Diario

Nel Friuli schiacciato dall'occupazione nazista, le SS trasformarono le aule del liceo Stellini di Udine in celle di tortura. Ma non piegarono i suoi studenti, che si distinsero per valore nella guerra di Liberazione

I primi della classe

Luigi Raimondi Cominesi

 

Nel 1899, Fabio Luzzato, ebreo di Udine, docente alle Università di Bologna e di Macerata, avvocato, scrittore, mazziniano, pubblicava un Contributo agli studi stelliniani per onorare Jacopo Stellini, filosofo, matematico, critico, poeta, dei Chierici regolari Somaschi, insegnante all'Accademia dei Nobili alla Giudecca e all'Università di Padova, al quale, nel 1891, fu intitolato il Regio Liceo Ginnasio di Udine, aperto, in luogo diverso dall'attuale, nel 1808 (esattamente duecento anni fa) su decreto del vicerè d'Italia Eugenio di Beauharnais. Invece, l'imponente nuovo Stellini, in piazza 1 Maggio, fu inaugurato nel 1915, ma non fu usato come scuola, perché subito vi si insediò il quartier generale del Comando supremo italiano, in tal modo più vicino al Fronte dell'lsonzo. Vi rimase fino al 1917, allorché Udine e il Friuli subirono la prima invasione austrogermanica, dopo la ritirata di Caporetto. La seconda invasione tedesca del Friuli, dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943, trasformò il territorio regionale nella Friaul Provinz dell'Adriatisches Küstenland, zona di operazioni militari, di fatto annessa al Terzo Reich nazista. La città fu occupata dalla Wehrmacht e presidiata da reparti di polizia, attivi sotto varie sigle, coadiuvati da unità fasciste che si richiamavano alla Repubblica sociale italiana di Mussolini. Fra gli altri, operavano in Udine due feroci cacciatori di ebrei, i sondeiführer (comandanti con compiti speciali) Hengst e Hold, dell'Einsatz Kommando Reinhardt (Gruppo operativo Reinhardt, colpevoli di deportazioni ed eliminazioni, così come lo era stato l'autista Fritz Wunderle, che aveva guidato un camion con gassificatore e che, quando era ubriaco «con gli occhi che gli brillavano, si ricordava dei molti bei corpi nudi di donne ebree che con questo metodo diabolico avevano trovato la morte» (dal diario di Hans Kitzmüller). Gli ebrei di Udine che caddero nelle loro mani furono inviati nei lager, e molti non tornarono. Ricordiamo, fra i vivi e i morti, il senatore del Regno Elio Morpurgo, Gino Jona, Leone Jona, che fu partigiano nella Divisione Osoppo-Friuli, Roberto Jona e Leone Modena. Anche il dottor Sigismondo Osser, detto Paolo, un medico polacco, era ebreo. E fu partigiano nella Divisione Garibaldi-Natisone, così come Aldo Zamorani detto Aldo, un «misto», lo era nella Osoppo. Entrambi sono caduti nella lotta armata: lo Zamorani è stato decorato di medaglia d'oro alla memoria. Per tutelarsi dall'offesa aerea alleata, dai colpi di mano e dai sabotaggi dei partigiani, il comando tedesco costituì in città, intorno a piazza 1 Maggio, una Sicherungsgebiet (zona di sicurezza) tagliata quasi a metà dalla via Benedetto Cairoli, che incrocia via Treppo, la quale parte dal tribunale e si snoda verso le carceri. Per molti patrioti il cammino ultimo verso la deportazione o l'esecuzione capitale. In quella zona erano compresi il liceo, il comando delle SS, delle SD (la polizia di sicurezza), la posta militare tedesca, il palazzo di giustizia dove aveva sede il Tribunale militare tedesco, nonché l'ospedale militare e la Todt (l'Organizzazione del lavoro obbligatorio), due rifugi antiaerei, altri uffici e acquartieramenti, posti di blocco e di controllo. Nell'attuale archivio notarile erano sistemati gli uffici e due celle della SD. Responsabile del comando di piazza (per le polizie) era il colonnello delle SS Jakob Ludolf von Alvesleben, mentre