Diario

L’emittente cattolica polacca, alla base del successo dell' odierno governo conservatore, è il motore di un antisemitismo che non accenna a fermarsi

Radio Maryia & Co

 

Matteo Tacconi

 

A Varsavia si dice che i rapporti tra la Polonia e la locale comunità ebraica sono come l'ottovolante. Salgono e scendono continuamente, attraversano alti e bassi, si arenano e poi ripartono. Dal 1989 a oggi le relazioni, salvo qualche sporadico intoppo, sono state più che buone. Poi, nell'autunno scorso, le cose sono cambiate. L’ebreo è tornato un nemico, l'intolleranza ha tracimato. Protagonista della prima grande scossa antisemita registrata a partire dall'avvento della democrazia non sono stati i vecchi esponenti di una nomenklatura comunista che si è sempre contraddistinta per l'enfasi antisemita, bensì Radio Maryia, un'emittente cattolica. Fondata 15 anni fa da padre Tadeusz Rydzyk, la radio ha sede a Torun, città della Polonia centro-settentrionale, a metà strada tra la capitale Varsavia e Szczecin, meglio conosciuta dalle nostre parti come Stettino, data la necessità di schivare la più che difficoltosa pronuncia. Baluardo della Polonia contadina e conservatrice, Radio Maryia vanta ascolti record: quattro milioni di persone si sintonizzano quotidianamente sulle sue frequenze e assimilano per osmosi l'ideologia di Rydzyk, improntata all'antieuropeismo, al nazionalismo in chiave antitedesca e all'accanimento contro il demone comunista, che a detta degli speaker della radio si aggira ancora nei villaggi e nelle città della Polonia. Dall'autunno del 2005, nel pieno della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento e della presidenza della Repubblica, Radio Maryia, che ha avuto un ruolo fondamentale nella vittoria del blocco populista alle legislative e nell'elezione del conservatore Lech Kaczynski a capo dello Stato, ha alzato decisamente i toni e iniziato a prendere di mira gli ebrei. Vale la pena citare un piccolo ma assai significativo assaggio del lessico sconcertante utilizzato contro questi ultimi: il 27 marzo scorso, Stanislaw Michalkiewicz, commentatore della radio, ha spiegato agli ascoltatori che «l'industria dell'Olocausto» creata della lobby ebraica internazionale, «estorce soldi alla Polonia con la scusa delle compensazioni per la perdita di proprietà subita dagli ebrei durante la Seconda guerra mondiale». Dariusz Ratajczak, uno storico negazionista ospite frequente di Radio Maryia, è arrivato a farneticare che «dal momento che l'Olocausto è presente nei libri scolastici, tutto il mondo crede che Auschwitz-Birkenau sia stato un campo di sterminio e non un normale campo di lavoro». La propaganda antisemita dell'emittente mariana non è passata inosservata. Nel giugno scorso, il New York Times ha pubblicato un duro editoriale «Poland's bigoted government», il «governo bigotto polacco», in cui si faceva riferimento all'aggressione subita il 27 maggio a Varsavia dal rabbino capo Michael Schudrich, al quale un fanatico, gridando «la Polonia ai polacchi», ha rifilato un pugno allo stomaco e spruzzato in viso una mistura accecante. L'episodio, accaduto proprio il giorno prima della visita di Benedetto XVI al campo di Auschwitz-Birkenau, ha riacceso i riflettori sui fenomeni antisemiti verificati si in Polonia a partire dalla seconda metà del 2005 e sovraccaricato di attenzione il viaggio pontificio. Il punto è che i sermoni della radio di Rydzyk hanno rappresentato per Ratzinger una duplice insidia, per la forte carica antisemita e antitedesca. Già, perché la Germania, da dove il nuovo pontefice proviene, è un altro bersaglio privilegiato di Radio Maryia e viene sovente accusata di volere colonizzare la Polonia. Insomma: visitare da papa tedesco l'ex lager nazista di Auschwitz-Birkenau è già difficile. Se a questo si somma la retorica antigermanica dell'emittente di Torun e il fatto che Auschwitz sorge a due passi dalla Cracovia di Wojtyla, il pontefice che chiamava gli ebrei «i nostri fratelli maggiori», si comprendono benissimo le preoccupazioni che hanno preceduto la visita pontificia in Polonia. Benedetto XVI è corso ai ripari, intervenendo preventivamente per sradicare il linguaggio antiecumenico di Radio Maryia e depotenziare una situazione paradossale, in cui una radio cattolica diventa la fonte principale di preoccupazione per la trasferta del vicario di Cristo nel Paese più cattolico d'Europa. Dapprima ha fatto inviare (a gennaio) una lettera a Rydzyk dal primate polacco, Josef Glemp. Poi ha personalmente invitato i vescovi polacchi a «evitare di fare politica». Messaggio che nella sostanza, nonostante la pluralità dei destinatari, è stato indirizzato esclusivamente all'ala destra dell'episcopato e a padre Rydzyk. Un richiamo all'ordine, quindi. Teso inoltre a ricompattare le fila del clero locale. Come spiega lo storico Paolo Morawski, autore insieme al fratello Andrea del saggio Polonia mon Amour, «Wojtyla ha tenuto insieme la chiesa polacca, emarginando chi non gli piaceva. Una volta morto, l'episcopato si è frammentato». E in un Paese dove fede cattolica e politica marciano spesso insieme, è logico che i partiti (la Lega delle famiglie lo testimonia) facciano propri gli umori