da L'Espresso 50 anni, vol. 5

28 ottobre 2004 – I tedeschi e la loro storia

Nostro fratello Hitler

Film. Libri. In Germania si infrange il tabù di rappresentare il nazismo dal volto umano. Uno scandalo? Così si chiudono i conti col passato

di Wlodek Goldkorn

ADOLF HITLER? Tra pochi anni, in Germania, sarà una figura che ricalca la celebre serie di ritratti di Marilyn Monroe ad opera di Andy Warhol. Una faccia familiare che non susciterà più né orrore né terrore, solo un leggero senso di vertigine. Perché, è questa la novità dell'autunno 2004, il Führer del Terzo Reich, da incarnazione del Male assoluto, indicibile e inavvicinabile, sta diventando, e velocemente, un'icona pop. O forse un personaggio «irresistibile», così lo definisce il saggista Jens Jenssen, «per l'industria dell'entertainment», uno la cui vita più che agli studi degli storici e dei criminologi, si presta «come materiale narrativo» alla penna degli scrittori o all'immaginario dei registi del cinema: più Napoleone o Alessandro Magno, che Hitler insomma, come l'abbiamo finora conosciuto. Intanto, ha cambiato faccia, sul serio. Ce lo ricordavamo, fino a un mese fa, in bianco e nero: un Hitler, spesso caricatura di se stesso, urlante ai comizi, isterico, gesticolante, incomprensibile (a causa del pesante accento austriaco di Linz), pure ai tedeschi. Ebbene, non è più così. Oggi il Führer ha il volto rassicurante e mite dello svizzero Bruno Ganz. Da un mese (e in Germania si continua a parlarne senza sosta), nei cinema trionfa Untergang (il tramonto): 150 minuti di pellicola prodotta da Bernd Eichinger per la regia di Oliver Hirschbiegel, in cui Ganz recita, magistralmente, il ruolo di Hitler. Ancora prima dell'uscita del film il paese si divise in due (e qualcuno si spaventò): è lecito rappresentare un Hitler privato, fu la domanda. Oggi nessuno se la pone più. Ganz è Hitler, o forse Hitler è Ganz. In ogni caso: vediamo il Führer, a colori, assieme ai suoi fedelissimi, nel bunker di Berlino, mentre la città sta per essere conquistata dall'Armata rossa. Lo vediamo con gli occhi della sua bella, intelligente, saggia segretaria Traudl Junge (che ne ha scritto un libro, Fino all'ultima ora, Mondadori): una ragazza acqua e sapone che tutti vorremmo nostra figlia. Hitler non urla, parla. Con Traudl, incarnata dalla brava Alexandra Maria Lara, è protettivo come uno zio e charmant come lo poteva essere, con una giovane donna, un vecchio ex suddito maschio dell'Impero asburgico (le offre dolcini e attenzioni). Hitler, ovviamente, ama la sua cagna Blondie, la carezza spesso, una volta la bacia e la passeggiare mentre le bombe russe cadono intorno. La scena in cui le somministra il veleno, prima di uccidersi, è straziante. E poi, c'è un Adolf privatissimo, buon commensale e tenero amante che bacia una Eva Braun fuori luogo (a un certo punto organizza un'orgia nel bunker). E ancora, c’è un Hitler folle, ma tenero e imbarazzante: visita i bambini vestiti da soldati e mandati a combattere contro i russi che avanzano. Ma allora, Hitler non è mai cattivo? Lo è. Soprattutto ­ quando parla dei tedeschi, del popolo tedesco. Mentre Berlino brucia, dei valorosi generali cercano di salvare i civili. Alcuni di questi sono medici e lavorano negli ospedali (abbondano scene di arti amputati mentre il sangue spruzza i camici dei dottori delle SS). Uno di loro dice al Führer di evacuare Berlino per risparmiare decine di migliaia di civili, ma Hitler è indifferente alla loro sorte. Anzi. Ordina ad Albert Speer, suo architetto di fiducia e l'unico uomo a tenergli testa, di far saltare tutte le centrali e i ponti (si immagina di controllare ancora il paese). Speer gli risponde che non si può, perché significherebbe condannare i tedeschi, tutti i tedeschi a morte per fame e freddo, e Hitler: «Se lo meritano, meritano di essere sterminati». Dice Dan Diner, professore di Storia tedesca all’Università di Gerusalemme e di Storia ebraica in quella di Lipsia in Germania, un intellettuale di riferimento dei più saggi tra i leader dei verdi tedeschi: «Siamo alla sospensione