Diario

Nella Varsavia invasa dai nazisti frena Sendlerowa salvò 2.500 bambini facendoli fuggire dal ghetto e affidandoli a nuovi genitori nei quartieri «ariani». Oggi, a 98 anni, non se la prende per il Nobel fumato nel 2007

La vita in un barattolo

Paolo Stefanini

 

D'improvviso il mazzo di fiori diventa ingombrante. E capitato ormai più d'una volta: qualcuno entra nell'ufficio dell'organizzazione «Bambini dell'Olocausto», a Varsavia, e chiede dove sia sepolta Irena Sendlerowa. Cerca, per renderle omaggio, la tomba della donna che salvò più di 2.500 ragazzi del ghetto. Ma quei fiori non servono: Irena è viva, ben lucida, e il prossimo 15 febbraio compirà 98 anni. Dal 2005 è ospitata in una casa di riposo dei Bonifratrzy (Fatebenefratelli), nel centro della capitale polacca. La salute comincia a farle qualche scherzo. Colpa dell'età e delle sevizie subite dai torturatori della Gestapo, di fronte ai quali mostrò un coraggio inflessibile. Adesso, per non stancarsi troppo, riceve poche visite e non risponde più a tutte le lettere. Le hanno preparato delle cartoline prestampate con la sua foto, e si limita a qualche parola di saluto e a una firma. «Non capisco, non sono mica una stella del cinema», si schermisce, convinta fino a un certo punto di questa trovata. E si irrita parecchio con chi, nello scriverle, la chiama «eroina». Come molti dei Giusti ripete di aver fatto soltanto il suo dovere. Nessun eroismo. Anzi, alla soglia dei cent'anni, racconta d'avere ancora un fastidioso tarlo nella coscienza: il quotidiano rimorso del «forse avrei potuto tirarne fuori anche solo uno in più». Può spiegare il come e il quando, lei, cattolica polacca (di simpatie socialiste), ha rischiato la vita per aiutare i bambini ebrei, ma non il perché. Il perché va oltre il raggio d'azione delle parole. E le uniche che riesce a trovare sono quelle di un vecchio insegnamento del padre: «Quando qualcuno affoga non c'è tempo per farsi domande, devi tuffarti e andarlo a salvare». Nel 2007 gli ebrei polacchi si sono affannati a raccogliere firme per candidarla al Nobel per la pace. La raccolta è stata un successo; il premio, invece, è andato alle battaglie ecologiste di Al Gore che, poco dopo, con similitudine assai infelice, ha paragonato il surriscaldamento globale ad Auschwitz e ai suoi forni. «Che importa se non ho vinto?», sorride Irena, involontariamente felice, col piglio di chi può trattare con una certa confidenza lo spirito della storia: «lo, ai tempi della guerra, di premi ne ho vinti più di 2.500, uno per ogni bambino portato fuori dalle mura del ghetto e strappato ai crematori di Treblinka». Per molti di loro, purtroppo, non fu invece possibile far niente. «Alcune volte riuscivamo a convincere la madre ad affidarci il figlio, ma il padre si opponeva. Altre volte era il contrario. O fu un nonno a imporsi. Erano momenti terribili. Sogno ancora adesso quelle grida. Ci chiedevano garanzie e noi non potevamo dame. Ma il rimpianto più crudele è di quando decidemmo di ritardare di un giorno l'evacuazione dei ragazzi da una palazzina. L'indomani tutti gli appartamenti erano vuoti. Grandi e piccoli erano stati rastrellati e caricati su un treno. Di sola andata». La scelta da parte dei genitori non era facile. Non si trattava solo dello strazio della separazione dai figli. Il prezzo pagato dai bambini per la vita era ancora più salato: un doloroso pogrom interiore. Per salvarsi dovevano cambiare famiglia e nome, e assumerne uno cristiano. Ai più grandi venivano insegnate, in tutta fretta e per meglio mascherarli, preghiere cattoliche e segno della croce. E spesso anche l'essenziale della lingua polacca, se erano cresciuti parlando solo yiddish. L'attività di Irena Sendlerowa era iniziata nel 1939, fin dal momento dell'invasione nazista della Polonia. Lei era un'infermiera della Sanità pubblica di Varsavia e si occupava di assistenza sociale e della prevenzione delle malattie epidemiche. Del resto, già il padre, Stanislaw Krzyzanowski, medico condotto di simpatie socialiste a Otwock, poco fuori Varsavia, era morto nel 1917 di tifo, proprio mentre cercava di combattere il contagio nella parte ebraica della cittadina, duramente colpita. Dopo la chiusura del ghetto della capitale da parte dei tedeschi (il 15 otto­bre del 1941), la situazione sanitaria divenne rapidamente drammatica: oltre 450 mila persone erano ammassate in 16 isolati, senza