Patria indipendente

«Respirano ancora» e i nazifascisti sparano di nuovo

 

di Luca Madrignani

 

«Il 16 settembre 1944, intorno alle ore 16, un plotone di SS tedesche della Sedicesima Divisione Corazzata al comando del maggiore Walter Reder, appoggiato da reparti fascisti della Brigata Nera di Apuania, entra nell’abitato di Bergiola Foscalina. Lo squadrone procede ad un sistematico rastrellamento di casa in casa. Agli abitanti del paese, in prevalenza donne e bambini, viene ordinato di raccogliersi nel palazzo delle scuole, in quel momento rifugio di alcune famiglie di sfollati. Una volta radunata la popolazione, militari tedeschi e fascisti aprono il fuoco, terminando poi l’opera col lancio di granate e bombe incendiarie. A nulla vale il sacrificio del maresciallo della Guardia di Finanza Vincenzo Giudice, freddato sulla porta dell’edificio. Nel frattempo intere famiglie che avevano cercato scampo nelle case del paese vengono trucidate e i resti dati alle fiamme. Dopo alcune ore di Bergiola non resta che un cumulo di macerie fumanti. Gli abitanti, riparati nei boschi, torneranno il giorno seguente per dare sepoltura ai cadaveri. Si conteranno 72 vittime, di cui 43 donne, 15 adolescenti, 14 bambini». È la didascalia iniziale del documentario-intervista “Bergiola Foscalina - 16 settembre 1944/ 2004”, realizzato da “Linea Gotica” [www.lineagotica.info] con le riprese del regista Gabriele Lucchetti, e presentato nell’ambito dell’omonima iniziativa per celebrare il 60° anniversario della strage. Per una settimana, dal 12 al 19 settembre, uno spazio aperto è stato visitato da centinaia di persone che hanno potuto vedere la bellissima mostra fotografica, curata da Gianni Fustighi e Annalia Petacchi, e la messa in onda a ciclo continuo del documentario. Un’iniziativa partita dal basso, resa possibile dalla collaborazione di tutto il paese all’idea nata e fortemente voluta da Michele Cappè e dal Gruppo Sportivo del paese. Collaborazione che va dal lavoro fatto dai ragazzi della Pubblica Assistenza locale per allestire uno spazio adeguato, alla disponibilità delle quindici persone che hanno lasciato la loro testimonianza, creando un prezioso archivio audiovisivo. «È la memoria che si concretizza, si materializza», dice Enzo Bocedi, dell’ANPI di Carrara, il giorno dell’apertura. I complimenti sono arrivati anche dal sindaco di Eboli, paese natale di Vincenzo Giudice, giunto a Bergiola, come ogni anno, la mattina del 16 settembre per ricordare il sacrificio del suo compaesano. Quest’anno, oltre alle celebrazioni della Guardia di Finanza e del Sindaco di Carrara Giulio Conti, ha trovato un clima diverso. La sera precedente, sotto un vero e proprio diluvio, era arrivato il monumento alla strage, un blocco di marmo alto cinque metri, per il quale l’intero paese si era mobilitato da mesi. Nel pomeriggio la sua inaugurazione, il momento culminante di tutta la settimana, con la presenza di Francesca Ampelio Coppelli, rispettivamente Presidente del Comitato Provinciale e della Sezione Comunale ANPI, di Marsiglia Morelli, assessore del Comune di Carrara e del Vescovo della Diocesi Monsignor Eugenio Binini. “16 settembre 1944/16 settembre 2004”: è tutto qui il senso e lo spirito di un’iniziativa che vuole ricordare, ma non solo. Lontana dalle celebrazioni stantie, fatte di minuti di silenzio, cerimoniali e autorità in parata, essa vuole parlare. Vuole farsi ascoltare. E in tanti hanno ascoltato la testimonianza dei sopravvissuti che all’epoca erano, per la maggior parte, ragazzini. E donne, mogli, madri, sole perché i loro uomini o erano stati rastrellati o avevano scelto la via della montagna. Loro scelsero di restare, coi loro figli e gli anziani, anche quando cominciò a circolare la voce dell’uccisione di un tedesco lì vicino, sulla strada della Foce che collega Carrara con Massa. Anche quando si sentì parlare della possibilità di una rappresaglia. Non c’erano formazioni partigiane vicino a Bergiola, o quantomeno erano più vicine ad altri paesi. Se invece fossero arrivati, si diceva, al massimo avrebbero saccheggiato le case. Di ciò che era accaduto a Vinca, circa due settimane prima, forse non era arrivata notizia, forse era arrivata ma nessuno ci voleva credere. Si salvò chi, avvisato dell’arrivo imminente dei nazifascisti, fuggì a piedi verso Carrara ed ebbe la fortuna di non incontrarli lungo l’unica strada che conduce al paese. Dentro il quale, intanto, si stava scatenando l’inferno. Le prime vittime vengono fatte nelle case, dove si è nascosto chi non vuole incamminarsi verso la scuola. In una di queste ci sono Alvarina Cappè e Maria Pavoli, entrambe bambine, con due sorelle e la madre di quest’ultima. Ricordano di essere state messe in fila dietro alcuni sacchi di grano, nella stanza da letto, poi l’arrivo della prima raffica di mitra e il lancio di una bomba a mano. Alvarina e Maria sono ferite, si parlano, con un filo di voce, per capire cos’è successo. È a questo punto che Alvarina sente, provenienti dall’ingresso, quelle parole: “Respirano ancora”. Parte una seconda scarica, che uccide la madre e una sorella di Maria. All’esterno, intanto, bruciano le case e non solo. Nella scuola non c’è scampo, o quasi. Dese Dell’Amico, Maria Morelli e Saura Salutini si salvano, anche loro per caso, anche loro bambine, chi nascosta dentro un armadio, chi avvolta in un lenzuolo per proteggersi dal fumo e poter respirare ancora. Dese vede ciò che le accade attorno, vede le persone cadere sotto i colpi delle mitragliatrici, vede lanciare le bombe a mano, poi vede arrivare un uomo, fare un cumulo di fogliame secco e appiccare un incendio. Il 18 maggio 1950 si concluse, presso la Corte d’Assise di Perugia, il processo contro la Brigata Nera di Apuania. Ruggero Ciampi, Paris Capitani, Italo Masetti, Giuseppe Diamanti e Linda Dell’Amico furono ritenuti responsabili dei reati di collaborazione e strage per i fatti di Bergiola e condannati all’ergastolo. La pena, visti i decreti di amnistia e indulto del 22/6/1946, 9/2/1948 e 23/12/1949, fu immediatamente commutata in 19 anni di reclusione. Se è vero che il dovere del giudice è chiudere un caso, mentre quello dello storico è tenerlo aperto, è anche vero che la raccolta di testimonianze è preziosissima per entrambi, che però le usano in senso opposto. Dato che una sentenza sul caso l’abbiamo già, non resta che mettersi i panni del secondo, ponendo quesiti che suscitino problematiche ancora vive. Il testimone è Lido Galletto, “Orti”, Comandante partigiano dell’omonima formazione operante tra le Prealpi Apuane Occidentali e la Bassa Lunigiana.

