Saggi storici

La persecuzione degli ebrei in Italia dalle leggi razziali alla deportazione

di Michele Sarfatti (*)

(*) Coordinatore delle attività della fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano

Introduzione

Raggiunta l'Argentina nel 1942, il modenese Enzo Levi decise di scrivere un saggio sulle vicende degli ebrei italiani e sulla persecuzione che lo aveva costretto ad abbandonare la sua città e il suo paese. Sentendo che non gli sarebbe stato facile riuscire a trasmettere ai nuovi amici di oltre - Atlantico e ai futuri italiani liberi "cosa" era veramente accaduto nell'Italia fascista, "cosa" lo aveva spinto all'esilio, dette alla narrazione un inizio che merita riportare:

«È difficile rendersi conto della gravità degli effetti delle disposizioni razziali in Italia, se quel periodo non lo si è vissuto. Stentarono a rendersene conto, almeno fino a che io rimasi in Italia, nei primissimi mesi del 1942, milioni di italiani cattolici; è naturale che così fosse, per quanto possa apparire a prima vista incredibile, se si ha presente la percentuale degli ebrei, inferiore all'uno per cento della popolazione italiana, e il loro raggruppamento in poche città e in talune regioni; tanto che in molte province, soprattutto del Mezzogiorno d'Italia, non vi erano affatto ebrei. Le leggi razziali furono una mazzata sul capo degli stessi ebrei, i quali non se le aspettavano, se pure si era diffuso un senso di inquietudine e di nervosismo. Per dare un'idea della gravità delle norme che colpivano gli ebrei dirò della mia famiglia. lo ebbi precluso l'esercizio della professione di avvocato, con la quale guadagnavo quanto occorreva per mantenere i numerosi familiari. Dei miei sette figli, la maggiore, laureata e sposata, aveva vinto un concorso d'insegnamento, ma la legge glielo precluse; il marito, impiegato al tribunale, e che si preparava agli esami per il passaggio alla Magistratura, fu licenziato con un'indennità ridicola. Altri due miei figli, laureati in scienze e in legge, furono posti nell'impossibilità di svolgere attività in impieghi pubblici e in grave difficoltà per trovare lavoro in aziende private. Gli altri miei figli erano ancora agli studi e furono cacciati dalle scuole pubbliche. Era loro consentito dare gli esami a fine anno e venivano ammessi a scrivere i temi degli esami scritti insieme agli altri; ma, dettati i temi, si richiedeva agli alunni ebrei di alzarsi e di uscire, perché non potevano restare nella classe con gli altri e dovevano recarsi, per lo svolgimento del tema, in un'aula separata. Agli esami orali dovevano presentarsi dopo tutti gli altri. Questa forma di trattamento avvilente spiacque ai ragazzi, ma direi che più addolorò, salvo eccezione, gli insegnanti, i quali non sapevano come rendere meno gravoso il provvedimento. Nel caso dei miei figli i compagni si comportavano con la fraternità più affettuosa; poiché i miei ragazzi erano sempre eccezionalmente preparati, tanto che occupavano regolarmente i primi posti nelle classifiche di voto, i compagni dicevano, scherzando, che erano loro i colpiti dalle disposizioni razziali, perché non si potevano fare aiutare agli esami dai miei figlioli. Economicamente ero nelle condizioni peggiori, per la preclusione di tutte le fonti di reddito; soltanto un modestissimo patrimonio immobiliare offriva la possibilità, con la liquidazione dei miei crediti professionali, di realizzare quanto occorreva per vivere, esaurendo il capitale, per alcuni anni, e quanto presumibilmente occorreva per uscire tutti undici dall'Italia. La situazione era dunque grave; ma io e mia moglie e i figli maggiori eravamo preparati moralmente, prima ancora della promulgazione delle leggi razziali; ed avevamo già preso decisioni di massima. La previsione rappresenta, in questi casi, un'enorme fonte di tranquillità e di forza. Credo dunque ozioso insistere sul nostro caso; mi limito a ricordare le lacrime e le disperazioni dei figli minori, soprattutto per l'esclusione dalle scuole, per quanto soggette alle variazioni di umore dei ragazzi; ricordo la disperazione che leggevo nel viso di mia moglie, di cui subivo il riflesso come da uno specchio, ogni volta che una telefonata, o lo schiamazzo dei ragazzi "ariani" che uscivano dalle scuole vicine a casa nostra, ci ricordavano che non erano più imminenti i ritorni da scuola anche dei nostri figlioli e che questi, nostro orgoglio, erano considerati indegni di vivere fra gli altri nelle scuole pubbliche» (*Enzo Levi, Memorie di una vita, 1889-1947, Mucchi, Modena, 1972).

Due pagine di diario, scritte nell' ottobre 1938 dalla veronese Silvia Forti Lombroso, permettono di "rendersi conto" con maggiore precisione e partecipazione di "cosa" significò, per la nipote studentessa e per il marito professore universitario, essere cacciati da scuola:

«Girò gli occhi attorno perplessa: mi vide e mi sorrise. "Ah sei qui, zia? Non ti avevo veduta entrare; hai visto Lilli?". Un tremito nella voce, l'ombra che le si era diffusa repentinamente sul viso, mi persuasero che avevo fatto bene a venire. "No cara, mi son fermata qui; ti guardavo, e - aggiunsi scherzosa - ti ammiravo". Scosse la bella testa senza sorridere. "Vai da lei, ti prego; è tutta mattina chiusa nella sua stanza, non ha voluto mangiare; capisci, è il primo giorno di scuola oggi... forse con te si sfogherà un poco". Primo giorno di scuola; la vita che ricomincia come sempre per tutto un mondo, quello dei giovani. Per te no, non ricomincia, ma s'interrompe d'un tratto brutalmente; da oggi sei una esclusa, nessuno deve conoscerti, avvicinarti, amarti, perché il contatto e la conoscenza rivelerebbero troppo bene la calunnia della propaganda... Entro nella stanza di Lilli con l'anima stretta; le lacrime dei giovani sono le più difficili ad asciugare, perché i giovani vogliono una risposta logica e chiara ai loro "perché". La stanza era silenziosa: appariva vuota. Gettata a traverso sul letto, l'adolescente dormiva; le occhiaie fonde, le guance umide, il fazzoletto stretto fra le dita, dicevano ancora l'appassionato" perché" rivolto alla vita da una giovinezza radiosa, improvvisamente oscurata nel primo tragico urto con l'ingiustizia e col dolore... Sono le otto ormai; l'ora di uscire, di andare all'Istituto; la lezione è ancora da preparare, gli studenti già arrivano a tre, a quattro, ridenti, chiassosi... L'aula è già quasi piena... ma ancora c'è qualche minuto di tempo; per interrogare l'interno che ha passato lì la notte a sorvegliare l'esperienza, per confrontare i diari, per dare un' occhiata alle provette - chissà se questa sarà l'esperienza probatoria, chissà? Quella che dà conferma a dieci anni di lavoro, o se tutto si dovrà pazientemente ricominciare? L'occhio del professore si posa sul calendario. Mercoledì. Oggi doveva venire all'Istituto l'aiuto di patologia; insieme dovevano discutere sul nuovo metodo per controllare negli animali gli effetti del "lipocaid" ... Un orologio lontano, un altro più vicino suonan le nove: bisogna muoversi, bisogna andare: andare dove? Fare cosa? Si avvicina al tavolo, apre un plico raccomandato. È il suo ultimo lavoro già in corso di stampa, che il direttore del giornale gli rimanda; poche parole di scusa imbarazzate, non può. più pubblicarlo, è dolente... Ne apre un altro; è il presidente dell' Accademia delle Scienze che lo avverte che per ordini ricevuti cancella il suo nome dall’elenco dei soci. Getta nel cestino impaziente, prende un libro, cerca di assorbirsi nella lettura. Non può; la mente divaga, quello che legge ha il tono freddo delle cose morte... Di nuovo un pauroso senso di vuoto gli attanaglia l'anima. E come se brutalmente gli avessero stroncato ogni ragione per vivere, è come se tutto intorno a lui fosse crollato. Si alza impaziente. Tutto all'intorno è uguale a ieri; tutto è solito, tutto ha il sapore di sempre: eppure tutto è perduto, tutto è mutato, tutto è travolto. Ormai il sole è alto nel terso cielo autunnale; inonda di luce la stanza, scherza sugli specchi, sui caratteri d'oro nel dorso dei libri; si posa e si trattiene a terra sul fascio di giornali sparsi dovunque, dà rilievo ai titoli dei quotidiani scritti in caratteri cubitali: "I giudei esclusi dalle Università"; "Liberiamoci dalla peste giudaica"; "Finalmente purificate dagli ebrei, le Università italiane risorgeranno a nuova vita» (* Silvia Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute, 1938-1945, Dalmatia, Roma, 1945).

