Diario

Franco Schönheit è sopravvissuto alla deportazione a Buchenwald, il campo in cui morì Mafalda di Savoia, la cui storia è stata rievocata da una fiction. Piena di errori, e non veniali: rafforzano l'idea degli italiani brava gente

Quante bugie, povera Mafalda

 

Marcello Pezzetti

 

«Sono talmente tante le storie successe nei campi nazisti che non c'è bisogno d'inventarne altre, fantastiche, che non stanno in piedi. Perché alterare la realtà di un campo?». È Franco Schönheit, sopravvissuto al Konzentrationslager (KL) Buchenwald, che parla, dopo aver visto la seconda parte della fiction televisiva Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa, trasmessa il 28 e 29 novembre da Canale 5. Il film ha suscitato molte perplessità sia nei sopravvissuti alle deportazioni naziste, politici ma soprattutto ebrei, sia negli storici che si occupano del tema. La prima parte è dedicata alla vita di Mafalda fino al suo internamento nel complesso di Buchenwald e, pur essendo più accettabile della seconda, è tuttavia intrisa di imprecisioni ed ambigue stereotipizzazioni. I Savoia sono descritti come pacifici e inoffensivi patrioti italiani, dediti prevalentemente a opere di pubblica utilità. Una famiglia di crocerossine, insomma. Mafalda, in particolare, viene presentata come una pacifista non fascista, per di più fortemente antitedesca, atteggiamento, questo, condiviso anche dal padre. In effetti, dopo trenta minuti di visione, nello spettatore medio si insinua un dubbio atroce, ovvero che l'Italia e la Germania non fossero stati alleati bensì nemici. Da subito, dunque, si intuisce che scopo non dichiarato dello sceneggiato è una riabilitazione dei Savoia attraverso la sfortunata ed eccezionale vicenda di Mafalda, sicuramente il membro più onesto, coerente e coraggioso della famiglia. Questa riabilitazione, tuttavia, assume un carattere estremamente goffo quando vengono messi in scena i rapporti con il mondo ebraico: i Savoia, nel film, contano tra i loro migliori amici degli ebrei, si pensi alla figura di Esther Sermoneta, l'amica intima di Mafalda, la quale, tesa a consolarla per la presunta opposizione del padre al suo fidanzamento con Filippo d'Assia, la incita a ribellarsi portando come esempio il suo caso personale, ovvero il suo rifiuto a sposare «il figlio del rabbino di Cracovia», sic! Ora, questa infelice affermazione ci fa comprendere quanto scarsa sia stata la conoscenza del mondo ebraico da parte degli sceneggiatori: Cracovia, culla della cultura religiosa ashkenazita, era dotata solamente di un rabbino? Forse che gli sceneggiatori pensavano ad un corrispettivo ebraico di Wojtyla? A Cracovia esistevano a quell'epoca centinaia di rabbini, tutti rigorosamente ortodossi, quindi loro stessi non avrebbero sicuramente permesso il matrimonio di un figlio con una donna assimilata e disinibita come l'ipotetica Esther Sermoneta! In Germania, poi, Mafalda accorre in aiuto, sempre con Esther, di un ebreo tedesco oggetto della violenza nazista. Tralasciando ogni commento sulla veridicità dell'episodio, fortemente dubbia, occorre rilevare che la rappresentazione di questo personaggio ebreo, «biologicamente» identificabile come tale, è così grossolanamente stereotipata che sembra uscire da una vignetta di Der Stürmer, la pubblicazione più antisemita del regime hitleriano. Nessun accenno alla promulgazione delle leggi antiebraiche in Italia. In tal caso, sarebbe stato impossibile non evidenziare la responsabilità di Vittorio Emanuele III, la sua vigliacca controfirma alle Leggi, l'ignobile tradimento di una parte dei «suoi» cittadini italiani, vergognosamente definiti «di razza ebraica», fra cui il precettore del figlio, Vittorio