Comandante Orti, spesso, nel senso comune, si tende a dimenticare il ruolo attivo che i fascisti delle Brigate Nere hanno avuto nelle stragi del ’44. Se ne parla come di violenze solamente naziste. Che idea ti sei fatto, negli anni, di questo atteggiamento e delle sue cause?

C’è una specie di mortificazione morale, come cittadino italiano, ad accettare che altre persone della stessa nazionalità si possano avventare così ferocemente sulla popolazione inerme.

Allora è un sentimento che viene dal basso, non c’è una volontà politica che tende ad influenzare l’opinione pubblica?

C’è stato anche e soprattutto questo, fin dall’immediato dopoguerra. Dopo il tentativo di pacificazione fatto da Togliatti con l’amnistia, i poteri forti hanno alleggerito anche la posizione di coloro che non vi rientrarono: dovevano essere svolti molti processi ma, per quanto riguarda il nostro territorio, si tenne solo quello di Perugina sui delitti commessi a Vinca e a Bergiola Foscalina.

Qual è il motivo di questo comportamento? Se pensiamo alla vicenda dell’«armadio della vergogna», ad esempio, si dice che i fascicoli occultati persino alla Commissione d’inchiesta parlamentare contengano nomi “scomodi”...

Sì, il motivo è proprio questo. La stessa situazione che si verifica a Roma, sulla questione dell’armadio della vergogna, si ripete anche a livello locale. C’è una sorta di reticenza, un’omissione volontaria con l’intento non della pacificazione, ma semplicemente di dimenticare e far dimenticare. Qualche volta questo atteggiamento è dettato da questioni di carattere sociale.

Allora pensiamoci noi a ricordare: perché in quei giorni di settembre si concentra una così grande quantità di eccidi? Ricordiamo che il 16 settembre, oltre a quello di Bergiola Foscalina, viene commesso anche il massacro delle Fosse del Frigido a Massa, in cui vengono trucidate 147 persone.