Caratteristiche generali della legislazione antiebraica

I. Quelli sopra descritti furono alcuni degli effetti concreti della normativa antiebraica introdotta dal Governo fascista del Regno d'Italia a partire dalla tarda estate del 1938. Tale normativa fu assai ramificata e riguardò tutti gli ambiti della vita del paese; di essa fece parte anche la regolamentazione dell'identificazione dei perseguitandi. Poiché gli ebrei non possedevano (non possiedono) alcuna caratteristica somatica specifica, e poiché comunque un razzista ha sempre la necessità di classificare i misti (ossia, secondo l'aberrante linguaggio utilizzato all' epoca, le persone nei cui corpi circolava sia "sangue ebraico" sia "sangue ariano"), il fascismo dovette varare una definizione giuridica di ebreo. Questa può essere riepilogata nel seguente modo (con l'avvertenza che, per comodità di esposizione, si fa qui riferimento a una persona con quattro nonni classificati puri; nel caso invece fossero stati misti, anch' essi avrebbero dovuto essere assoggettati al medesimo processo classificatorio):

a) Il discendente da 4 nonni ebrei era classificato comunque "ebreo", anche se non apparteneva alla religione ebraica.  

b) Il discendente da 3 nonni ebrei, secondo la legge persecutoria del novembre 1938 poteva essere classificato"ariano". Per la classificazione di "ariano" occorreva che il suo genitore misto ed egli stesso appartenessero ufficialmente a religione non ebraica alla data del 1 o ottobre 1938 (agnostici e catecumeni erano quindi sempre da classificarsi "ebrei") e che non avessero compiuto, dopo l'inizio di tale appartenenza, "manifestazioni di ebraismo" (tali ad esempio erano l'iscrizione volontaria a una comunità ebraica, il matrimonio con persona classificata "ebrea", la procreazione di figli classificati "ebrei"), Ben presto però venne deciso, con una disposizione amministrativa, di classificare comunque "ebreo" chiunque avesse "più del 50% di sangue ebraico".  

c) Il discendente da 2 nonni ebrei poteva essere classificato "ebreo" o "ariano", Per la classificazione di "ariano" occorreva che almeno un suo genitore misto (nel caso i quattro nonni avessero costituito due coppie miste) e comunque egli stesso appartenessero ufficialmente a religione non ebraica (secondo i criteri indicati al punto b),  

d) Il discendente da 1 nonno ebreo poteva essere classificato "ebreo" o "ariano", Per la classificazione di "ariano" occorreva che o il suo genitore misto o egli stesso appartenessero ufficialmente a religione non ebraica (secondo i criteri indicati al punto b).  

e) Il discendente da 4 nonni ariani era classificato comunque "ariano", anche se apparteneva alla religione ebraica.  

f) Nei casi c e d (e, inizialmente, in quello b) la possibilità di essere classificato "ariano" era prevista solo per chi faceva parte di famiglie italiane e "regolari": il "nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l'altro di nazionalità straniera" e il "nato da madre di razza ebraica quando sia ignoto il padre" erano sempre classificati "ebrei". 

Questo sistema classificatorio teneva conto di fattori variegati ed è di complessa definizione; tuttavia, essendo i suoi cardini costituiti dagli automatismi dei casi a e e, il suo riferimento principale va indubbiamente individuato nel razzismo di tipo biologico. I criteri di classificazione dei misti del caso f e di quello b (versione definitiva) costituivano - da un punto di vista tecnico - una forzatura peggiorativa di tale asse di riferimento; mentre quelli dei casi c e d costituivano null' altro che uno dei possibili compromessi tra le opposte necessità razzisti che di colpire il "sangue ebraico" e salvare il "sangue ariano". Peraltro il fascismo razzista prese concrete misure contro il riprodursi di tali situazioni: nel novembre 1938 venne vietata la celebrazione di nuovi matrimoni razzialmente misti, e nel 1942 venne deciso di punire le unioni miste non formalizzate (comprese quelle sancite solo da un matrimonio religioso cattolico). Il divieto del 1938 concerneva anche i matrimoni misti tra un "ariano" e un "camita" (ossia, ad esempio, un abitante dell'Etiopia appena conquistata); peraltro le unioni miste non formalizzate di quest'ultimo tipo erano state vietate per legge già nel 1937. Con ciò, la dittatura fascista era giunta al punto di revocare ai propri sudditi ("ariani" o no che fossero) anche il diritto di scegliere liberamente il proprio partner. Non è noto il numero esatto di quanti furono classificati "di razza ebraica" e quindi assoggettati alla persecuzione; sulla base di complessi calcoli, si può ipotizzare che essi siano stati circa 51.100, dei quali circa 46.600 erano effettivamente ebrei e circa 4500 erano non ebrei (ossia appartenevano ad altre o nessuna religione, ma per lo più a quella cattolica). I perseguitati inoltre erano suddivisi - tenendo conto delle norme legislative del 1938 sulla revoca delle cittadinanze e dei permessi di residenza - in circa 40.000 italiani e circa 11.000 stranieri (dei quali circa 3000 ammessi a risiedere). Nel complesso, i perseguitati costituivano l' 1,1 per mille della popolazione della penisola.

