di determinazione e di successo ove fossero impiegati in operazioni particolarmente significative e/o impegnative per le loro oggettive difficoltà. L’esempio fu raccolto da altre formazioni militari: in particolare dalle formazioni di Giustizia e Libertà (Pd’A), dalle brigate Matteotti (PSIUP), e anche da altre formazioni esterne al CLN, come “Bandiera Rossa” (comunisti dissidenti dalla linea unitaria del PCI) o come i Comunisti Cattolici. Anche le Zone, visto il successo dei GAP Centrali Garibaldini, si fornirono di strutture analoghe, i GAP di Zona. I componenti di ciascun GAP erano pochi, e spesso non si conoscevano neppure tra loro; comunque, dovevano ridurre al minimo ogni collegamento familiare, sociale e politico precedente, pur senza scomparire completamente dai loro ambienti di provenienza per non destare sospetti di alcun genere. Il massimo rigore nel rispetto della clandestinità era di fondamentale importanza: i “gappisti” erano esposti a rischi elevatissimi e, pur essendo portatori di informazioni segrete, potevano cadere ancora vivi nelle mani del nemico, capace di sottoporli alle più feroci torture, e nessuno poteva sapere se sarebbe stato in grado di sopportarle, anche se ne avesse dato precedenti e significative prove. Era una “legge” cui ci sottoponemmo volentieri, che in qualche modo ci garantiva margini di sicurezza; e facevamo a gara, anzi, per rifiutare ogni notizia che riguardasse i nostri compagni, o i membri dei nostri comandi, o le staffette, o le attrezzature militari, o i siti militari e politici da cui dipendevamo. Giorgio Labò, artificiere dei GAP, e tanti altri nostri compagni, resistettero alle più spietate torture prima di essere fucilati. Gian Franco Mattei, un giovane chimico che lavorava insieme a Labò, dopo aver subito, per giorni e per notti, interrogatori e torture nel carcere nazista di via Tasso, dove operava sotto il comando di Kappler anche il feroce assassino Priebke, di cui si è riparlato di recente, per timore di cedere e rivelare qualcosa, un giorno, tornato in cella, si impiccò. Avevamo tutti uno pseudonimo: io ero “Paolo”, Carla Capponi, che poi divenne mia moglie, era “Elena”. All’epoca io comandavo il GAP “Pisacane”, il quale era costituito da cinque o sei persone, con delle variazioni. Qualche volta c’era qualcuno in meno perché c’era chi, dopo un po’, non ce la faceva più.

La sua zona d’azione è stata anche l’VIII zona, nella quale era inclusa parte del territorio dell’odierno VII ed VIII Municipio (nel quale opera il nostro giornale). Può dirci qualcosa in merito?

L’VIII zona garibaldina è stata di gran lunga una delle più attive di Roma. La sua iniziativa, politica e militare, è stata straordinaria. Nel marzo del ’44, i suoi membri superstiti furono in gran parte costretti ad allontanarsi, furono trasferiti nelle formazioni militari di montagna, in Sabina e sul Monte Tancia parteciparono il 7 aprile alla battaglia del Venerdì Santo, che dette inizio al sanguinoso periodo pasquale, da Poggio Mirteto e Monte S. Giovanni a Rieti, a Poggio Bustone, a Leonessa, ad Antrodoco. Molti partigiani caddero, in combattimento o fucilati, e vittime civili – vecchi, donne, bambini, anche di pochi mesi – furono massacrati dai criminali nazisti, tedeschi e “italiani in camicia nera”. L’VIII zona, se ricordo bene era divisa in cinque settori: Quadraro, Torpignattara, Centocelle, Quarticciolo e Borgata Gordiani. Il settore di Centocelle comprendeva anche la Borgata Alessandrina, Torre Gaia ed il Villaggio Breda. Dopo lo sbarco di Anzio, il 21 gennaio del 1944, gli alleati ci lanciarono la parola d’ordine della insurrezione generale. I GAP Centrali furono sciolti e i suoi membri furono dislocati nelle zone dove era più probabile il loro impegno in scontri militari alle spalle dei nazisti attaccati dalle avanguardie militari alleate, o come avanguardia degli Alleati per sollevare l’insurrezione della città. Carlo Salinari “Spartaco”, allora Comandante dei GAP, mi comunicò di essere stato trasferito dal Comando Centrale Garibaldino all’VIII Zona, e che io sarei dovuto andare insieme a lui con i compagni del mio GAP, tra i quali due (ma io non lo sapevo) erano di Torpignattara, Carla Capponi e un mio collega dell’Università. Mi indicò il recapito clandestino e le parole d’ordine per incontrare Nino Franchellucci, Commissario Politico della Zona. Franchellucci, a sua volta, mi dislocò a Centocelle, dove erano già pronti e armati 140 compagni delle SAP e dei GAP di zona. In un pomeriggio della terza decade di gennaio raggiunsi la borgata con l’ordine di dare inizio all’insurrezione... I compagni, che mi