Perché il comando del 16° Battaglione SS aveva ricevuto l’ordine, dal Comando Supremo in Italia, di lasciare il territorio per svolgere l’azione di rastrellamento e rappresaglia sul Monte Sole, nell’Appennino Tosco-Emiliano, contro la Brigata Garibaldi Stella Rossa e dopo rastrellare e bruciare i fabbricati in tutto il territorio del Comune di Marzabotto. Quindi, dopo i grandi eccidi di agosto a Castelpoggio, S. Terenzo, Vinca e in tutti i paesi e contrade della Bassa Lunigiana, si ha una recrudescenza della ferocia nazista e fascista. Il carosello di morte comincia a Massa, il 10 settembre 1944, quando i soldati tedeschi delle SS prelevano, dal carcere giudiziario del castello Malaspina, dieci monaci della Certosa della Farneta di Lucca e, unitamente, 14 detenuti politici. Dopodichè li fucilano a piccoli gruppi in varie località periferiche della città. Tutto questo per terrorizzare la popolazione e spingerla a lasciare la città entro il 15 settembre, come aveva disposto il Comando Militare tedesco della Piazza.

In quei giorni, dopo le stragi e i rastrellamenti del mese di agosto, stai tentando di riorganizzare la guerriglia nella zona della Bassa Lunigiana. Quindi sei un testimone diretto dell’eccidio di Tenerano.

Il 13 settembre, nel tentativo di distruggere la nostra formazione ancorata sulla Rocca di Tenerano, una Compagnia di SS del 16° Battaglione circonda all’alba la valle di Bolignano, dove si trovava il nostro campo. Non trovandoci, poiché ci eravamo sganciati nella notte, scendono verso il fondovalle e si accaniscono contro le famiglie Forfori e Antoniotti, uccidendole e bruciando i loro casolari. In quel rastrellamento morirono dieci persone, compresi cinque bambini, di cui uno di solo un anno. Finito l’eccidio, sentivamo a cadenze ondulate cantare la canzone Lili Marlene: era la Compagnia di soldati tedeschi che, dopo aver razziato lo scarso bestiame nel paese di Tenerano, s’incamminava incolonnata verso Monzone. Ho già descritto questa memoria nel mio libro “La lunga estate”: «Il coro era portato dalla brezza della sera che si spandeva dal Lucido lambendo con la sua breve carezza le chiome turgide degli alberi, ancorati come membrana alle ripide ondulazioni tra Viano e Tenerano, disperdendosi su per la collina».

Monzone, però, aveva già subito le violenze nazifasciste nell’agosto con l’uccisione e lo sfollamento della quasi totalità dei suoi abitanti. Chi furono allora i giustiziati del 14 notte? A Monzone di Fivizzano, concentrati nella segheria Walton, si trovavano i rastrellati del territorio. Tra di essi furono individuati 18 detenuti politici tra i quali Don Florindo Bonomi, curato di Fosdinovo, e due Carabinieri. Nella notte del 14 settembre li uccisero, in località Trecase, con raffiche di mitra e mitragliatrici. Due di questi si precipitarono, prima dell’esecuzione, nel sottostante fiume Lucido, e nell’oscurità riuscirono a salvarsi.

Dalla Bassa Lunigiana, la scia di sangue prosegue indirizzandosi sul versante apuano.

Il 16 la rappresaglia investe Bergiola Foscalina con l’uccisione di 72 civili, la maggioranza donne e bambini. Una comunità profondamente legata in un ambiente fisico stupendo. Una terra coperta da una vegetazione ricca e composita. Questo dramma di sangue e violenza inaudita ha spento il sorriso a più generazioni e la felicità del loro esistere. Il parossismo omicida si conclude, lo stesso giorno, alle Fosse del Frigido a Massa con l’uccisione di 147 detenuti comuni e politici delle carceri. I tedeschi avevano preso in consegna l’edificio con tutte le persone che conteneva, eccetto tre che erano alle dipendenze di un maresciallo, due giorni prima. Quella mattina caricarono tutti su dei camion e li portarono via, lungo la via Aurelia. Giunsero sul ponte del fiume Frigido, presso la Pieve di San Leonardo, e li fecero scendere. Sulla riva destra del fiume si trovavano tre ampi crateri provocati dai bombardamenti, in cui furono fatti scendere i prigionieri. Di lì a poco sarebbero diventati le loro Fosse comuni.

Patria indipendente, 30 dicembre 2004

sommario