II. La persecuzione antiebraica era composta da singoli atti vessatori, volta per volta aventi una specifica finalità o rispondenti a un disegno di carattere generale. Quest'ultimo consisteva in sostanza nella totale arianizzazione del paese. Mussolini prese in considerazione la possibilità di revocare la cittadinanza a una parte o alla totalità degli ebrei italiani. In effetti egli concretizzò tale proposito solo (nel settembre 1938, e con alcune eccezioni) nei confronti degli ebrei stranieri che l'avevano acquisita dopo il 1918. Il principio della "denazionalizzazione" degli ebrei italiani peraltro caratterizzò di fatto la loro persecuzione sociale e normativa sin dal suo inizio: la propaganda orale e scritta affermò chiaramente che gli "appartenenti alla razza ebraica" costituivano un gruppo distinto dall'entità regime-Stato-nazione italiana e ostile nei suoi confronti; le leggi erano intitolate alla "difesa" della razza; in varie occasioni "ebreo" venne contrapposto a "italiano", oltreché ad "ariano" ecc. E, dato il significato che allora era attribuito alla difesa militare della nazione, l'espulsione totale degli ebrei dall'esercito significò la loro espulsione materiale dalla patria. Gli unici perseguitati che mantennero una carica pubblica furono i nove senatori" di razza ebraica": nel loro caso evidentemente il dittatore decise di rispettare la natura regia della loro nomina e il Re decise di rispettare la durata vitalizia della carica; essi pertanto conservarono il loro titolo per tutto il periodo, ma venne loro sospeso l'invio degli atti parlamentari e i portieri del Senato vennero incaricati di dissuaderli dall' entrare nel palazzo. Gli ebrei - e i cattolici "di razza ebraica" perseguitati con loro - si videro revocati molti diritti civili (il principale diritto politico, quello di votare liberamente per liste alternative, era già stato soppresso per tutta la popolazione), subendo un repentino declassamento di fatto. La mancata revoca formale della loro cittadinanza sembra quindi da addebitare solo a motivi di opportunità, quali il desiderio delle autorità statali di non perdere i legami con gli influenti nuclei di ebrei italiani presenti sulle sponde del Mediterraneo, o la loro consapevolezza che i paesi confinanti non avrebbero consentito l'ingresso di questi nuovi ebrei apolidi. Perché, appunto, l'obiettivo primo del fascismo (fino all'estate 1943) fu quello di eliminare tutti gli ebrei dal territorio della penisola, con rapidità e definitivamente. A questo riguardo, già nel settembre 1938 il Governo vietò nuovi ingressi di ebrei stranieri a scopo di "residenza" e decretò - salve alcune eccezioni - l'allontanamento dall'Italia di coloro che avevano iniziato a risiedervi dopo il 1918; successivamente vietò gli ingressi a scopo di "soggiorno" o di "transito" agli ebrei apolidi, tedeschi o di altri paesi antisemiti. Al momento dell'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale (10 giugno 1940), divenuti largamente impossibili gli allontanamenti forzati alla frontiera, fu deciso di estendere la misura bellica dell'internamento degli "stranieri nemici" agli ebrei stranieri non autorizzati a risiedere nella penisola. Essi dovevano essere internati in campi di concentramento a loro riservati, ove sarebbero rimasti - come fu detto ufficialmente - «anche a guerra ultimata, per essere trasferiti di là nei paesi disposti a riceverli» (il principale di questi campi fu allestito a Ferramonti, in provincia di Cosenza). L'internamento fu in sostanza una forma di prigionia, non accompagnata da violenze fisiche; tuttavia fu, appunto, una misura punitiva, motivata solo dall' antiebraismo. Anche per gli ebrei italiani il fascismo si proponeva di giungere alla loro eliminazione dal territorio della penisola. Data la profonda integrazione esistente tra essi e gli altri italiani, tale obiettivo non venne però immediatamente proclamato e perseguito pubblicamente. L'azione pubblica governativa fu quindi inizialmente rivolta soprattutto a eliminare gli ebrei dalla vita nazionale (espulsione dalle cariche pubbliche e dal comparto educativo-culturale) e a separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni misti ecc.); mentre le altre misure persecutorie (revoca o limitazione della possibilità di lavorare e di istruirsi) stimolavano oggettivamente i perseguitati separati a emigrare. Per quanto è oggi noto, solo il 9 febbraio 1940 Mussolini fece comunicare ufficialmente all'Unione delle comunità israelitiche italiane che gli ebrei italiani dovevano lasciare, gradualmente ma definitivamente, la penisola. Tale ordine era connesso a un progetto legislativo, elaborato appunto nel 1939-1940, ma al dunque rinviato al termine della guerra nel frattempo iniziata, che disponeva l'espulsione definitiva dal paese, entro 10 anni, della grande maggioranza dei perseguitati (ne sarebbero stati eccettuati quelli di religione cristiana aventi coniuge ariano cristiano e figli cristiani). Il progetto legislativo prevedeva, per coloro che non fossero espatriati volontariamente entro il termine stabilito, l'accompagnamento coatto alla frontiera o - in caso di impossibilità - l'internamento in «colonie di lavoro per opere di pubblico interesse». Arenatosi il progetto, e avendo la situazione bellica ridotto ai minimi termini la stessa emigrazione ."spontanea", il governo mise in atto l'alternativa suddetta, stabilendo nel maggio 1942 l'assoggettamento dei perseguitati al "lavoro obbligatorio" e decidendo nel maggio-giugno 1943 l'istituzione di veri e propri "campi di internamento e lavoro obbligatorio". La realizzazione di questi ultimi (dislocati in quattro regioni e destinati ad ospitare gli ebrei tra i 18 e i 36 anni) fu al dunque interrotta il 25 luglio 1943, quando le vittorie degli alleati nel Mediterraneo e il loro sbarco in Sicilia determinarono la crisi politica del regime fascista e la caduta di Mussolini.