aspettavano, mi condussero subito in Piazza dei Mirti, dove già molta gente si era riunita. Aprii la manifestazione con il lancio delle parole d’ordine insurrezionali. Un paio di tedeschi, presenti nella piazza, capirono di che si trattava e si dileguarono: si sentiva, di lontano, il rombo dei cannoni, o dei bombardamenti degli Alleati: comunque di buon auspicio per una rapida liberazione. Parlai per una ventina di minuti... C’era molta gente, e ragazzi che non conoscevo “vennero ad iscriversi all’esercito rivoluzionario”: testualmente, mi fu chiesto così. Era, nel frattempo, sopraggiunta una pattuglia della Polizia: il comandante mi avvicinò, mi invitò ad allontanarmi. Gli risposi che non l’avrei fatto; mi chiese, allora, cosa avrebbero dovuto fare lui e i suoi uomini. Gli risposi che potevano fare quello che volevano, restare con noi o andarsene, ma noi non avremmo sgomberato. “Aspetti almeno, mi chiese, che ci allontaniamo”. “No”, gli risposi con garbo, “lei faccia quello che vuole, e pure i suoi, ma noi non ci fermiamo”. Se ne andarono, con evidente significativo sollievo sia per noi che per loro. Dalla piazza facemmo partire un corteo lungo via dei Castani nel corso del quale ebbi uno scontro a fuoco con due fascisti che erano sopraggiunti, quindi la manifestazione si disperse. Il giorno seguente tornai a Centocelle ma di fascisti e di tedeschi nemmeno la puzza... Alla sera, l’osteria di un compagno in Piazza dei Mirti, che era la nostra base, era piena di compagni, alcuni perfino con la camicia rossa, che si salutavano con il pugno chiuso. Arrivò quindi quella pattuglia di polizia che avevo incontrato il giorno prima, e si mise a nostra disposizione: l’insurrezione, a Centocelle, aveva avuto successo. Con i poliziotti, ai quali comunicai che Centocelle apriva le ostilità contro le truppe naziste in transito sulla Prenestina e la Casilina, stringemmo un accordo di reciproca comunicazione per evitare di scontrarci tra noi, soprattutto di notte (di giorno le strade di comunicazione tra Roma e Cassino erano tenute sgombre dagli aerei Alleati). Essi poi, nei giorni successivi, si prodigarono ad insegnare l’uso delle armi ai miei compagni che non avevano mai sparato; se li portavano alla Torraccia, che allora era campagna assoluta, e gli facevano scuola militare. Tutto questo durò per tutto il mese di febbraio: a Centocelle, ormai, eravamo liberi e padroni di noi stessi. Era arrivato carnevale, le donne di Centocelle ci fecero perfino il “Carnevale del Partigiano”. Di notte si usciva; attaccavamo gli automezzi nazisti che percorrevano le due strade consolari, ma non solo. Tutto sembrava calmo. Troppo… Perfino un ragazzo, o due, non ricordo bene, che avevano risposto alla leva militare dei fascisti repubblichini, poiché la sera tornavano a casa per dormire, ci consegnavano i loro mitra, la sera, e glieli restituivamo la mattina all’alba. Ma intanto gli Alleati non arrivavano, e le notizie che avevamo erano cattive: i tedeschi li avevano bloccati nella testa di ponte di Anzio. “Credevamo di aver gettato sulle spiagge di Anzio un gatto selvatico”, scrisse successivamente Churchill nelle sue memorie di guerra, “e ci accorgemmo, invece, che ci avevamo portato, ad arenarsi, una balena”. I trasteverini scrissero un graffito sopra un muro del loro quartiere: “Americani, resistete. Presto verremo a liberarvi”. Ma la storia di “Centocelle libera” era finita. I GAP Centrali furono richiamati in città, a disposizione del Comando Garibaldino. Un rastrellamento nemico, aiutato da qualche miserabile residuo repubblichino, permise ai nazisti e ai collaborazionisti di recuperare il territorio dell’VIII zona, i cui combattenti, come ho già detto, furono trasferiti in montagna. Uno di loro, Giordano Sangallo, un ragazzo di 16 anni, già membro del mio GAP “Pisacane”, che era tornato con me all’VIII ed era poi stato trasferito in Sabina, cadde sul Monte Tancia nella battaglia del Venerdì Santo, insieme ad altri 5 partigiani romani e sabini, per tenere aperta il più a lungo possibile, con due mitragliatrici, la strada di ritirata alla loro brigata. Alcuni di loro, invece, scelsero di rimanere in “Zona” dove continuarono la lotta e tra essi vi fu chi pagò con la vita o con la deportazione in Germania, la loro Resistenza. Tra questi Valerio Fiorentini, eroico comandante dei GAP di zona, Caduto alle Fosse Ardeatine, Ugo Urbani, comandante militare del settore di Centocelle e suo figlio, e circa mille uomini del Quadraro che, nell’aprile successivo, furono rastrellati per distruggere quel “nido di vespe”; deportati in Germania, gran parte di loro non è più ritornata.