della storia, alla sua parentesi. Tutti sono ormai vittime. I tedeschi come gli ebrei». Conferma Cylli Kugelmann, vice-direttrice del Museo ebraico di Berlino costruito da Daniel Libeskind, figlia di genitori sopravvissuti ad Auschwitz: «È passata l'idea, che serpeggiava fin dagli anni ‘50 - l'ho sentita a scuola dal mio insegnante - che sì, gli ebrei sono stati uccisi­; ma la stessa sorte sarebbe poi toccata ai tedeschi». Non c'è indignazione nelle parole di Diner e della Kugelmann, c'è solo un'amara constatazione, che a sessant’anni dalla fine della guerra le identità si confondono, perdono i loro confini precisi, si dilatano. E la memoria si fa sempre meno certa, sempre meno ­ ancorata ai crudi fatti e più soggetta alle interpretazioni. Contestando questo inesorabile processo (quando ancora era agli inizi) Hannah Arendt parlava "dell'uguaglianza della colpa". Oggi si potrebbe parafrasare la grande filosofa, parlando dell’universale "uguaglianza delle vittime". Andrea Bärnreuter è una intelligentissima signora che veste un po' bohémien un po' dark. È la curatrice scientifica dei musei dello Stato a Berlino. Seduta su una panchina che dovrebbe assomigliare a una piazza, ma non lo è, con  davanti l'avveniristico edificio della Filarmonica di  Hans Scharoun, simbolo della prima ricostruzione postbellica, e dove ragazzini corrono sugli skates,  alle spalle uno splendido palazzo di Erich Mendelsohn,  un architetto che ha costruito la Berlino e la Tel Aviv d’anteguerra e a destra, là dove passava il Muro, la nuova eclettica Potsdamer Platz di Renzo Piano e Hans Kollhoff, la Bärnreuter spiega: «La demonizzazione di Hitler, così come di Joseph  Goebbels, il suo ministro della propaganda, non  può durare in eterno. Anche loro erano persone. E  la dimensione privata del Male finalmente sta diventando oggetto di discussione pubblica». La  signora si riferisce a due vicende. L’una, la valanga  dei film che riguardano appunto Hitler e Goebbels. Sul primo è in uscita una pellicola di Volker Schlöndorff, che parte dalla storia, vera, di un  sacerdote cui viene concesso un permesso di otto giorni dal campo di concentramento di Dachau. Il nono giorno, torna: preferisce l’etica della vittima alla mera vita. Su Goebbels ci sono due nuovi film tv: si scopre che non era un mostro. Amava il comunista ebreo russo Ejsenstejn, e la sua Corazzata  Potemkin, adorava l’arte espressionista condannata ufficialmente dal nazismo ed era il precursore delle tecniche di comunicazione moderna. E si viene a sapere che, sensibile e infelice intellettuale, esercitava un fascino irresistibile sulle donne, soprattutto attrici (come i tycoon ebrei di Hollywood negli stessi anni). La seconda vicenda cui  riferisce la Bärnreuter è invece quella della collezione Flick. E anche su questa si discute animatamente. Il tema (apparente): si possono usare soldi guadagnati male al fin di bene? La storia è questa. Friedrich Flick, l’uomo più ricco del Terzo Reich, condannato a sette anni di reclusione, liberato dopo poco tempo e ridiventato nel ’72 l’anno del decesso,  l’uomo più ricco della Bundesrepublik, usava schiavi per le sue industrie, ai tempi di Hitler. I "soldi insanguinati" sono serviti ora a uno degli eredi, il nipote Christian Flick, a mettere insieme una impressionante collezione d'arte moderna. Che il 59enne ex play­boy ha offerto a Berlino. Le istituzioni hanno accettato. E tra mille polemiche (e una performance di due artisti con lo striscione «Gli ex schiavi entrano gratis») il cancelliere Gerhard Schröder in persona ha inaugurato nella ex Hamburger Banhof, il museo che ospita 2.500 opere di 450 autori. Tra i quali artisti che esercitano una critica radicale, politica, sociale e semiotica, da Martin Kippenberger a Joseph Beuys, da Bruce Naumann a Pipilotti Rist (con il video-choc sul sangue mestruale), a Paul McCartney (che gioca con la pornografia), a Rodney Graham, che in un'altra video-installazione anticipa l'avvento dell' "lsola dei famosi". Dunque, davvero soldi "cattivi" usati " bene"? Il discorso è più complicato. Lo