III. I divieti e le esclusioni varati nel corso del quinquennio contro gli "appartenenti alla razza ebraica" riguardarono tutti gli ambiti della vita sociale. Essi ebbero sempre caratteristiche umilianti; ma furono in genere atti persecutori "finalizzati", e solo raramente atti unicamente umilianti. Occorre qui precisare che inizialmente il regime aveva promesso di esentare in parte dalla persecuzione (ossia, come fu detto all' epoca, di discriminare) le persone" di razza ebraica" parenti di caduti in guerra o per la causa fascista, o in possesso di speciali "benemerenze" personali di ordine bellico (volontario, ferito, decorato ecc.), politico (iscrizione al Partito nazionale fascista prima del 1923 o nel secondo semestre 1924, cioè prima dell'ascesa di Mussolini al Governo o subito dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti), o di natura comunque "eccezionale". Al dunque, però, anche in questo campo la normativa effettivamente varata fu più grave di quanto annunciato e la discriminazione comportò sostanzialmente solo la possibilità di poter possedere fabbricati urbani, terreni e aziende (e poter dirigere queste ultime) in misura superiore a quella fissata per gli altri ebrei, e di poter svolgere una libera professione (avvocato, medico, ostetrico, farmacista, giornalista, ragioniere, perito, agronomo ecc.) anche a favore di clienti non ebrei (ovviamente, a condizione che questi volessero servirsi di un ebreo). Stando alla legge persecutoria del novembre 1938, il discriminato avrebbe dovuto conservare anche altri diritti, come quello di prestare servizio militare; ben presto però queste ulteriori concessioni furono annullate da altre leggi o da disposizioni amministrative. In termini concreti quindi, la discriminazione costituì un beneficio ridotto e decrescente nel tempo (e per di più non ottenibile automaticamente e trasmissibile ai discendenti solo per un massimo di due generazioni); molti perseguitati tuttavia ne richiesero la concessione, per via del suo significato simbolico di attestazione di "benemerenza" per l'Italia, o "perché non si poteva mal sapere... . Relativamente alle attività lavorative, i comparti preclusi in modo totale furono quello degli impieghi pubblici e assimilati, quello delle libere professioni (con le eccezioni già menzionate per i discriminati), quello del credito e delle assicurazioni, quello delle attività turistiche ed alberghiere, quello dello spettacolo, quello delle attività commerciali a carattere ambulante o comunque tali da comportare una apposita licenza di polizia, quello del lavoro dipendente presso aziende qualificate dalla normativa bellica come ausiliarie alla difesa della nazione (ad esempio la Fiat, la Compagnia Generale di Elettricità ecc.). In alcuni casi i divieti si accavallavano, come nel caso di professionisti dipendenti dalla pubblica amministrazione; altre volte invece si espandevano verso limiti mal definiti, arrivando a comprendere i dipendenti di aziende industriali a capitale pubblico, o le aziende commerciali che rifornivano comparti arianizzati, o insegnamenti particolari come le scuole private di ballo o di cucito. Nel febbraio 1942, poi, il Ministero delle corporazioni ordinò alle aziende e agli uffici di collocamento di favorire sempre l'occupazione dei "lavoratori di razza ariana", sia in occasione di nuove assunzioni, sia in caso di riduzioni di personale. La documentazione relativa ai "campi di internamento e lavoro obbligatorio" sembra attestare che tale misura avrebe separato pressoché definitivamente gli ebrei dal mondo lavorativo "ordinario". Gli ebrei stranieri furono assoggettati alle medesime disposizioni, ma la maggior parte di loro perse il diritto a lavorare già in conseguenza della perdita del diritto a risiedere. Si è detto che alcuni divieti lavorativi furono decisi direttamente dall'autorità di polizia. In effetti, tra il dicembre 1938 ed il dicembre 1942, oltre a quella del commercio ambulante, vennero disposte decine di interdizioni di tutti i tipi. Agli ebrei fu vietato di essere amministratori o portieri in case abitate da ariani; di essere titolari di attività nei seguenti settori: agenzie d'affari di brevetti e varie; commercio di preziosi; esercizio dell' arte fotografica; mediatori, piazzisti, commissionari; tipografie; impiego di gas tossici; raccolta di rottami metallici e di metalli; raccolta di lana da materassi; ammissione all'esportazione della canapa; ammissione all' esportazione di prodotti ortofrutticoli; raccolta di rifiuti; raccolta e vendita di indumenti militari fuori uso; vendita di oggetti antichi e d'arte, di libri, di oggetti usati, di articoli per bambini, di carte da gioco, di articoli ottici, di oggetti sacri, di oggetti di cartoleria, di carburo di cacio; guida di autoveicoli di piazza ecc. Agli ebrei fu vietata la pubblicazione sulla stampa di avvisi mortuari e di pubblicità; l'inserimento del proprio nome in annuari ed elenchi telefonici; la concessione di riserve di caccia; la licenza di pescatore dilettante; la vendita e la detenzione di apparecchi radio ecc. Vennero sostituiti i nomi ebraici attribuiti a vie, piazze e moli marittimi; vennero rimosse le lapidi poste in ricordo di ebrei; agli ebrei fu vietato di accedere ai locali delle borse valori; di affittare camere a non ebrei; di accedere alle biblioteche pubbliche; di far parte di cooperative; di far parte di associazioni culturali e sportive (e una circolare apposita stabiliva l'esclusione dalle società di protezione degli animali); di essere titolari di permessi per ricerche minerarie; di esplicare attività doganali; di pilotare aerei di qualsiasi tipo; di allevare colombi viaggiatori; di ottenere il porto d'armi ecc. Agli ebrei italiani non discriminati fu vietato di possedere o dirigere aziende commerciali o industriali "interessanti la difesa della nazione" o comunque aventi più di 99 dipendenti (in caso di possesso di più aziende, questo valore era riferito al complesso di esse). Peraltro vari ebrei - discriminati e non - furono indotti a cedere le proprie aziende già al momento del prospettarsi della persecuzione o, soprattutto, a causa degli effetti dell’insieme della normativa. Agli ebrei italiani non discriminati fu inoltre vietato di possedere case e terreni oltre un valore definito dalla legge. Gli enti operanti nel teatro, nella musica,' nel cinema, nella radio ecc., afferenti direttamente o indirettamente allo Stato, licenziarono subito tutti i dipendenti stabili (dai dirigenti agli operai) ebrei e annullarono tutti i contratti temporanei ad artisti ebrei; nel giugno 1940 questa norma fu ufficialmente estesa alle imprese private. Le opere di autori ebrei vennero progressivamente escluse dalle trasmissioni musicali della radio, dai programmi dei teatri lirici e di prosa, dai cataloghi delle case discografiche, dalle sale cinematografiche, fino a essere bandite dall'intero settore dello spettacolo nel giugno 1940. Tra la fine del 1938 e gli inizi del 1939 le case editrici cessarono pressoché del tutto di pubblicare nuove opere di autori ebrei; mentre il ritiro dalla circolazione di quelle già in commercio si sviluppò confusamente - e segretamente - tra la primavera del 1938 (quando vennero sequestrati alcuni libri di ebrei tedeschi), l'agosto 1939 (quando venne presa la decisione di ritirare tutta la produzione "ebraica") e il febbraio 1940 (quando venne ufficialmente comunicato agli editori il divieto pressoché totale di stampa, circolazione e inclusione nei cataloghi). Vennero anche sequestrati i libri non razzisti, come un dizionario da tempo in commercio contenente la definizione: "antisemiti, gente poco civile che osteggia e combatte gli ebrei". La normativa persecutoria non colpì invece la vita organizzativa e religiosa degli enti ebraici. Peraltro, tra i diritti individuali colpiti vi fu anche quello di "vivere ebraicamente": il 19 ottobre 1938 venne vietata la macellazione degli animali secondo il rito ebraico; entro la fine di quell'anno tutti i periodici ebraici dovettero in un modo o nell'altro cessare le pubblicazioni e l'anno successivo le autorità respinsero formalmente la richiesta dell'Unione delle comunità israelitiche di riattivarne uno per soddisfare unicamente i "bisogni religiosi" dei singoli e le necessità informative delle comunità; nel 1942 agli ebrei assoggettati al "lavoro obbligatorio" venne vietato di rispettare anche le principali festività ebraiche.

La normativa persecutoria nella scuola

La politica arianizzatrice nella scuola attuata dal Ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai fu totalitaria ed effettivamente completa. Nell'agosto 1938 egli emanò primi provvedimenti antiebraici di natura amministrativa, decretando il divieto di iscrizione alle scuole di ogni ordine e grado degli studenti ebrei stranieri (divieto successivamente, come si dirà, leggermente emendato), il divieto di conferimento di incarichi o supplenze a insegnanti ebrei, il divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei. Egli inoltre, al pari degli altri ministri, dispose l'effettuazione di un censimento razzista di tutto il personale dipendente del suo ministero (docente e non docente), e raccomandò la diffusione generalizzata nel mondo scolastico della nuova rivista La dIfesa della razza. L' 1-2 settembre 1938 il Consiglio dei ministri esaminò un primo gruppo di provvedimenti legislativi persecutori aventi carattere di urgenza, due dei quali concernevano la scuola. Il varo anticipato di questi ultimi rispetto al provvedimento persecutorio di carattere generale (promulgato due mesi dopo) era dovuto all' approssimarsi del nuovo anno scolastico e quindi all'intenzione di Bottai di introdurre le nuove norme antiebraiche prima della formazione delle classi e dell'inizio delle lezioni. Tali provvedimenti erano: il regio decreto-legge 5 settembre 1938, n. 1390, che dispose l'esclusione (ossia l'espulsione dei già iscritti e il divieto di nuove iscrizioni) immediata di tutti gli studenti "di razza ebraica" dalle scuole statali o riconosciute di ogni ordine e grado (la dizione comprendeva anche le università, dalle quali però non vennero espulsi gli studenti già iscritti) e la sospensione dal servizio (misura provvisoria in attesa del varo del provvedimento di carattere generale) dal 16 ottobre di tutti gli insegnanti ebrei; e il regio decreto-legge 23 settembre 1938, n. 1630 (promulgato con qualche ritardo perché occorreva definire alcuni dettagli tecnici), che introdusse la possibilità di costituire "speciali sezioni di scuola elementare" (laddove vi fossero perlomeno 10 iscritti) o scuole elementari dipendenti dalle comunità israelitiche (laddove queste fossero in grado di provvedervi) destinate esclusivamente a "fanciulli di razza ebraica" (questa disposizione era dovuta alla preoccupazione governativa di non violare del tutto il principio dell'obbligo scolastico). Il 7 -1O novembre 1938 il Consiglio dei ministri varò il regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, che definiva le caratteristiche generali della persecuzione antiebraica, e il regio decreto-legge 15 novembre 1938, n. 1779, che riepilogò, modificò e ampliò la normativa concernente la scuola. Il primo di essi tra l'altro stabilì chi doveva essere classificato" ebreo" ai fini dell'applicazione delle norme persecutorie (il decreto del 5 settembre aveva provvisoriamente classificato tale solo il figlio di due genitori ebrei). Il secondo stabilì la seguente normativa definitiva:

a) Esclusione di tutti gli studenti "di razza ebraica" dalle scuole elementari e medie di ogni tipo frequentate da alunni" di razza ariana"; peraltro gli esclusi potevano frequentare le scuole elementari e medie cattoliche (qualora essi professassero tale religione), o quelle elementari e medie per soli ebrei eventualmente istituite, a determinate condizioni, dalle comunità israelitiche, o le già menzionate "speciali sezioni di scuola elementare .

b) Esclusione di tutti gli studenti "di razza ebraica" dalle università, ad eccezione di coloro che - italiani o stranieri, ma non tedeschi - fossero già iscritti nell' anno accademico 1937­-1938 e non fossero fuori corso.

c) Esclusione di tutti gli insegnanti "di razza ebraica" dalle università e dalle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado, ad eccezione di quelle eventualmente istituite dalle comunità e delle "speciali sezioni".

d) Esclusione di tutti gli altri dipendenti "di razza ebraica" dalle scuole (bidelli, segretari ecc.), dagli uffici del ministero, dagli enti da questo sostenuti o sorvegliati ecc.

e) Divieto di adozione nelle scuole medie di libri di testo redatti, commentati o riveduti da autori "di razza ebraica", anche se in collaborazione con autori "di razza ariana".