Polacco, precedentemente rettore dell'Università di Padova, o il dentista personale, o uno dei suoi medici di fiducia, Angelo Sereni. Di fronte a questa enormità, quale la reazione di Mafalda? Il film ha evitato questo «dettaglio». Semplicemente ha smesso, all'improvviso, di parlare di Esther. L'amica «intima», senza alcuna giustificazione, nemmeno narrativa, sparisce di scena. Come tutti gli ebrei italiani. Ma questa è una storia che il film non dice, quasi fosse estranea ai Savoia. Ma è nella seconda parte, quella dedicata a Buchenwald, che sceneggiatori e regista hanno dato luce a una ricostruzione storicamente inaccettabile. Il campo è descritto come un luogo destinato a ricevere in continuazione convogli di ebrei, deportati in nuclei familiari, provenienti dall'intera Europa. Queste persone, subito dopo il loro arrivo, vengono divise, selezionate e gran parte di esse inviate a morire nel Krematorium. «La descrizione del campo», afferma però Schönheit, «è fuori da ogni realtà. Non ho mai visto scene di trasporti di gruppi familiari di ebrei.» In effetti, la rappresentazione del campo proposta da questa fiction è ben lontana dalla realtà storica. Buchenwald era stato istituito nel luglio del 1937 nei pressi di Weimar, con l'ingresso iniziale di oppositori politici, criminali «recidivi», Testimoni di Geova e alcuni omosessuali. Successivamente vennero imprigionate in massa le persone rastrellate nell'azione Arbeitsscheu Reich, ovvero coloro che non accettavano il lavoro loro assegnato, che non avevano fissa dimora, tanto che nel luglio del 1938 essi rappresentavano quasi il 6o per cento dei detenuti. I prigionieri erano tutti uomini, le donne venivano inviate prevalentemente nel campo femminile di Ravensbrück, e ciò non sarebbe cambiato fino alla fine del 1944­. Mafalda, quindi, non ebbe mai contatti con donne detenute, così presenti nel film, semplicemente perché queste a Buchenwald non c'erano. «Sono stato mesi e mesi a Buchenwald senza vedere nessunissima donna», afferma Schönheit. «L'unico volto femminile che io ho visto in campo è stato quello di una prostituta vicino al postribolo». Occorre sottolineare che gli ebrei, come «categoria», non erano stati inseriti nel «sistema concentrazionario»: la ragione dell'imprigionamento di alcuni di loro nei campi era la loro appartenenza a una delle categorie appena menzionate. Tuttavia, pur essendo assimilati agli altri prigionieri, essi erano costretti a subire il peggior accanimento da parte delle Ss, tanto che il loro tasso di mortalità era superiore alla «norma», che a Buchenwald era circa il 10 per cento (una percentuale già alta, se si pensa che Dachau non superava il 5 per cento), arrivando in molte circostanze a raggiungere il 50 per cento. Un brusco cambiamento era avvenuto solo in occasione del pogrom della Reichskristallnacht (la cosiddetta «notte dei cristalli», il 9 novembre del 1938), quando circa 35 mila ebrei, per il solo fatto di essere nati tali, erano stati rinchiusi «provvisoriamente» nei campi, prevalentemente a Buchenwald, a Dachau e a Sachsenhausen. A Buchenwald, infatti, gli ebrei erano passati da 1.272, (circa il 16 per cento, quando il campo aveva poco più di 7.700 prigionieri) a 9.845. Molti di questi erano morti, ma la maggior parte era stata rilasciata nell'arco di tre mesi, con l'obbligo di emigrare dal territorio del Reich. Dopo lo scoppio della guerra, come in tutti i campi, anche a Buchenwald erano stati inseriti i prigionieri di guerra: nel 1942 i polacchi e i russi, insieme, raggiungevano il 35 per cento del totale, mentre gli ebrei rimanevano poco più del 10 per cento. Il 1942 si rivelava un anno decisivo per la sorte degli ebrei dell'intera Europa, perché all'Est venivano