Un episodio che la riguarda da vicino è l’attacco dei partigiani in via Rasella. Vuole raccontarci come andarono le cose in quel 23 marzo del 1944?

Quando tornai da Centocelle, il Comando Centrale Garibaldino aveva già notato il transito quotidiano, nelle vie del centro storico della città, di una compagnia della polizia nazista che verso le due del pomeriggio rientrava da Porta del Popolo; per via del Babbuino raggiungeva via del Tritone e, per via del Traforo, si immetteva lungo una stretta strada in salita, la via Rasella, parallela a via del Tritone, che dal Traforo raggiunge le “4 Fontane”; il reparto, di lì, attraversava via Nazionale e si arrestava al palazzo del Viminale, dove era acquartierato in quello che era stato il Ministero degli Interni, ormai dal dicembre del ’43 trasferito a Salò, insieme a tutto il “governo fantoccio” repubblichino. Era l’11a Compagnia del 3° Battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen, composto da altoatesini chiamati alle armi dopo l’annessione del Nord Est italiano al 3° Reich, avvenuta il 1° ottobre del ’43: nella regione dell’Alpenvorland, delle provincie di Trento, Bolzano e Belluno; nella regione dell’Adriatisches Kustenland, delle province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. Rilevo, per inciso, che la pesantissima mutilazione inflitta al territorio nazionale italiano da Hitler avvenne malgrado la restaurazione del fascismo, sia pure repubblichino, operata dal Mussolini di Salò, e per la quale i “patrioti” delle Brigate nere di Alessandro Pavolini, della X MAS di Valerio Borghese, dell’Esercito repubblichino di Rodolfo Graziani, non fecero una grinza. La truppa nazista che transitava per il centro della nostra città, vestita delle stesse divise verde-ramarro che avevano “operato” in Roma il rastrellamento dei Carabinieri del 7 ottobre del ’43, quello del Ghetto del 18 ottobre, quelli, ripetuti, prima e dopo quelle date, al centro e alla periferia della città. Quella “Compagnia” attraversava Roma armata fino ai denti, con bombe a mano appese alla cintola, con mitra e fucili pronti all’uso, preceduta e seguita da due pattuglie motorizzate armate di mitragliatrice pesante con servente al pezzo, cantando nella lingua di Hitler, che non era più, per noi, quella di Goethe. Quei poliziotti in divisa nazista non erano lì per caso: erano “volontari”, infatti, che avevano scelto la polizia e non l’esercito, per due ragioni: evitare il durissimo fronte russo e avere un “soldo” più elevato. Con questo nobile intento avevano giurato fedeltà a Hitler, ed erano in corso di addestramento per la noble art della caccia ai partigiani, agli ebrei, ai renitenti alle leve militari e del lavoro, agli antifascisti, e della repressione di eventuali moti popolari. In questo altri reparti dello stesso reggimento si copersero di vergogna nel Bellunese, nella Valle del Biois, in Istria, ecc. e furono processati e condannati, alla fine della guerra, da tribunali militari Alleati. Fui immediatamente impegnato dal Comando dei GAP Centrali alla preparazione del piano per l’attacco, già ideato, che il Comando aveva disposto dovesse avvenire in via Rasella, strada poco frequentata, con pochi portoni e nessun negozio nella sua parte più a monte. L’attacco infatti doveva avvenire da due parti. Una prima squadra, di cui io ero il centro, avrebbe fatto brillare una grossa mina disposta in un carretto delle immondizie nella parte alta della strada, con un tempo di esplosione di circa 50 secondi dal momento dell’innesco. Subito dopo una seconda squadra, composta da quattro uomini, sarebbe sbucata da una traversa a valle e avrebbe lanciato bombe da mortaio d’assalto, modificate per l’uso manuale, con un tempo di esplosione di circa 6 secondi dall’innesco. Furono, per più giorni, valutati gli orari di transito e i tempi di percorrenza della colonna da un punto a valle, da cui avrei avuto il segnale di “via”, al punto in cui la mina, disposta quasi in mezzo alla strada, avrebbe potuto colpire il centro della colonna nemica. Così, il 23 marzo del ’44, alle 15,52, dopo essermi portato il