La radicalità e la totalitarietà di queste norme è evidente, ed a questo riguardo è interessante notare che, relativamente all'esclusione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche, l'Italia fascista precedette la stessa Germania nazista, la quale solo dopo il sanguinoso pogrom del 9-10 novembre 1938 decise a sua volta di abbandonare il sistema di numerus clausus istituito nel 1933 e di adottare anche per gli studenti un provvedimento di esclusione generalizzata. In sostanza, dal sistema scolastico italiano vennero espulsi: 96 professori universitari ordinari e straordinari, più di 133 aiuti e assistenti universitari, numerose decine di incaricati e lettori, 279 presidi e professori di scuola media (173 in quelle di istruzione classica, scientifica e magistrale e 106 in quelle di istruzione tecnica), un numero tuttora ignoto (ma superiore al centinaio) di maestri elementari, varie decine di impiegati, 114 autori di libri di testo per le scuole medie (peraltro spesso colpiti anche quali professori), oltre 200 liberi docenti, alcune migliaia di studenti elementari e medi e alcune centinaia di studenti universitari. Di tutti questi dati, il più rilevante è forse quello concernente i 96 professori universitari. Essi costituivano il 7 per cento della categoria, e questa percentuale (70 volte maggiore, in termini relativi, di quella dell'intero gruppo ebraico nel complesso della popolazione) era forse la più elevata conseguita in quell'epoca da ebrei in una specifica professione nazionale. Una percentuale così alta segnalava sia la forte propensione ebraica agli studi, sia la larga accettazione degli ebrei da parte degli altri italiani. In quel 7 per cento però vi era anche qualcosa di profondo e fondamentale, di connesso alla stessa italianità: si può legittimamente ipotizzare che il gruppo ebraico costituisse uno dei modelli di elaborazione e trasmissione della cultura superiore e specializzata nella penisola. Anche per questo, l'espulsione dei docenti ebrei è stata una profonda ferita che il regime fascista ha inferto all'Italia, oltre che ai singoli perseguitati. Queste misure legislative furono affiancate ed aggravate da misure disposte con provvedimenti amministrativi. Così, con successive circolari, Bottai ordinò di rimuovere dalle aule le carte geografiche murali realizzate da ebrei (in quanto assimilate ai libri di testo); dispose la sostituzione dei nomi ebraici di scuole e istituti; decretò che i libri di testo potevano contenere una quantità minima di citazioni e riferimenti al pensiero di autori ebrei e solo a condizione che questi fossero morti prima del 1850; dispose che gli studenti ebrei presentatisi come privatisti agli esami dei cicli elementare e medio venissero esaminati separatamente dagli studenti ariani (e, agli orali, dopo di essi) ecc. Inoltre, per l'università, vennero istituiti o potenziati gli insegnamenti concernenti la razza; fu vietato il riconoscimento dei titoli accademici conseguiti all' estero da ebrei italiani e stranieri; vennero allontanati dalla vita universitaria i professori emeriti e onorari (gli annuari universitari non dovevano dare notizia delle loro attività e della loro eventuale morte); fu proibita la concessione di sussidi e premi agli studenti ebrei ammessi a concludere gli studi ecc. Queste circolari vennero emanate tra l'autunno 1938 e l'estate 1939; ma si trattava di infamie tutto sommato secondarie: la normativa persecutoria principale era già inserita nei regi decreti-legge del 5 settembre e del 15 novembre, significativamente intitolati "per la difesa della razza nella scuola fascista" e "per la difesa della razza nella scuola italiana". Ma nella scuola non vi fu solo l'introduzione delle norme direttamente antiebraiche. Dall'autunno 1938, e per cinque - sette anni scolastici, le scuole pubbliche della penisola sollecitarono gli studenti rimasti (quelli classificati "di razza ariana") ad essere coscienti ed orgogliosi della loro superiore arianità, della loro superiore cattolicità, della loro superiore bianchezza, della loro superiore fascistitudine. Razzismo ed antisemitismo dilagarono nei libri di testo, nell'insegnamento, nella vita scolastica quotidiana, nella formazione degli stessi insegnanti. L'ampiezza di questa vera e propria riforma strutturale è testimoniata dall'impegno profuso nell' “aggiornamento” degli insegnanti. Ad esempio, in quegli anni vennero pubblicati il manuale di F. Cassano, Argomenti di pedagogia fascista, guida per la preparazione ai concorsi magistrali, Bari, Macrì, 1938, 2a ed., contenente i capitoli «Necessità di razzismo» e «Il razzismo nella scuola»; e quello di M. Crapanzano e A. Caro, Educazione fascista. Fondamenti dottrinali e dissertazioni per i candidati ai concorsi magistrali, Milano, Casa Editrice Nuova Italia, 1942, contenente il capitolo «Il problema della razza». Nel frattempo, il 16 ottobre 1938 il regio ispettore scolastico T. L. Flores te­ne a Littoria una conferenza ai maestri e direttori della provincia su Razzismo, autarchia e scuola (poi pubblicata a Napoli, tipo Amitrano, 1938); S. Sabatini parlò a una conferenza-lezione per maestri indetta dal provveditorato agli studi su La scuola e il problema della razza (poi pubblicata a Teramo, tipo Teramana, 1938); M. Gentile tenne a Padova una lezione ad un convegno per dirigenti e insegnanti medi organizzato dal provveditore agli studi su Autarchia dello spirito ed orgoglio di razza negli insegnamenti storico-filosofici; sempre nell'autunno 1938, «quattrocento tra Provveditori agli studi, ispettori scolastici e direttori didattici dell'Italia centrale... hanno chiuso i lavori del loro convegno trattando il tema: Mezzi e forme per radicare nel fanciullo l’orgoglio e la fierezza della propria razza»; nel gennaio 1939 N. Giani tenne la prolusione inaugurale al corso di dottrina fascista per maestri elementari su Perché siamo antisemiti (poi pubblicata in un quaderno della Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, Milano-Varese, 1939) ecc. Anche i risultati di questo "aggiornamento" vennero, in almeno un caso, pubblicati: il preside di un istituto tecnico di Treviso raccolse nel volumetto Per la difesa della razza (Treviso, Longo e Zoppelli, 1940), i propositi di insegnamento razzista e antisemita esplicitati, su sua richiesta, dagli insegnanti delle varie materie. E, tra l'autunno 1943 e la primavera 1945, non pochi giovani "ariani", cresciuti in questa Italia e formati in questo sistema scolastico, si trovarono ad arrestare i loro non-compagni-di­classe ebrei e i loro non-professori o non-autori-di-libri-di-testo ebrei, per consegnarli a killer specializzati stranieri.