ha esplicitato Schröder quando inaugurava la collezione: «Si possono godere le opere di Naumann e Kippenberger», ha detto, «senza dover studiare la storia della famiglia Flick». E poi, ha aggiunto: «Ogni opera ha una sua aura, indipendentemente da questa storia». Subito dopo la guerra Theodor Adorno disse: «Niente poesia dopo Auschwitz». Intendeva dire: alla luce del Terzo Reich, l'illuminismo con la sua kantiana autonomia dell'arte è cane morto. Oggi, il cancelliere dichiara Adorno cane morto e rovescia il suo assunto che era la base morale di ogni opera artistica della Germania. Lo fa, perché sono passati 60 anni, e anche lui, vittima, si riconcilia col passato: in Romania ha ritrovato la tomba del padre soldato della Wehrmacht caduto in guerra e che non ha mai conosciuto. Ma la vera origine del discorso che conferisce anche ai tedeschi lo status delle vittime è nell'opera di un bravissimo, per certi versi geniale, scrittore e teorico della letteratura Wolfram G. Sebald, morto tre anni fa in un incidente stradale in Inghilterra. L'editore Adelphi sta per mandare in libreria la sua Storia naturale della distruzione, uscita in Germania nel '99. È un ciclo di lezioni su come la letteratura tedesca abbia trattato (male) la questione dei bombardamenti alleati sulle città della Germania. In questo bellissimo e agghiacciante libro Sebald lamenta la rimozione di quella terribile vicenda. Rintraccia le poche testimonianze letterarie (tra cui quelle di Alexander Kluge, un guru della sinistra). E in più passaggi elenca alla rinfusa, senza distinzione di contesto storico («Non vi è pressoché luogo in Europa da cui, in quegli anni, qualcuno non fosse stato deportato verso la morte») le città distrutte dalla furia bellica. In una prosa tesa e toccante mette nello stesso contesto le deportazioni degli ebrei e la sorte dei profughi tedeschi. Non è un revisionista: ha scritto un altro capolavoro, Austerlitz (sempre Adelphi), su un ebreo che recupera la memoria. Dice Diner: «Sebald è l'esempio migliore di quel cortocircuito che stabilisce l'uguaglianza delle vittime». Tanto che nel film Untergang la moglie di Goebbels, Magda, uccide i suoi sei figli con lo stesso gesto (cianuro in bocca) con il quale Alina Blady Szwajger, la dottoressa dell'ospedale pediatrico del ghetto di Varsavia, uccise nel luglio '42 i suoi piccoli pazienti per evitare loro la camera a gas. Allora, come sarà codificata la futura memoria di una Germania che, «dopo anni di serio lavoro sul passato», come dice la Kugelmann, crede di poter lasciarsi alle spalle Hitler? Intanto, camminando per Berlino, la "città dei passaggi del 21esimo secolo", come la Parigi dell'Ottocento per il berlinese Walter Benjamin, si capisce che sarà una memoria composita e conflittuale. Costruita dalle pietre. Quelle del monumento alle vittime dell'Olocausto, l'unico caso di un popolo che costruisce un memoriale alle proprie vittime, nel centro della capitale. In tutto, 2.700 blocchi di cemento che assomigliano a un cimitero a due passi dalla Porta di Brandeburgo, dalla nuova cancelleria e dal Reichstag con la cupola di vetro che significa trasparenza. Insomma, i simboli di una Berlino imperiale, accanto alle testimonianze della colpa. E poi c'è chi vuole ricostruire anche il vecchio Castello reale, raso al suolo nei primi anni ‘50 dalle autorità comuniste dell’allora Germania dell'Est. Uno dei promotori di questo progetto è Kollhoff, l'architetto della Potsdamer Platz. Dice: «Bisogna ridare a Berlino, e quindi alla Germania, tutta la sua memoria storica, nel bene e nel male. Sarà una memoria polifonica, post-moderna». Aggiunge il suo collega Axel Schultes, profugo bambino da una Dresda rasa al suolo, e che ha costruito la nuova cancelleria di Schröder: «Vorrei una Berlino metropoli cosmopolita, come negli anni '20. Una città con l'anima. Ma per far questo ci vuole slancio, coraggio e una visione del futuro. Non sono sicuro che ce l'abbiamo».

Da  L’Espresso 50 anni, vol. 5, 28 ottobre 2004, per gentile concessione

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