carretto dal nostro deposito presso il Colosseo, attraverso tutto il centro, fino a via Rasella, dopo circa due ore di attesa in via Rasella per il ritardo della colonna rispetto al transito di essa nelle giornate precedenti, accesi la miccia. Mi avviai lentamente verso l’alto, dove mi attendeva Elena (Carla Capponi) con un impermeabile che avrebbe coperto il mio camice da netturbino, e seguito da due compagni che mi facevano da scorta, oltre che dalle prime file della colonna che marciavano dietro di me a pochi passi, avvenne l’esplosione. L’avanguardia con la mitragliatrice pesante, per nostra fortuna, era passata già qualche minuto prima. Raggiunsi Carla, m’infilai l’impermeabile; i miei compagni e io avevamo appena superato l’angolo di via Rasella che dal giardino di palazzo Barberini, antistante la via, sbucò una squadra di Guardie di Finanza, dislocate costà, a stendere il primo cordone (la zona era guardata a vista, di giorno e di notte, da posti di blocco fissi e da pattuglie mobili, essendo la via Veneto, a poche diecine di metri di lì, la “cittadella” in cui erano asserragliati, nei comodi alberghi di lusso che arricchivano quella strada, i principali comandi militari dei nazisti, e che noi, già nei primi mesi della Resistenza romana, avevamo attaccato più volte (il 17 dicembre, il 18 dicembre, il 19 dicembre, il 28 dicembre, ecc.). Sentimmo i colpi delle esplosioni prodotte dalle granate di mortaio dei nostri compagni del secondo assalto, ma anche molti altri: infatti alcune bombe a mano, che i poliziotti nazisti portavano agganciate alla cintola, esplosero “per simpatia”, o per essere state raggiunte dalla fiammata che i diciotto chili di tritolo disposti nella nostra mina avevano emesso nell’esplosione. I nostri compagni a valle di via Rasella si sganciarono invece dal nemico ricorrendo alle armi da fuoco corte che ciascuno di noi portava con sé. Ci ritrovammo, come disposto, un’ora dopo l’attacco nei giardini di Piazza Vittorio.

Il revisionismo è una piaga che sempre più spesso, in un pericoloso crescendo, stravolge la storia e genera mostri che sovente vanno a minare la vita democratica. Può parlarci delle “mistificazioni” e dei “falsi storici” sull’attacco partigiano di via Rasella e sulla strage delle Ardeatine?

Il nostro rigoroso isolamento cospirativo non ci permise di cogliere voci o effetti – sul nemico e sull’opinione pubblica – che il nostro agguato in via Rasella potesse aver provocato. Del resto era un’abitudine della stampa fascista di non riportare gli eventi della guerriglia urbana condotta dalle diverse formazioni della Resistenza romana. I giornali tacevano, la radio non ne parlava, la gente non sapeva altro che quello che accadeva sotto i suoi occhi, sotto casa sua o nelle strade immediatamente intorno ai luoghi che frequentava. Le strade romane erano pressoché deserte, soprattutto di uomini, la cui gran parte era nascosta e comunque cercava di non esporsi alle improvvise retate dei nazisti. Ma gli attacchi della guerriglia erano sempre più frequenti. Kappler, il boja delle Ardeatine, nel corso della sua prigionia nel carcere militare di Gaeta ha dichiarato in un’intervista rilasciata al comandante di quel carcere, il Prof. Renzo Di Mario, che l’ha pubblicata nel volume “Orrore e pietà – dal Reich alle Fosse Ardeatine” (pag. 216 e segg., ed. Sovera, Roma, 1999), che in Roma, “dall’inizio dell’autunno gli attentati dei gappisti, sempre più inattesi, pericolosi e bestiali, non si contavano più contro le truppe tedesche e i collaborazionisti fascisti della RSI…”, e dopo lo sbarco di Anzio da parte degli Alleati (21 gennaio 1944) ebbe occasione di registrare una media, in città, di otto attacchi partigiani o sabotaggi al giorno. Ma già prima di quella data, per la straordinaria attività di guerriglia che si svolgeva nelle strade di Roma, dal centro alla periferia, di giorno e di notte, già nel dicembre del 1943 il coprifuoco fu esteso dalle autorità militari naziste dalle 19,30 alle 6,30 del giorno successivo, fu proibito l’uso serale delle biciclette dal 18 di dicembre del ’43 e, dopo il 26 