la SD fu guidata in momenti diversi dagli ufficiali Moller, Borchardt e Stanglica, detto Cagnaccio, colpevoli di rappresaglie che infrangevano persino la cosiddetta legge del taglione di «dieci italiani da ammazzare per ogni morto tedesco». Ma Udine, il Friuli, la Carnia non subirono passivamente l'occupazione: le formazioni partigiane difesero il territorio, costituendovi addirittura due zone libere e tennero sotto costante pressione le unità tedesche e fasciste. Numerosi studenti del liceo Stellini furono protagonisti della Resistenza. Un «Battaglione studenti» fu comandato da Loris Fortuna (il ministro del divorzio), a fianco del quale militava il futuro professore di filosofia Sergio Sarti. Valerio Rossitti, detto Piero, medico, era a capo dei servizi sanitari della Divisione Gap, così come lo fu, per la Garibaldi, il dottor Manlio Fruch, deportato e morto di stenti qualche giorno dopo la liberazione del lager dove era rinchiuso. Nicolò Sidoti, Guido Paladin e chi scrive furono impegnati nella lotta armata e nella Guerra di liberazione in settori diversi; l'avvocato Giancarlo Franceschinis teneva i collegamenti con i comandanti Abo e Fabian della Carnia e con Ivo Forni, suo e mio professore di filosofia che, pur essendo nella Milizia fascista, dava informazioni preziose. Scoperto, fu arresta­to dalle SS e deportato a Mauthausen dove, «colpito da edema diffuso e non più capace di camminare, fu portato con un carretto o carriola al forno crematorio» (lettera di G. Franceschinis all'autore). Il professore di Scienze Luppi sopravvisse all'internamento militare e Gian Battista Caron, detto Vico, che fu preside nel biennio 1945-47, era stato fra i costituenti il Comando del raggruppamento Divisione Osoppo. E osovano era stato anche Tarcisio Petracco, detto Lucio, docente di greco. Il suo nome è legato alla fondazione dell'Università di Udine, di cui può essere detto il padre. Angelo Alvera, preside dal 1938 al 1944, venne richiamato negli alpini e morì a Dachau. A nulla valsero la sua partecipazione alla Marcia su Roma e la fedeltà agli ideali fascisti. Eravamo tutti immersi, ficcati nella storia del Paese con grandi ideali e grandi speranze, eravamo atei, cattolici, ebrei, liberali, socialisti, giellisti, repubblicani, comunisti, con la pena di morte sul capo. Eravamo i Greci che difendevano la propria polis, gli opliti di Leonida, le camicie rosse di Garibaldi, gli arditi del popolo, eravamo diventati antifascisti per strade diverse: i nostri maestri erano Croce, Marchesi, Sturzo, Amendola, Gobetti, ma anche i soldati anziani che erano stufi di fare la guerra. Ma anche le donne che ne patirono di ogni sorte... Ben quattro sono gli stelliniani decorati con la medaglia d'oro alla memoria, caduti nella Guerra di liberazione. De Corti fu, nel 1943, tra i primi a cadere durante un tentativo di oltrepassare le linee nell'area della Maiella per congiungersi con gli Alleati: fu colpito mentre copriva la fuga dei suoi compagni. Era ufficiale di aviazione anche il tenente Del Din, fratello della professoressa Renata (medaglia d'oro anche lei). Era uno stelliniano e cadde nell'assalto a una caserma della Mdt (la milizia fascista di difesa territoriale), a Tolmezzo, Luigi Cosattini, giovanissimo docente di Scienze giuridiche all'Università di Padova. Morì in un lager nazista in un giorno imprecisato, mentre Giovanni Battista Berghinz finì a Trieste, alla Risiera di San Sabba. Il liceo Stellini fu dunque generatore di uomini coraggiosi e valenti in ogni aspetto della lotta contro i nazifascisti che, con crudele rozzezza, avevano svilito lo spirito del sapere, la dignità, la centralità della cultura, l'altissimo valore della conoscenza. Bruno