cibo né farmaci a sufficienza. In questa prima fase Irena sfruttò il suo lasciapassare sanitario per continuare a entrare nel settore ebraico, portando (con l'aiuto di altre dieci persone) soldi, alimenti, documenti falsi (almeno tremila), carbone, medicinali. Presto sostituì la croce di tela rossa sulla falda del cappello con una stella di David all'avambraccio. «Fu un impulso di solidarietà», spiega, «ma anche un modo per meglio passare inosservata». La Sendlerowa (il cognome lo prese da quello, Sendler, del suo primo marito) riuscì a portare fuori dal ghetto le prime centinaia di bambini ebrei e ad affidarli, con generalità cambiate, ai nuovi genitori cristiani, nella parte ariana della città, o a orfanotrofi cattolici e conventi di suore. Per superare i rigidi controlli si inventava di tutto. I piccoli venivano sedati con potenti sonniferi e trasportati in ambulanza, nascosti sul fondo o nelle ceste piene di garze insanguinate. Altre volte erano infilati in valigie, in casse, o addirittura in sacchetti d'immondizia sui carri della spazzatura. O ancora, passavano per condotte, cantine, o entravano e uscivano dai due ingressi di una chiesa che si trovava proprio lungo il muro di confine del ghetto. In quel caso le preghiere di Cristo dovevano averle imparate bene, perché le SS e alcuni «informatori» polacchi facevano sempre una sospettosa guardia fra panche e altari. Quando mancava il narcotico, i rischi maggiori venivano dai più piccoli. I bambini di pochi mesi potevano infatti scoppiare a piangere da un momento all'altro, e la legge imposta dagli occupanti hitleriani prevedeva la pena di morte per chi aiutava gli ebrei. Così, molti devono la vita alla coda di un cane: Antoni Debrowski, l'autista dell'Ufficio sanitario, la pestava con forza al primo frigno. La bestia iniziava ad abbaiare, forsennata, e copriva il rumore del pianto. Proprio grazie all'esperienza ormai accumulata, Irena venne scelta nel dicembre del 1942 come dirigente della «sezione bambini» di Zegota, l'appena istituita organizzazione clandestina della resistenza polacca finalizzata all'aiuto degli ebrei. La fanteria della soluzione finale lavorava con zelo, la deportazione era al suo zenit. Il ghetto si stava svuotando grazie a quotidiani, massicci, rastrellamenti. Fu in quella fase che divenne chiara l'intenzione tedesca, fino ad allora dissimulata, di sterminare il popolo ebraico. I giovani del ghetto iniziarono a organizzare la resistenza, che sarebbe culminata con l'insurrezione del 1943 (19 aprile-16 maggio), e sempre più genitori presero ad affidare i loro figli a Zegota e alla rete messa in piedi dalla giovane infermiera Sendlerowa. Jolanta - questo il nome in codice con cui era conosciuta - organizzava ogni giorno evasioni di giovanissimi ebrei. Di ognuno segnava su piccoli foglietti di carta velina, che poi arrotolava, il nome ebraico, l'indirizzo, e la nuova identità «ariana». L’intenzione era quella, una volta finita la guerra, di restituire tutti i bimbi ai loro genitori. La lista era ormai lunga e il rotolo corposo quando la Gestapo venne a bussare alla sua porta, il 20 ottobre del 1943, proprio nel giorno del suo onomastico. Irena teneva sempre l'elenco su un tavolinetto. L’idea era quella, in caso di visite sgradite, di gettare il registro nella siepe giù in giardino. Ma quando aprì la finestra, la casa era circondata. Solo grazie alla prontezza di riflessi della staffetta Janina Grabowska, che nascose l'involto nelle mutandine, la lista si salvò. Irena venne invece arre­stata. «Non posso ricordare quello che mi fecero», dice oggi, «andate a vedere nel museo del carcere di Pawiak gli strumenti di tortura che usavano e capirete». Le troncarono un braccio, poi le spezzarono le gambe e le fracassarono le ossa dei piedi. Non confessò. La condannarono a morte. Ma Zegota pagò un'altissima tangente per corrompere l'aguzzino, che la fece scappare, segnando il suo nome tra i giustiziati. «Ho visto io stessa», racconta, «i minacciosi manifesti che annunciavano la mia avvenuta esecuzione». Appena libera, per prima cosa rientrò in possesso della lista, ne fece una copia e seppellì i rotoli in due barattoli di vetro sotto un albero che, nella Varsavia del 2008, dà ancora un po' delle sue piccole mele. Di lì in poi, con lo pseudonimo di Klara Dabrowska, correva di tanto in tanto a scavare e sotterrare di nuovo, in fretta, i barattoli, arricchiti