dicembre, ne fu proibito l’uso per tutta la giornata. Inoltre, ma questo lo abbiamo appreso solo qualche anno dopo, una “velina” del Ministero della Cultura Popolare, incaricato della censura preventiva imposta alla stampa, ed emessa all’alba del 24 marzo, giorno immediatamente successivo all’attacco partigiano di via Rasella, prescrisse ai giornali che uscivano nell’Italia occupata dai nazisti: «24 marzo Per quanto riguarda l’incidente di ieri in via Quattro Fontane (via Rasella) attendere un comunicato Stefani». E il giorno successivo: «25 marzo I giornali romani dovranno pubblicare un comunicato relativo all’attentato di via Rasella nella metà superiore della prima pagina senza titolo, su due colonne in grassetto e con filetti di demarcazione in alto e in basso», e invitava per le 11,30 «i Direttori dei giornali romani e della Stefani presso l’ufficio del Sottosegretario per avere “elementi sui commenti che si potranno fare circa l’attentato di via Rasella”» (C. Matteini, “Ordini alla Stampa”, Ed. Polilibraria Italiana, Roma, 1945). E infatti fu questo il primo annuncio dell’attacco partigiano, scattato alle 15,52 del 23 marzo, per il quale solo alle 23,30 della stessa data fu decisa la ritorsione nazista delle Fosse Ardeatine, che iniziò di fatto alle 14 del giorno successivo, 24 marzo, circa 22 ore dopo l’agguato di via Rasella, si concluse alle 19 dello stesso giorno, e fu comunicato dai giornali al pubblico e alla città di Roma solo alle 12 del 25 marzo (i giornali, infatti, per motivi di coprifuoco, uscivano a quell’ora). Il comunicato Stefani dava in contemporanea – e per la prima volta – notizia a Roma e al mondo dell’azione partigiana e dell’ordine di ritorsione nazista, concludendo: “Quest’ordine è già stato eseguito”. Il 26 marzo il Comando Militare nazista ritenne di pubblicare a sua volta un suo comunicato ove, pur ripetendo la condanna per l’attacco dei “comunisti-badogliani” ispirato dagli Alleati, affermò, contro ogni evidenza, che era stato sempre rigorosamente rispettato lo stato di “città aperta” proclamato per Roma (dove?, come?, quando?), e che avrebbero “continuato” a garantirlo. Effettivamente qualche modifica nel comportamento degli occupatori fu verificata: infatti, pur servendosi ancora di Roma e delle sue risorse, fu in qualche modo fortemente ridotto il transito delle truppe da e per il fronte nella città e nei suoi nodi stradali e ferroviari. Ne seguì, dopo qualche giorno, la sospensione delle incursioni aeree sull’area cittadina, che ripresero però, dopo lo sfondamento Alleato del fronte di Cassino, verso la metà di maggio, quando il grosso dell’esercito nazista riprese a transitare, nella sua ritirata verso il nord, per le strade di Roma. Il 28 marzo, di fronte al turbamento che aveva scosso Roma e il mondo per l’infamia nazista, il segretario federale dei fascisti repubblichini di Roma, Giuseppe Pizzirani in un suo comunicato emise per la prima volta il falso spudorato dell’invito nazista ai partigiani di arrendersi per evitare la strage. Da allora, malgrado le infinite smentite apparse sulla stampa, nei processi dei tribunali militari alleati e italiani, e in quelli penali e civili svolti dalla magistratura ordinaria, dalle ricerche storiografiche, ecc., questa colossale panzana viene ripetutamente riproposta da qualche superficiale imbecille e da mistificatori di professione. Ma il 28 marzo l’azione partigiana del 23 in via Rasella venne invece rivendicata ufficialmente da un comunicato del CLN Nazionale come atto legittimo di guerra della Resistenza, e venne condannata la strage delle Ardeatine come delitto contro l’umanità, con la sollecitazione ai romani a continuare la lotta fino alla vittoria della democrazia. Quel comunicato ebbe, nel CLN, solo un voto contrario, quello della DC, prona alle direttive della Curia romana di papa Pacelli, che invece su L’Osservatore Romano, prima ancora dei giornali fascisti, già il 25 marzo commentava in un modo che fu molto gradito ai nazisti gli eventi del 23 e 24 marzo. Eppure lo stesso Kappler, in sede di tribunale militare che lo condannò all’ergastolo