attivati i centri della morte, dotati di strutture di sterminio, dove sarebbe stata deportata tutta la popolazione ebraica polacca (i campi della cosiddetta Aktion Reinhardt:Be_ec, Sobibór, Treblinka) , dei territori annessi (Chemno) e tutta quella dell'Europa occidentale occupata (Auschwitz-Birkenau). Conseguentemente, alla fine di questo anno, precisamente il 5 ottobre, la burocrazia nazista prendeva la decisione di «trasferire» ad Auschwitz gli ebrei ancora presenti nei vari campi ubicati all'interno del vecchio Reich. Buchenwald si svuotò quindi della sua «minoranza» ebraica e questa situazione sarebbe rimasta invariata fino all'autunno del 1944, quando, a causa dell'avanzata russa, i nazisti sarebbero stati costretti a liquidare il complesso di Auschwitz spostando gli ultimi ebrei ancora in vita verso l'interno del Reich. Solo allora il campo avrebbe ancora visto la presenza di una percentuale di ebrei vicina al 15 per cento. Quando giunse Mafalda, dunque, gli ebrei, tutti uomini, non raggiungevano nemmeno l'1 per cento del totale dei prigionieri. Di questi, solo qualche decina viveva all'interno del recinto del campo, in un settore speciale di quarantena e punitivo chiamato Kleines Lager (piccolo campo), senza la possibilità di avere alcun rapporto con gli altri detenuti, mentre gli altri ebrei erano stati assegnati al lavoro negli Außenlager. «C'era una baracca nel Kleines Lager», afferma Schönheit, «dove si diceva che vi fossero degli ebrei. Ce n'erano alcuni, ma non a blocchi familiari». Franco Schönheit, ebreo ferrarese, venne deportato a Buchenwald e non ad Auschwitz, ma il motivo è facilmente spiegabile: era figlio di matrimonio misto. I figli di matrimonio misto, così come i coniugi, rimasti in attesa di destinazione nel campo di Fossoli per mesi, non subirono la sorte toccata agli ebrei «puri», ma vennero inviati, agli inizi di agosto del 1944, con l'ultimo convoglio partito dal campo di transito emiliano, a Bergen-Belsen (i coniugi), a Ravensbrück (le donne) e, appunto, a Buchenwald (gli uomini, precisamente 22). Fortunatamente, essi non dovettero subire la tristemente famosa «selezione iniziale» fra chi dovesse essere messo immediatamente a morte in camera a gas, oltre l'80 per cento, e chi venisse inserito momentaneamente al lavoro schiavo, pratica utilizzata ad Auschwitz-Birkenau, perché Buchenwald, come quasi tutti i KL, non era dotato di strutture per la morte di massa col gas. Ciò non significa, tuttavia, che non esistesse la possibilità di essere uccisi o di morire: alcuni di loro, infatti, sia per le condizioni igienico-sanitarie estremamente precarie, sia per quelle lavorative insostenibili, non fecero ritorno (dei 250 mila prigionieri transitati nel campo, più di 50 mila morirono). Nella fiction, invece, non solo viene proposta la «selezione iniziale» come una caratteristica peculiare del campo, ma essa viene presentata in modo ben diverso da come veniva effettuata in realtà nei campi di sterminio. Non solo, ma all'interno di questo momento «topico» viene raggiunto il grottesco con l'inserimento dell'intervento di Mafalda che salva una bambina ebrea destinata alla morte. Nessuno, in nessun campo, avrebbe potuto intervenire contro la volontà dei nazisti per cambiare il destino di un bambino ebreo. E anche l'atteggiamento del medico italiano che di fronte alla tragedia dà del «miserabile assassino» a una guardia delle Ss è una maldestra invenzione tesa a rinvigorire il mito dell' «italiano brava gente»: «Ma figurati!», afferma Schönheit, «nessuno avrebbe potuto permettersi un affare del genere. Sarebbe stato ammazzato immediatamente!». Mafalda merita certamente la comprensione e l'affetto di tutti per l'umanità e