che si manifestano nell'episcopato. Non che prima non si fossero mai verificati attriti tra la chiesa romana e la comunità ebraica polacche. Basterà ricordare l'infelice posizione assunta dall'ala conservatrice dei vescovi in seguito alla pubblicazione, sul finire del 2000, della ricerca dello storico Jan T. Gross sul pogrom di Jedwabne, villaggio della Polonia nord-orientale dove nel 1941 furono sterminati 1600 ebrei per mano degli abitanti polacchi. Tesi smentita da Edward Orlow­ski, parroco di Jedwabne, e da alcuni, potenti prelati conservatori, secondo i quali gli abitanti, «vittime del nazismo», furono costretti a commettere l'eccidio. La reazione della comunità ebraica fu durissima e si innescò una piccola crisi diplomatica, rientrata comunque nello spazio di pochi giorni. I rapporti tra le due fedi tornarono cordiali e l'episcopato polacco si uniformò nuovamente alla strada tracciata da Giovanni Paolo II: il dialogo. Wojtyla, infatti, è sempre stato sensibile al dialogo con l'ebraismo, anche per una questione biografica. Prima di essere eletto papa ha amministrato il culto nella diocesi di Cracovia, prima da semplice sacerdote poi da arcivescovo, ha vissuto l'orrore nazista, le deportazioni degli ebrei cracoviesi, saputo di Auschwitz-Birkenau. Una conferma dell'impegno profuso da Giovanni Paolo II nel rafforzare i rapporti tra le due fedi arriva dal testamento spirituale del defunto papa, dove le uniche due persone nominate sono il fedele segretario Stanislao e l'ex rabbino capo di Roma, Elio Toaff. L’approccio di Wojtyla ha contribuito sensibilmente alla rinascita della comunità ebraica polacca, che oggi conta trentamila fedeli e può esibire con grande orgoglio la fresca nomina di un polacco a rabbino, cosa che non accadeva da quarant'anni. Il «primatista» è Mati Pavlac, trentenne di Stetti­no. Prima della sua ordinazione, avvenuta nel luglio scorso, la Polonia era abituata a importare rabbini. Tanto per intenderci: Michael Schudrich, massima autorità ebraica di Polonia, viene dall'America. Il perché di questa lunga attesa è rintracciabile nella triste e disumana vicenda novecentesca degli ebrei di Polonia, decimati dal nazismo e annichiliti dal comunismo, che impose ai superstiti (trecentomila, rispetto ai tre milioni e mezzo del 1939) di rinunciare alla propria fede o di professarla in maniera catacombale. Oggi la comunità ebraica di Polonia, complice l'ombrello protettivo della democrazia, si sente un po' più robusta. Con il crollo del Muro di Berlino i pregiudizi antisemiti di matrice comunista sono stati spazzati via a colpi di libertà, anche grazie all’impegno di alcuni intellettuali e politici illuminati, consapevoli che il dialogo con l'ebraismo è una delle condizioni per permettere alla giovane democrazia polacca di progredire. Tra i politici, si è distinto l'ex presidente della Repubblica Aleksander Kwasniewski, un post-comunista che è sempre stato risoluto nel denunciare le grandi piaghe del passato filosovietico, compresa una spiccata indole antisemita, che raggiunse il suo apice nel 1968, quando il Poup (Partito operaio unificato polacco), per contenere la rivolta studentesca e operaia, aprì un secondo fronte, scatenando una vasta offensiva contro la minoranza ebraica, brandendo l'arma del complottismo per mobilitare gli iscritti contro il «nemico interno». È strano, vista la storia polacca, osservare che a macchiarsi di antisemitismo sia un segmento della chiesa locale. Ci si chiede, in generale, se le vicende del 2005-2006 siano solamente un incidente di percorso nel dialogo polacco­ebraico. Oppure se l'antisemitismo propagandato dalla stazione radiofonica di Tomn corrisponda all'indole reale di una parte dell' elettorato catto-populista. A sentire Adam Michnik, storico esponente della dissidenza di origini ebraiche e direttore di Gazeta Wyborcza, principale testata nazionale, gli ebrei di Polonia non corrono rischi. All'indomani dell'editoriale del New York Times Michnik aveva rimarcato il gesto del presidente della Repubblica Lech Kaczynski, che aveva chiesto scusa «a nome della nazione» a Michael Schudrich dopo l'aggressione subita da quest'ultimo. Intanto, però, il primo ministro polacco Jaroslaw Kaczynski, gemello del presidente Lech, continua a incensare l'emittente di Torun. In occasione del quindicesimo anniversario della creatura di padre Rydzyk, festeggiato a dicembre, il primo ministro ha dichiarato: «Radio Maryia è stata fondamentale per l'affermazione della democrazia». Insomma, bene che Lech chieda scusa a Schudrich a nome della nazione, ma perché i Kaczynski non sconfessano pubblicamente il gergo antisemita che corre sulle frequenze mariane? E soprattutto: perché, considerato che in Polonia c'è un organo governativo (l'Institute for National Remembrance) preposto a perseguire per via giudiziaria le tesi negazioniste, la stazione di Torun la passa sempre liscia? Il paradosso è che i gemelli Kaczynski non possono prescindere dall'impatto politico, a loro favorevole, di Radio Maryia. Chiudono un occhio sull'antisemitismo e incassano voti. Cosa non si fa per il potere.

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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