per la strage delle Ardeatine, ammise che la fretta di eseguire l’ordine di Hitler che pretendeva l’esecuzione di essa “entro le 24 ore” gli aveva impedito di svolgere una qualsiasi ricerca dei partigiani “colpevoli” dell’attacco ai poliziotti nazisti; egli specificò che l’opportunità alla massima fretta e alla più scrupolosa segretezza gli era stata suggerita anche dal timore, ove fosse trapelata la notizia delle feroci disposizioni emesse dall’alto comando germanico alle ore 23,30 del 23 marzo, delle possibili reazioni della cittadinanza romana e della Resistenza, che fin dai primi giorni dell’occupazione aveva duramente colpito le truppe e i comandi militari nazisti e i collaborazionisti fascisti. Perfino il Maresciallo Kesselring riconobbe, in seguito alle ripetute domande del presidente di un Tribunale Militare Britannico che stava processando i marescialli nazisti Maeltzer e Mackensen proprio per la strage delle Ardeatine, che non fu fatto nessun annuncio alla popolazione e alla Resistenza perché i responsabili dell’attacco partigiano fossero consegnati al nemico onde evitare la ritorsione nazista. La strage delle Ardeatine entrò anche nei capi d’accusa imputati dalla Corte Internazionale di Norimberga al comandante in capo nazista, von Keitel, e gli valse la condanna a morte. Anche Kesselring, Maeltzer e von Mackensen furono condannati, per essa, alla pena capitale da tribunali militari alleati. La pena di morte fu commutata poi in ergastolo e, successivamente Kesselring e von Mackensen furono graziati. Kappler e Priebke, principali responsabili e criminali esecutori di quella strage, furono a loro volta condannati all’ergastolo (in Italia la pena di morte era stata abolita) per “omicidio continuato e aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà” da tribunali militari italiani. Le sentenze furono confermate dalla Suprema Corte Militare e dalla Cassazione penale.

Quale fu l’atteggiamento della Chiesa in relazione a quei fatti, in particolare riguardo l’eccidio delle Fosse Ardeatine?

Anzitutto distinguerei il comportamento della Chiesa – e dei cattolici, in genere – da quello della Curia romana. Conventi e luoghi di culto hanno accolto, protetto, nascosto i perseguitati, e due sacerdoti sono stati uccisi per questo, in Roma, dai nazisti: Don Pappagallo, assassinato alle Fosse Ardeatine, Don Morosini fucilato al Forte Bravetta. Un terzo, Don Chiaretti, è stato fucilato in Sabina insieme ai partigiani di Leonessa. Ma torniamo all’eccidio delle Ardeatine. Secondo alcuni biografi di Pio XII il Papa seppe della strage avvenuta il 24 marzo solo al mattino del 25. Comunque, secondo gli Atti della Santa Sede, Vol. 10, pag. 189, si riscontra che la mattina del 24, al le ore 10,15, certo “Ing. Ferrero, del Governatorato di Roma (non identificato, si registra in nota 1 a pie’ di pagina) dà particolari circa l’incidente di ieri” sostanzialmente inesatti, ma, si afferma, “finora sono sconosciute le contromisure; si prevede però che per ogni tedesco ucciso saranno passati per le armi 10 italiani. L’Ing. Ferrero spera di dare più tardi maggiori particolari”. Ma come! Non erano stati affissi manifesti, come puntualizzò per primo il federale romano del fascio repubblichino il 28 marzo del ’44, Giuseppe Pizzirani; come fino a qualche mese fa affermò perfino Bruno Vespa, e tanti altri sapienti storici, e memorialisti, e “testimoni” di quelle terribili giornate? Ed è possibile che al Vaticano (e al Papa!) tali voci – meglio ancora, tali “certezze” –, non fossero pervenute? Inoltre, nella Sentenza del Tribunale Penale di Roma, 27 settembre 1975, dep. il 30 aprile ’76, nella causa per diffamazione indetta dai “Nipoti Pacelli contro R. Katz, G. Kosmatos e altri” per la pesante critica contenuta nel film “Rappresaglia” circa il comportamento del Pontefice a proposito della strage delle Ardeatine, in particolare si afferma, come “unica verità”, che prima del 25 marzo del ’44 né manifesti, né avvisi radio, né bandi, né comunicati dell’Alto Comando Germanico annunciarono o minacciarono “misure di rappresaglia da adottare con