l'integrità morale dimostrata nel momento più difficile della sua vita, ma è oltraggioso omaggiarla inventando inutili vicende che comportano assurde modifiche della storia dei lager nazisti. Non è corretto nemmeno nei suoi confronti. Mafalda fu imprigionata a Buchenwald come prigioniera «privilegiata» e come tale fu inserita in una baracca «speciale», l'«Isolierbaracke» n. 15, fuori dal recinto del campo stesso, in cui alloggiavano solo lei, una donna testimone di Geova assegnatale come dama di compagnia (che le rimase accanto fino alla morte, ma che ingiustamente è accusata nel film di essere stata una spia delle Ss) e un ex deputato della Spd, Rudolf Breitscheid con la moglie. Non uscì mai dal suo settore e mai si recò nella parte del campo in cui alloggiavano tutti i detenuti. Riuscì solo a scambiare in rarissime occasioni qualche battuta con prigionieri italiani impiegati alla costruzione di una fossa antischegge vicino al suo blocco. Proprio il fatto che non alloggiasse nel campo fu, tragicamente, anche la causa della sua morte, perché gli americani, il 24 agosto, bombardarono le officine Gustloff, dove si costruivano armi, e la fabbrica delle Ss Daw e purtroppo la baracca speciale n. 15 era ubicata tra queste due installazioni. Il campo non venne toccato, anche se molti prigionieri morirono perché lavoravano in quel momento nelle due fabbriche. Un'altra invenzione incomprensibile è data dal coinvolgimento di Mafalda in un tentativo di fuga organizzata dal marito. Se Filippo d'Assia, tra l'altro nazista della prima ora, avesse tentato una simile follia e fosse stato scoperto, non avrebbe mai potuto sedersi a tavola con i figli dopo la fine della guerra. Un ulteriore dettaglio ci fa capire quanto gli sceneggiatori, il regista e il consulente storico (Maria Gabriella di Savoia, sic! ) non conoscessero né la storia né l'atmosfera del campo: in una breve sequenza, un alto funzionario delle Ss offre, con la forchetta con cui sta mangiando, della carne alla testimone di Geova compagna di Mafalda. Nessun componente delle Ss, dal soldato semplice al comandante, avrebbe compiuto un gesto simile. Infine, semplicemente ridicola appare lascena in cui prigionieri italiani offrono a Mafalda una bandiera italiana con lo stemma sabaudo... pura propaganda! Certamente un regista che intenda portare la storia sullo schermo non deve proporsi solamente di riprodurre la realtà fenomenica, non può certo rinunciare alle formule narrative proprie della fiction, nemmeno nel caso della realizzazione di un documentario. Lo stesso Billy Wilder, assunto come consulente dal governo americano per produrre un documentario sulla liberazione dei campi, non voleva rinunciare al «racconto», pensando che un film, anche di quel genere, dovesse comunque «intrattenere» il pubblico. Il cinema, mettendo in scena la storia, offre al pubblico delle possibilità che altri mezzi «classici» di espressione non sarebbero in grado di proporre; non a caso, infatti, si definisce l'immagine una fonte storica privilegiata. Tuttavia, ciò che rende attraente questo mezzo rappresenta al tempo stesso il suo limite, che sta innanzitutto nell'ambiguità tra reale e fantastico. Questo pericolo è particolarmente presente nell'elaborazione di opere sul tema della Shoah, il grande «buco nero» del Novecento, una ferita collettiva ancora del tutto aperta. «Non trovo corretto», ammonisce Franco Schönheit, «che si facciano delle invenzioni assurde su quella storia. Si può costruire qualcosa in un film, ma non su quei luoghi. Quando si tratta dei campi nazisti bisognerebbe andare un po' più cauti».

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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