di qualche nome. Fino a superare, entro la fine della guerra, quota 2.500. Proprio i due barattoli hanno ispirato il titolo (Life in a jar, «La vita in un barattolo») del lavoro che ha permesso la riscoperta, tardiva, di Irena Sendlerowa e della sua storia. Una riscoperta abbastanza casuale, che non è venuta né dalla Polonia né da Israele (che pure l'ha inserita fin dal 1965 nell'elenco dei «Giusti tra le Nazioni» e, nel 1991, le ha concesso la cittadinanza onoraria), ma da Uniontown, una cittadina rurale del Kansas. Nel 1999, in occasione di un concorso scolastico di storia, tre studentesse allora teenager, un po' a corto di idee, chiesero consiglio al loro professore, Norm Conard. Lui, che aveva conservato un ritaglio di giornale sugli «altri Schindler» pubblicato sei anni prima, ai tempi del fortunato film di Steven Spielberg, suggerì di cercare qualche informazione su uno di quei Giusti. Quella cattolica polacca che sembrava aver salvato 2.500 bambini, per esempio, poteva essere un buon tema. Di scoperta in scoperta (all'inizio anche loro la credevano morta) ne venne fuori una bella tesina e una rappresentazione teatrale di dieci minuti (ormai replicata più di 225 volte tra licei, teatri e chiese) che vinse il National History Day Contest del Kansas e concorse per quello federale. Quando le ragazzine, nel 2001, sono volate a Varsavia per incontrare Irena Sendlerowa, la notizia era di quelle ghiotte. Non se la perse la Cnn. Non se la fece scappare Usa To­day. Fu ripresa dai principali quotidiani polacchi. E la «santa laica», come l'ha definita il professor Michal Glowinski, uno dei salvati, tornò al centro dell'attenzione, dopo decenni di dimenticatoio. Tanto che, ormai più che novantenne, Irena ha ricevuto premi su premi, titoli, onori e medaglie sia in Polonia che all'estero, fino alla battaglia per il Nobel, cui forse non ha giovato l'esplicito appoggio dei discussi gemelli Kaczynski. Gratitudini e notorietà sconosciute alla Sendlerowa durante il lungo periodo della Polonia comunista. Subito dopo la guerra, Irena si iscrisse al Partito socialista, che confluì nel 1948 nel Pzpr (il Partito operaio unificato polacco, alla guida del Paese fino al 1989). Ma poco dopo, scontenta del nascente regime, restituì la tessera. Nel 1949 fu arrestata e sottoposta a brutali interrogatori da parte della polizia segreta. La accusavano di coprire la clandestinità di alcuni membri dell'Armia Krajowa, l'esercito nazionalista che, dopo aver combattuto i nazisti, adesso si opponeva anche ai comunisti. Del resto, la stessa Zegota, l'organizzazione di soccorso agli ebrei di cui era stata dirigente, era un'emanazione dell'odiato governo polacco in esilio a Londra, colpevole di non riconoscere la repubblica popolare, alleata di Mosca. A salvarla fu la giovane Irena Majewska, moglie del capo della polizia politica del distretto di Varsavia. Fu riconoscenza: era una delle ragazzine ebree che aveva strappato alla morte sicura del ghetto. Ma il passaporto, ritirato, la Sendlerowa lo avrebbe rivisto solo trent'anni dopo. E, infatti, ha potuto piantare il suo albero nel giardino dei Giusti dello Yad Vashem, a Gerusalemme, solo nel 1983. Quanto ai bambini salvati, quasi tutti i loro genitori morirono a Treblinka e solo poche decine poterono essere restituiti alle famiglie d'origine. L’elen­co fu consegnato ad Adolf Berman, capo, nel dopoguerra, del Comitato degli ebrei polacchi. Molti ragazzi furono mandati in orfanotrofio in Israele, ma tanti rimasero con le famiglie adottive che, ormai affezionate, si rifiutavano di farseli portare via. Per quelli che al momento dell'adozione erano troppo piccoli per poter ricordare, la scoperta della verità è stata spesso traumatica. Alcuni casi sono emblematici, come quello del prete cattolico Roman Waskinzel, che ha scoperto da adulto, e dopo l'ordinazione, di esser nato ebreo, col nome di Jakub Wechsler. L’associazione «Bambini dell'Olocausto» conta oggi 800 membri, tra i 62 e gli 81 anni d'età (in gran parte donne, perché i ragazzi, circoncisi, erano più difficili da salvare). Tra i suoi tanti compiti ha anche l'assistenza psicologica agli iscritti, che convivono con un'eredità lacerante. Hanno vissuto a cavallo di due epoche, una delle quali è stata spazzata via dal lager. Hanno avuto due nomi, due cognomi e due religioni. E hanno amato almeno tre madri: la loro, quella adottiva, e Irena Sendlerowa.