riferimento ad eventuali azioni terroristiche o a seguito di attentati effettivamente eseguiti”. Del resto, il Tribunale Internazionale di Norimberga, i Tribunali Militari Italiani e Alleati, la Cassazione Civile a Sezioni Riunite, la Cassazione Penale, non hanno riconosciuto mai, nelle stragi e nelle ritorsioni naziste e fasciste, una “legittima rappresaglia”, così come è configurata nell’art. 50 della Convenzione dell’Aja del 1907 (primo firmatario la Germania), nella successiva Convenzione di Ginevra del 1929, che la riconfermava, e nei provvedimenti di legge prodotti dagli Stati firmatari, compresa la Germania, in applicazione di esse. Ma tant’è. Diceva un noto intellettuale italiano: “Non c’è niente di più inedito, in Italia, di quanto è stato pubblicato centinaia di volte”. Ma torniamo, ancora per un po’, al comportamento della Curia Romana nel corso dell’occupazione nazista. Il 12 marzo del ’44, anniversario dell’ascesa al Soglio Pontificio di Papa Pacelli, centomila romani si recarono a rendergli omaggio, e a manifestare per ottenere il suo intervento contro la presenza in Roma di Alti Comandi e truppe naziste, che giustificavano le frequenti incursioni aeree alleate sulla città, come abbiamo già detto sopra. Il Papa se la prese duramente con gli Alleati, maledicendo la loro guerra aerea, condotta contro Roma malgrado la dichiarazione di “città aperta”. Ma “dimenticò” anche lui quanto era già stato affermato da Kesselring, al momento della proditoria occupazione di Roma, che la città era “territorio in stato di guerra”, come del resto il Presidente Roosevelt aveva già precisato, e che tornò a precisare. Silenzio assoluto sulla illegittimità della presenza dei nazisti. Silenzio assoluto, del resto, come dopo il rastrellamento dei Carabinieri, o quello del Ghetto, o i rastrellamenti nelle case, nelle piazze, nelle strade romane degli uomini che si erano rifiutati di rispondere ai bandi militari e del lavoro obbligatorio. Silenzio assoluto, come dopo la strage delle Ardeatine, del rastrellamento del Quadraro, delle esecuzioni ripetute al Forte Bravetta e, perfino dopo la cacciata dei nazisti da Roma, dell’infame massacro della Storta. A parte il primo terrificante silenzio che Papa Pacelli praticò, insabbiando la lettera pastorale di dura ed esplicita condanna del nazismo approntata da Papa Pio XI, e che egli non potè pubblicare per l’improvvisa morte che lo colse in pieno benessere nei primi mesi del 1939. Quella lettera, se pubblicata, avrebbe forse potuto scongiurare la Seconda guerra mondiale o, quanto meno, l’ingresso dell’Italia in essa al fianco di Hitler. È un fatto, comunque, che L’Osservatore Romano, organo della S. Sede, prima di qualsiasi altro giornale, e cioè il 25 marzo del ’44, a commento del noto comunicato Stefani che annunciava l’avvenuta strage delle Ardeatine, espresse la più dura condanna della Resistenza con un commento non firmato in cui i poliziotti delle SS caduti in via Rasella sono definiti “vittime innocenti”; i Martiri delle Ardeatine sono indicati freddamente solo come “trecentoventi persone sacrificate”; i partigiani sono i “colpevoli sfuggiti all’arresto”; ai criminali nazisti, ancora lordi del sangue dei Martiri, quali portatori di responsabilità di governo (i “responsabili”) si chiede, a strage avvenuta, “coscienza di questa loro responsabilità verso sé stessi, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà”; i membri della Resistenza sono invece gli “irresponsabili”, privi di “rispetto della vita umana, che non hanno il diritto di sacrificare”.

Ma arriviamo un istante ai giorni nostri. Nella nostra città, in particolare, stiamo assistendo ad una preoccupante scalata di gruppi neo-nazifascisti. L’apertura di luoghi quali “Casa Pound” e “Foro 753” nonché la massiccia campagna mediatica operata da gruppi d’estrema destra, sono un sintomo di quanto il problema del neo-nazifascismo sia sottovalutato, quando non addirittura assecondato. Cosa si sente di dire a quei giovani che oggi sono affascinati da quelle idee di morte e di negazione di qualsiasi tipo di libertà e di democrazia?