La deportazione (1943-1945)

Il 10 luglio 1943 i primi reparti angloamericani sbarcarono in Sicilia. Il 25 luglio Mussolini venne deposto e arrestato, e il Re incaricò Pietro Badoglio di formare un nuovo Governo; questi mantenne l'alleanza con la Germania, ma iniziò a trattare un armistizio con gli alleati, che venne infine annunciato l'8 settembre. Per quanto concerne gli ebrei, in quei quarantacinque giorni il Governo Badoglio operò nel seguente modo: mantenne in vigore tutte le leggi antiebraiche e revocò alcune disposizioni persecutorie di natura amministrativa o aventi scopi ideologico-propagandistici. Del resto, mentre immediatamente dopo il 25 luglio i partiti antifascisti e varie personalità democratiche avevano sollecitato una radicale abrogazione della legislazione antiebraica, altri ambienti si erano pronunciati diversamente: in agosto la Santa Sede aveva informato il Ministro dell'interno che la legislazione in questione, «secondo i principii e la tradizione della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Alla fine del settembre 1943 il paese si trovò diviso in due parti: le regioni meridionali e le isole sotto il controllo degli alleati e del Regno d'Italia, le regioni centrali e settentrionali sotto il controllo della Germania nazista e del nuovo Stato costituito dai fascisti (poi denominato Repubblica sociale italiana). Nella prima zona, il Governo Badoglio prese infine atto delle richieste degli alleati (l'articolo 31 del cosiddetto armistizio lungo stabiliva: «Tutte le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinioni politiche saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate») e il 24 novembre 1943 il Consiglio dei ministri iniziò l'esame dei provvedimenti legislativi di abrogazione della normativa persecutoria. Nella seconda zona la persecuzione antiebraica assunse immediatamente nuove e più gravi caratteristiche. In conseguenza del lento spostamento della linea del fronte, essa durò nove mesi a Roma, undici mesi a Firenze e quasi venti mesi nelle città settentrionali. Vi furono assoggettate presumibilmente 43.000 persone, suddivise in poco meno di 33.000 ebrei effettivi e in circa 10.000 non ebrei classificati "di razza ebraica". I tedeschi effettuarono i primi arresti di ebrei subito dopo l'8 settembre. Il 23 di quel mese, il RSHA (la centrale di polizia tedesca che gestiva la politica antiebraica), in accordo col Ministero degli affari esteri tedesco, comunicò formalmente ai propri uffici dipendenti e periferici che gli ebrei di cittadinanza italiana .erano divenuti immediatamente assoggettabili alle "misure" in vigore per gli altri ebrei europei (ossia alla deportazione verso i campi di sterminio). Già il giorno dopo, il 24 settembre, il responsabile della polizia tedesca a Roma ricevette l'ordine di iniziare i preparativi per l'arresto e la deportazione degli ebrei di quella città (la retata nella capitale fu poi effettuata il 16 ottobre). Gli ebrei arrestati venivano raccolti nelle carceri delle principali città (o, successivamente e nell'area nord-orientale, nel campo di transito allestito dai tedeschi nella Risiera di San Saba, a Trieste) e periodicamente avviati per lo più al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Inizialmente, il Governo fascista-repubblicano costituito da Mussolini il 23 settembre 1943 non effettuò arresti (senza peraltro contestare quelli operati dai tedeschi); ma il 14 novembre il nuovo Partito fascista repubblicano, in un'assemblea tenuta a Verona, approvò un "manifesto programmatico" che proclamava tra l'altro: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Questa dichiarazione giustificava e preannunciava i provvedimenti di arresto delle persone e di confisca dei beni. Il 30 novembre 1943 il Ministro dell'interno Guido Buffarini Guidi diramò un "ordine di polizia" che disponeva l'arresto degli ebrei di qualsiasi condizione o nazionalità e il loro concentramento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali in corso di allestimento. Così, sulla base di una semplice disposizione burocratica, le autorità locali della Repubblica sociale italiana iniziarono ad arrestare gli ebrei, a raccoglierli in campi provinciali e poi ad inviarli nell'unico campo nazionale nel frattempo allestito: quello di Fossoli di Carpi, in provincia di Modena. Gli ebrei arrestati per ordine italiano ebbero lo stesso destino di quelli arrestati per ordine tedesco: sia gli uni sia gli altri furono deportati dai tedeschi. Sul piano tecnico, la saldatura tra le politiche antiebraiche italiana e tedesca ebbe luogo nel campo nazionale di Fossoli: lì, a partire dalla fine del dicembre 1943, gli italiani fecero affluire gli ebrei arrestati nelle varie province e da lì, a partire dalla seconda metà del febbraio 1944, i tedeschi fecero partire i convogli di deportazione. Questo meccanismo non subì alcuna modifica né nel marzo successivo, quando anche la gestione amministrativa del campo fu trasferita dalla polizia italiana a quella tedesca, né alla fine di luglio, quando i tedeschi decisero di spostare il campo da Fossoli a Bolzano. Mussolini conosceva da tempo il "destino" riservato da Hitler agli ebrei deportati da tutta Europa; e, dopo l’8 settembre 1943, costituendo il suo nuovo governo sotto la protezione del potente alleato; fu ben consapevole del fatto che quel destino avrebbe ormai riguardato anche gli ebrei d'Italia. È vero il fatto che non sono stati finora reperiti (e chissà se mai lo saranno) autografi del dittatore o verbali di parte tedesca attestanti la decisione formale mussoliniana di partecipare all'assassinio degli ebrei da lui governati. Ma le parole scritte diventano largamente inutili di fronte all' esplicita evidenza di un meccanismo concreto ripetuto decine di volte: gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e deportavano; gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e deportavano; gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e deportavano... Nel frattempo, il 4 gennaio 1944, era stata disposta la confisca di tutte le proprietà immobili e mobili degli ebrei (compresi gli spazzolini da denti). La nuova legge stabiliva tra l'altro dure pene per coloro che avessero compiuto «atti diretti all'occultamento, alla soppressione, alla distribuzione, alla dispersione, al deterioramento o alla esportazione dal territorio dello Stato» di quei beni; ed è opportuno ricordare che nessuna pena venne invece mai stabilita dalla Repubblica sociale italiana nei confronti di coloro che attuavano o predisponevano l"'esportazione" e la "soppressione" dei corpi viventi dei proprietari di quei beni.

Gli effetti, le reazioni, il lascito

I. La persecuzione varata nel 1938 violentò gli uomini e le donne, le loro identità, le loro coscienze, i loro rapporti sociali, i loro affetti. L'impostazione razzista data alla legislazione violentò anche le differenze di convinzione politica dei perseguitati, trasformandoli tutti - fascisti, antifascisti o afascisti che fossero - in nemici del regime (e ciò per i primi costituì uno specifico ulteriore tradimento). Alcune migliaia di ebrei si risolsero ad abbandonare la penisola, senza sapere se vi sarebbero tornati. Altre migliaia abbandonarono l'ebraismo, spesso senza peraltro cessare di essere perseguitati. Il numero annuo dei matrimoni di ebrei crollò, e così quello delle nuove nascite nelle famiglie già costituite. Alcuni infine si suicidarono. In fin dei conti, già prima del settembre 1943 la dittatura fascista era ben incamminata verso il conseguimento dell' obiettivo che si era data: l'eliminazione degli ebrei dal paese. I rimasti si riambientarono lentamente in un mondo uguale al precedente e però stranamente nuovo. Coloro che avevano familiari "ariani", o che avevano solide amicizie con non ebrei, mantennero alcuni legami con la società circostante e in taluni casi furono anche aiutati a proseguire o sostituire l'attività che era stata loro vietata; gli altri, e specialmente i più giovani, si rinserrarono nella famiglia e nella vita comunitaria ebraica, si trovarono rinchiusi in una sorta di ghetto immateriale. Gli enti ebraici, ossia le comunità e l'Unione delle comunità israelitiche ita1iane, si trovarono stretti tra l'amarezza e la rabbia determinate dalla persecuzione e la consapevolezza dell'isolamento che ormai li circondava, tra il desiderio di richiedere un qualche alleggerimento della nuova normativa e il timore di provocare invece ulteriori indurimenti. Alcuni dirigenti dell' ebraismo trovarono la forza per impegnarsi nella difesa della dignità propria e degli altri perseguitati. Il veneziano Giuseppe Jona, ad esempio, di fronte all' ennesimo articolo antisemita del quotidiano della sua città, il 18 ottobre 1941 si recò dal direttore per dirgli:

“Non sono così ingenuo da chiedervi ritrattazioni o rettifiche. Vengo a chiedervi qualche cosa di molto più semplice: vi chiedo che sappiate nell'avvenire serbare una maggiore misura nella vostra campagna di persecuzione. Voi sapete bene che noi siamo un bersaglio senza difesa. Non possiamo reagire colla violenza, perché sarebbe provocare un massacro. Non possiamo reagire per le vie legali, perché saremmo inascoltati. Perciò ci si può pugnalare, colla offesa atroce di tutti i giorni, sicuri dell'impunità. Comunque io non san venuto ad invocare generosità od equità. Vi ripeto, domando una cosa sola: sappiate. serbare nell' avvenire maggiore misura, per rispetto a voi stessi”.