Zegota, il gruppo clandestino d'aiuto agli ebrei, ebbe come fondatrice una cattolica oltranzista

L'antisemita Giusta

(P.S.)

 

«Konrad Zegota» era un nome in codice: una parola d'ordine che, durante la Shoah, ha significato la salvezza per più di nove mila ebrei polacchi. Qualche aiuto materiale e la consolazione di non essere completamente abbandonati. Il Consiglio per l'aiuto degli ebrei «Konrad Zegota» venne fondato, nel 1942, grazie ai finanziamenti del governo polacco in esilio a Londra. Si rifiutarono di fame parte soltanto le ali estreme del panorama politico della Varsavia prebellica: la destra radicale, a cui non dispiaceva la soluzione finale (e che dava volentieri una mano ai nazisti nei pogrom), e i comunisti, che non volevano mischiarsi con i partigiani nazionalisti dell'Armia Krajowa. Aderirono i socialisti cattolici (come Irena Sendlerowa) e quelli ebrei del Bund, i sionisti di destra e di sinistra, i rappresentanti del Partito dei contadini e di quello Democratico, e anche molti cattolici conservatori. Una delle due fondatrici (l'altra fu la socialista Wanda Krahelska-Filipowicz) era proprio una cattolica tradizionalista: la scrittrice Zofia Kossak, una donna che mai aveva nascosto il suo disprezzo ideologico nei confronti degli ebrei. Fin dagli anni Venti si era dichiarata a favore delle politiche di discriminazione e di numero chiuso. E, grazie a un certo fondamentalismo letterario, i suoi libri, in cui esaltava la Polonia come «baluardo della cristianità», avevano avuto un buon successo. Eppure, nel 1942, nella Varsavia occupata, la Kossak fece stampare clan­destinamente, in cinquemila copie, un duro volantino antitedesco. «Protesta!», era il titolo esclamativo. «Chi rimane in silenzio di fronte agli assassini», scriveva, «diventa loro complice. E chi non condanna, condona». Era un accorato invito ai polacchi a intervenire, ad aiutare gli ebrei «che stanno morendo circondati da tanti Ponzio Pilato, intenti solo a lavarsene le mani». La sua battaglia, però, era guidata solo da motivazioni spirituali: «È Dio che ci chiede di ribellarci. Perché Dio proibisce di uccidere anche gli apostati e gli infedeli». Quanto al resto, il suo giudizio non cambiava: «Gli ebrei vanno salvati a ogni costo e con tutti i mezzi, ma restano nemici della Polonia sotto il profilo economico, politico e ideologico». E si lamentava: «Sono così terribilmente diversi da noi, diversi e sgradevoli; proprio una razza a parte. Ci irritano, e tutto in loro disturba la nostra sensibilità: la loro irruenza orientale, la polemicità, il modo di pensare, il taglio degli occhi, la forma degli orecchi, quel continuo ammiccare». La Kossak rimase, insomma, sempre convintamente antisemita, anche quando rischiava la vita per salvare gli ebrei. Anche quando, proprio per la sua attività in Zegota, fu arrestata dalla Gestapo e finì ad Auschwitz. Anche quando sopravvisse e raccontò, in un romanzo, il lager e lo sterminio con le categorie del peccato contro Cristo e della pena espiata. Ed è forse l'unica antisemita inserita da Israele nell'elenco dei Giusti tra le Nazioni, nel 1985 (17 anni dopo la sua morte). Perché, seppur così discussa, ha contribuito, con la fondazione di Zegota, a salvare molte vite e, soprattutto, perché ha combattuto l'indifferenza quando la gran parte della gente «dimenticava gli imperativi etici, preferendo la logica della sopravvivenza».

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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