Bruni - uno stelliniano dell' Academiuta di lenga furlana di Pier Paolo Pasolini - ne parla nel Ragazzo e la civetta, citando l'ottobre del 1943: «Pochi giorni di scuola nelle aule cittadine all'ombra del Castello e poi gli stivali chiodati percuotono corridoi e scale cacciando ogni segno di sapere con parole, con grida di selvaggia barbarie, di sangue e morte». Lo Stellini era diventato scuola delle SS italiane, fasciste, anzi, naziste. Sono tornato nel mio vecchio liceo, ristrutturato dopo il terremoto del 1976, accolto da Annamaria Germini Fantini, la preside, e da Francesca Noacco, che dirige la ricchissima biblioteca. Ho rivisto l'aula della I C del 1939-40 e ho rivissuto momenti di gioia, cancellati subito dalla visita alle cantine del corpo est dell'edificio. Ho sentito le urla dei torturati, ho visto Berghinz legato, trascinato nelle carceri di via Spalato, duramente provato per la bastonatura a sangue e ancora e ripetutamente sottoposto ad altre torture, proprio là, nelle cantine della sua scuola, trasformate in anticamera di quell'inferno che lo avrebbe inghiottito, quasi cieco per i pestaggi e ridotto a uno straccio sanguinante nella maledetta Risiera. Pestarono gli scarponi dei nazisti e dei fascisti sul nostro Friuli vilipeso, tradito, sporcato dalla violenza, dall'inganno, dalle delazioni ricompensate con denaro e con sale. E appunto per delazione di uno o più fascisti finirono allo Stellini i nove componenti della famiglia Szorényi, «misti», ma classificati come «ebrei apolidi». Erano fuggiti da Fiume e si erano rifugiati a San Daniele. Arrestati dalle SS di Udine furono trasferiti con un camion, per un primo interrogatorio, allo Stellini, perché «dovevano prendere degli schiarimenti sul nostro cognome in quanto ungherese, e ci avrebbero tenuti via pochi giorni», scrive sul suo diario Arianna Szorényi, che allora aveva dieci anni. Dopo aver trascorso tutta la mattina in un corridoio furono fatti entrare, uno alla volta, nell'ufficio del comandante. «Oltre ai documenti ci chiese le cose di valore e quello fu il primo spoglio dei nostri beni... Quando venne il mio turno ero piena di paura, ma mia mamma mi fece coraggio. Nella stanza c'era un ufficiale in divisa che incominciò a farmi un sacco di domande in lingua tedesca. Fino a che si trattava dei miei dati anagrafici seppi rispondere, ma poi dissi: "Non capisco, non parlo tedesco". Lui, urlando, fece entrare un interprete e questi mi disse: "Il Comandante vuole sapere se hai oggetti di valore, anelli, braccialetti o altre cose". Io dissi di no, ma poi ingenuamente feci vedere un anellino di perle colorate (di vetro), che per me aveva un grande valore perché me lo ero fatta da sola. Il tedesco me lo strappò dalla mano, rosso di collera, sbraitando non so che cosa, lo pestò sotto gli scarponi urlando: "Das ist Dreck!", e mi diede uno schiaffo sulla mano». Dallo Stellini alla Risiera, ad Auschwitz: Arianna e Dino, i soli superstiti dei nove familiari, saranno inesauribilmente infelici, disperati, in alcuni momenti terrorizzati, spaventati, in particolare Arianna, alla quale i cani, grandi o piccoli, ricordano quelli delle guardie del lager, ancora oggi. Nello stesso periodo a Gemona erano tenute nascoste altre due bambine «miste», di padre ebreo, protette nel collegio francescano, sotto il nome di famiglia delle madri. Un giorno, sui vetri appannati cominciarono a scrivere i loro veri nomi e cognomi: Marina Basevi, Marina Basevi, Grazia Levi, Grazia Levi, «per ritrovarsi, per sentirsi ancora vive, complete. Ma i segni si trasformarono in gocce e i nomi scomparvero».

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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