(«Relazione alla Giunta della Comunità israelitica di Venezia (23 ottobre 1941)», citata in: Renata Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, il Cardo, Venezia, 1995, p. 95). 

Il primo e più rilevante problema che le comunità israelitiche si trovarono ad affrontare fu quello della scuola: nello spazio di poche settimane (talora, per le medie, di pochi giorni) dirigenti e comitati improvvisati si dedicarono a una frenetica attività per comprendere gli effettivi termini giuridici e burocratici della questione, reperire e attrezzare i locali, censire gli scolari, individuare gli insegnanti, organizzare insomma una struttura la più completa possibile. Tali difficoltà furono parzialmente compensate dall'elevato livello del corpo insegnante, comprendente anche docenti universitari licenziati, noti artisti espulsi da tutte le attività, studiosi di chiara fama estromessi da istituti e redazioni. Tutto ciò valeva comunque solo per le comunità più popolose; e, in termini complessivi, è stato osservato che la persecuzione fascista causò «un netto rallentamento, e perfino un regresso, in seno a certe generazioni», del livello educativo degli ebrei della penisola. Per una parte crescente degli adulti, la legislazione persecutoria significò invece prima di tutto la perdita del posto di lavoro, spesso senza possibilità di reimpiego. Alla fine del 1938 un esponente dell'Unione delle comunità israelitiche parlava già di «impellenti dolorose necessità di tanti correligionari stranieri divenuti improvvisamente indigenti, mentre comincia ad avanzarsi lo spettro della indigenza di correligionari connazionali colpiti dai recenti provvedimenti». Tra gli italiani, la punta di massima miseria si verificò probabilmente a Roma, ove la sola revoca nel 1940 delle autorizzazioni al commercio ambulante colpì numerose centinaia di «capi-famiglia del popolino, tutti con moltissimi figli ed altre persone a carico». In termini generali, la persecuzione comportò un deciso impoverimento medio del gruppo ebraico nel suo insieme e un forte impoverimento di ampi strati di esso; e occorre tenere presente che a questo fenomeno finì per contribuire la stessa opera di assistenza agli ebrei bisognosi, sostenuta largamente da quelli facoltosi o per il momento meno colpiti dalla persecuzione. La grande maggioranza dei non ebrei, la cosiddetta gente comune (ossia coloro che non erano fascisti convinti o antifascisti) si dovette misurare con la propaganda attivata dal regime. Ernesta Bittanti, l'intelligente compagna (non ebrea) di Cesare Battisti, così descrisse quest'ultima, nel novembre 1938:

“La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso, ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli (approva, per esempio, con enfasi, la soppressione d'una casa editrice, soppressione che ha condotto l'onesto editore ebreo al suicidio). Lo spettacolo di un pagliaccio ubriaco. Ma dàlli, dàlli, dàlli, il senso di diffidenza e di odio si appiccicherà, si diffonderà (a nostra vergogna) forse. Non mancano già i pappagalli ed i malvagi. (* Ernesta Bittanti Battisti, Israel-Antisrael. Diario 1938-1943, Manfrini, Trento, 1984).

E la già menzionata Silvia Forti Lombroso così ha tratteggiato gli effetti di questa campagna e la diversità di comportamento dei suoi conoscenti "ariani":

“Ripenso a voi, nobili e cari e indimenticabili amici, che ci siete venuti incontro nell' ora del dolore con tanta delicata comprensione, con generosità così calda, con così consolante e coraggioso disinteresse! Siete sparsi un po' dappertutto, dalla Liguria rude ma sincera, alla cara lontana Sicilia, e nell'agonia dei giorni tormentosi, i fili d'oro della vostra amicizia ci hanno protetto, con un velo impalpabile, dalle ferite più crudeli. Una parola fu coniata per voi: "pietisti", e vi fu gettata in faccia come un'accusa. Come pietisti l'avv. R. e il dr. B. furono mandati al confino; e con loro quanti altri! La nuovissima civiltà infatti ha paura specialmente di una cosa; di lasciar sussistere negli individui dei sentimenti umani. Giustizia, tolleranza, solidarietà, pietà, sono i nemici peggiori, e vanno combattuti con ogni arma. E curiosa è la "reazione", cioè la "non reazione" che ho osservato nelle persone anche intelligenti, anche buone. Protesterebbero se voi diceste loro che sono inumani, anticristiani; eppure, in pratica, si sforzano giorno per giorno di diventare un poco più indifferenti al tormento quegli altri; e se proprio qualche scrupolo rimane, lo fanno tacere; e si consolano dicendo che, in fondo a questa campagna, ci deve essere "una ragione", un qualche cosa di misterioso, che nessuno ha scoperto mai, che nessuno sa cosa sia, ma che" ci deve essere", non fosse che per permettere a questa brava gente di dormire i propri sonni tranquilli”.

Così, - l'antisemitismo attivo, praticato senz'altro da una minoranza della popolazione, venne affiancato da una fascia di indifferenza, ben più diffusa del primo, e di fatto complice di esso. Vi furono, certamente, donne e uomini "giusti" (i "pietisti"), e non furono pochi. Ma, giorno dopo giorno, il regime fascista accrebbe il tasso medio di antisemitismo della società nazionale.

II. Senza considerare i circa 200 ebrei trasferiti dall'isola di Arbe a Trieste e lì "unificati" a quelli rastrellati nella penisola, durante l'intero periodo vennero deportati dall'Italia 7400-7600 ebrei, 6720 dei quali sono stati identificati; di questi, 5896 vennero uccisi e 824 sopravvissero. Altri 299 ebrei morirono nella penisola. La retata più numerosa (oltre 1000 deportati) fu quella effettuata a Roma il 16 ottobre 1943; gli eccidi principali furono quelli delle Fosse Ardeatine (ove vennero uccisi ebrei e non ebrei) e del Lago Maggiore. Il totale dei deportati e degli uccisi in Italia fu pari a poco meno del 20 per cento delle circa 43.000 persone classificate "di razza ebraica" presenti nelle regioni assoggettate all'occupazione tedesca e alla Repubblica sociale italiana (la percentuale delle vittime tra le persone effettivamente ebree fu più alta; tra i rabbini-capo fu pari al 43 per cento). Gli altri circa 35.000 perseguitati evitarono l'arresto grazie alla fortuna, al proprio spirito di iniziativa, o all' aiuto di altri ebrei e - soprattutto - non ebrei; di essi, circa 6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera o nell'Italia del sud, 28.000 riuscirono a rimanere nascosti, un migliaio partecipò alla Resistenza. Una relazione, redatta nel febbraio 1945 da una torinese impegnata nell' azione di soccorso ai perseguitati, così descrisse la loro condizione:

“Da oltre un anno gli ebrei sono scomparsi dalla circolazione. Non ne devono più esistere nella Repubblica Sociale Italiana. Eppure di tanto in tanto per la strada accade di incontrare qualche parente, qualche amico. I volti si animano, la gioia di ritrovarsi brilla negli occhi. Istintivo e reciproco è il pensiero: "Sei ancora vivo?". Si narrano in breve le vicende e le peripezie subite. Sono per lo più le medesime: gravi pericoli corsi, vagabondaggi di paese in paese, sempre con il terrore di essere scoperti, separazioni improvvise di famiglie, sofferenze morali e disagi fisici sopportati. E purtroppo immancabilmente c'è qualche brutta notizia: "Sai, hanno ucciso in combattimento Sergio. Hanno preso Guido e sua moglie. Il bimbo di pochi mesi è stato raccolto da parenti!". Il pensiero va agli amici cari di un tempo, a qualche serata passata insieme lietamente, spensieratamente. Amici che non rivedremo più. Uccisi o deportati è la stessa cosa. Anzi, l'ucciso ha dato generalmente la propria vita per un ideale; muore subito o quasi; riceve, sia pure nel modo più occulto o modesto, sepoltura. I compagni ne riferiscono gli ultimi istanti, parlano della sua morte. Del deportato in Germania non se ne sa più nulla; muore in qualche oscuro campo di concentramento dopo atroci sofferenze fisiche o morali, ridotto forse ad uno stato di abbrutimento animalesco. I due si lasciano. Naturalmente l'uno tace all'altro il proprio indirizzo, le proprie nuove generalità. E chissà quando si riincontreranno, se pure si incontreranno ancora. (Giorgina Segre, Gli ebrei nella Repubblica sociale italiana, Archivio della fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Fondo Raffaele Jona).