State attenti, non vi fate fregare da “cattivi maestri”: la cosa più bella al mondo è la pace tra uomini liberi. Lo sappiamo noi che abbiamo dovuto batterci nella più feroce delle guerre, e abbiamo visto cadere, al nostro fianco tanti amici, tanti compagni, tante persone che ci erano care, per poterla ottenere. Che abbiamo vissuto i bombardamenti, la fame, la tubercolosi, il colera; abbiamo visto mucchi di uomini, donne, bambini, vecchi, massacrati, accatastati uno sull’altro come rifiuti. Abbiamo dovuto uccidere altri uomini, esperienza spaventosa, disumana, orribile, anche se quegli uomini ci avevano privato della pace perché prima ci avevano privato della libertà, e commettevano innominabili crimini contro l’umanità che vedevamo soffrire intorno a noi. La guerra è la cosa più sporca, più ignobile, che all’uomo possa capitare di vivere, anche se i fascisti la acclamavano e la invocavano come “unica igiene del mondo”. Se ne esce tutti più sporchi, anche quelli che sono stati costretti a battersi per recuperare, con la libertà, la pace: per sé e per tutti. È per questo che annovero, tra le vittime del fascismo, anche quei fascisti – soprattutto i giovani – che sono stati uccisi da noi. Sia chiaro, io non mi proclamo “pacifista”: questo termine è una caricatura e una menzogna; né un “non violento”. Contro la ferocia del nazismo non so cosa – di pacifista e di non violento – si sarebbe potuto fare. La “pace senza se e senza ma”? Ci ha provato a Monaco, nel ’38, l’Inghilterra di Chamberlain. Il primo ministro inglese ottenne perfino l’applauso di Mussolini, che lo salutò come “alato messaggero di pace”. Ma che bel risultato ne ha ottenuto! Mi sento ancora un “partigiano della pace”, ma so che questa ha come presupposto la libertà, e quindi è ottenibile solo in un mondo di liberi e di eguali. È per questo mondo che dobbiamo continuare a batterci, ma in una civile competizione regolata dalla democrazia, nel reciproco riconoscimento della legittimità democratica, nell’incontro e nello scontro, anche vivace, ma rispettoso delle diverse opinioni. Abbattiamo gli steccati che hanno diviso gli uomini, mescoliamoci, parliamo, tra noi e con tutti. Non è “buonismo”, questo: dobbiamo imparare dai disastri che hanno travolto gli uomini nei millenni della loro lunga esistenza, dalla Preistoria alla Storia, che ogni integralismo, politico, religioso, ideologico, è eretto in difesa di poteri mistificatori, e sostiene e mantiene il dominio dell’uomo sull’uomo. E si serve anche del dio dei kamikaze e degli imam, o dei nazisti, che recavano scritto sulle fibbie di bronzo delle loro cinture di miserabili assassini il motto “Got mit uns”, Dio è con noi. O, andando più in là nel tempo, il dio dei sanfedisti che massacrarono con i forconi, a Sapri, nel 1857, i “trecento giovani e forti” di Carlo Pisacane; o, addirittura, quello delle guerre di religione, della caccia alle streghe, dei roghi della Santa Inquisizione. Pensate cosa sarebbe il mondo, oggi, se l’umanità potesse disporre delle ricchezze che abbiamo distrutto, nel secolo scorso, con guerre infinite ma, soprattutto, con le due guerre mondiali, anche se l’ultima, e cioè la rivolta vittoriosa dei popoli contro il fascismo, pur se scatenata e segnata dalla ferocia degli aggressori nazifascisti, con la loro sconfitta ha comunque garantito all’Europa un periodo di pace e di sviluppo economico e sociale di oltre settanta anni, tanto lungo, cioè, come non si è mai verificato nella sua Storia. Attenti, quindi, alle restaurazioni, contro la democrazia e la laicità dello Stato, di cui si sente, oggi, anche in Italia, una gran puzza e un gran rumore, e che l’aggressività mediatica del Cavaliere, o qualche giaculatoria nel latino lefevriano e anticonciliare, sia pure condite da qualche fumata di incenso, non riescono a nascondere.

(a cura della cellula FGCI Sezione PdCI “Ilio Barontini” – Municipio Roma delle Torri)

Patria indipendente, settembre 2007

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