Il gravissimo cambiamento di qualità della persecuzione determinò anche un cambiamento nelle reazioni dei non ebrei; tanto più che le sconfitte militari e ora anche l'esistenza (al sud) di un'Italia non fascista spingevano ad interrogarsi finalmente a fondo sulla condizione propria e del paese. Così, molti ebrei furono salvati e protetti da molti italiani non ebrei. Questi erano persone di tutti i ceti sociali e di tutte le condizioni professionali; tra essi vi erano contadini e impiegati delle anagrafi comunali e delle questure, dirigenti di ospedale e ­con un ruolo spesso determinante - responsabili di conventi e altre strutture cattoliche. In quei mesi, tra le persone classificate "di razza ariana" (ossia il 999 per mille della popolazione della penisola), si svolse un duro confronto tra gli "italiani mala gente" - gli arrestatori, i delatori, gli acquiescenti, i noncuranti - e gli "italiani brava gente" - i soccorritori attivi, i caritatevoli, i solidali, i "giusti" -. Fu l'impegno militare degli Alleati e quello politico e militare della Resistenza a permettere la vittoria dei valori di questi ultimi, e quindi la salvezza e il ritorno all'eguaglianza degli ebrei non ancora arrestati.

III. In una Firenze appena liberata, e mentre nell'Italia settentrionale ancora avvenivano arresti e deportazioni, il giornale del Comitato toscano di liberazione nazionale, La Nazione del Popolo, scrisse:

“Si è tanto parlato, in tempo fascista, sui giornali, sulle riviste e sui muri, del cosiddetto problema della razza, e quelle parole si sono accompagnate ad azioni così feroci e così profondamente offensive del senso civile degli italiani, che l'improvviso silenzio sull'argomento viene accolto, in generale, con sollievo. È una vergogna di cui tutti preferiscono dimenticarsi, una volta che i nostri concittadini perseguitati abbiano ritrovato il loro posto nella libera comunità del nostro popolo. Se le leggi e le persecuzioni razziali fossero state un episodio occasionale nella lunga storia dei misfatti fascisti, il silenzio sarebbe giustificato. Se le rovine causate da queste leggi riguardassero soltanto coloro che ne furono colpiti, non avremmo da fare altro che abolirle, cercando di sanare per quanto è possibile, con spirito di fraterna solidarietà, i danni e i lutti dei perseguitati. ... Ma la politica razziale non fu un episodio occasionale, e le sue presenti rovine hanno travolto non i soli perseguitati, ma la vita intera del nostro Pae­se. Poiché il razzismo è la base stessa del nazismo, un suo momento necessario, un suo sinonimo; e non potremo dirci veramente liberati dall'ombra funesta del fascismo fino a che non avremo spazzato dalle nostre anime e dai nostri costumi fin l'ultimo ricordo della distinzione razziale. Il problema coinvolge tutta la nostra civiltà, e non deve, oggi, essere taciuto, né ridotto a una semplice questione di giustizia e di rivendicazione”. (La Nazione del Popolo, a. I, n, 19, 18-19 settembre 1944).

E, in quelle stesse settimane, a Roma, Silvia Forti Lombroso osservò:

“Ed ora, a poco a poco, giorno per giorno, si rinasce alla vita; no, non è questo; troppo comune è la frase, e non esprime che una parte della verità, la più superficiale. È una frase che vale per chi, grave per malattia, si salva all'ultim'ora, e ritorna agli umani con quel sorriso incerto e stanco di chi ha intravisto un al di là di pace, ma se ne distacca con gioia per rigodere il sole, per riattaccarsi all'amore. Ogni giorno porta una forza nuova, accresce una vitalità perduta; ma soltanto il corpo è malato, e le cellule e la linfa si rinnovano, man mano che l'infezione è indebolita e vinta. Ma siamo noi malati, siamo noi convalescenti? No, noi siamo della gente che per lunghi anni è stata ferita, calpestata, calunniata, e ha dovuto trovare in sé ed in sé sola, la forza di non soccombere. Noi siamo della gente che ha dovuto ad un tratto, senza colpa, senza ragione, rompere tutti i rapporti umani, rinunciare al supremo bisogno e al diritto di lavorare, far fronte a difficoltà e a pericoli mortali, e tutto questo senza potersi difendere, senza poter reagire: e ancora oggi che si ritesse intorno a noi la trama sottile che ci lega agli altri esseri, ancora oggi che dai frantumi della nostra vita sta per sorgere una vita nuova, più pensosa, più profonda, ancora oggi, per molti di noi, un qualche cosa di non preciso, di non ben chiaro, un qualche cosa che deve essere detto, e non fu detto, resta, sottile ed amaro, nell' anima ancora indolenzita... Questo martirio che noi abbiamo sofferto, ancora più nell'anima che nel corpo, questi nostri morti dilaniati, queste madri torturate, questi bimbi trucidati, e tutte le lacrime sparse, e le gioie perdute, e i focolari violati, tutta questa marea di furore e di sangue, tutto questo cumulo di rovine e di stragi che fu in Europa la persecuzione razziale, servirà a qualche cosa, servirà a una causa comune? Sarà la lava livellatrice che brucia e divora, ma prepara il ricco fiorire dei mandorli, o sarà la melma sassosa che uccide il seme e soffoca gli armenti? Nel dramma universale della guerra, nella vastità sconfinata delle stragi, la campagna razziale può sembrare, ed è realmente, un dramma che va considerato rispettando le leggi della prospettiva e dell’insieme. Gli ebrei non devono e non vogliono mettersi al centro del quadro: tutt'altro. Dopo tanta gratuita pubblicità, non desiderano che rientrare nelle file in silenzio, con dei capelli grigi di più, con delle rughe più fonde, coi loro lutti nell'anima; la loro tragedia si affianca a quella di tutti, scompare e si riassorbe nella tragedia della Patria. Ma è legittimo che essi chiedano a sé stessi e agli altri: servirà a qualche cosa questo sangue versato, il sangue di quasi sei milioni di uccisi, come il sangue del più umile fantaccino francese, inglese, americano, polacco, russo, come il sangue del patriota italiano, come il sangue dei civili di tutto il mondo sepolti dalle macerie della propria casa, serve una causa comune, la causa della libertà e della civiltà? Per questa nostra sventura, per questi morti invendicati, per questa ingiustizia sofferta, che vuole e deve essere dimenticata, potranno i figli, e i figli dei nostri figli, pensare a noi come a chi, cadendo, ha preparato un mondo migliore, che non sia più il mondo dei "se", dei "ma", delle mezze frasi reticenti, delle allusioni offensive, delle insinuazioni misteriose, delle reminiscenze approssimative, che prepararono così bene il terreno per il sorgere e lo scatenarsi di queste persecuzioni mostruose? Ecco il dubbio che ci tormenta, ecco la ragione, la vera ragione del nostro pensoso accoramento... Si vorrebbero abolite, non sulla carta soltanto, ma nei cervelli, anche le premesse per le quali la persecuzione stessa ha potuto essere, non dirò approvata, ma sopportata, senza che da parte di molti ci fosse una vera, profonda, sincera rivolta morale”.

Da La persecuzione degli ebrei durante il fascismo - Le leggi del 1938, a cura della Camera dei Deputati, 1998

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