Diario

Questo numero

di Enrico Deaglio

Sono passati sei anni da quando Diario decise di uscire ogni 27 gennaio (1945, la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz) con un numero dedicato alla Memoria. Sei anni fa era una bella legge votata dal Parlamento italiano, per non dimenticare e per onorare quanti si opposero. Nei nostri tempi veloci, sei anni sono stati sufficienti perché ora qualcuno indichi la data come ormai retorica o inutile. (Uffa. Se tutti ormai sanno, che bisogno c’è di ricordare ancora, e perdipiù a data fissa?). Ed ecco che arriva il presidente dell’Iran a tuonare per la cancellazione di Israele, a definire l’Olocausto «un mito» e a sovrintendere un programma di sviluppo nucleare. Se negli anni scorsi le inquietudini venivano da ovest – cimiteri profanati, lugubri sondaggi, orribili statistiche – oggi è, a est, il capo di uno Stato a prendere in mano l’altro antico manico della tenaglia. Abbiamo ricordato abbastanza in questi sei anni, per potergli rispondere? Forse no. Forse c’è bisogno di un supplemento di meditazione. E, se ci fosse già la «retorica del sesto anno», scrollarsela. Per quanto riguarda invece il presidente iraniano Ahmadinejad, egli mostra di non essersi mai interessato alle nostre meditazioni: è fermo al nazismo, e alla sua arte di indottrinare le masse e forse non conosce neppure l’ultimo nostro esperto sul tema, quel David Irving oggi in carcere in Austria. Che, se ottenesse la libertà, non perderebbe tempo e volerebbe, osannato, a Teheran. Leggete, quindi, insieme il saggio di Furio Colombo sulle minacce iraniane che apre questo numero e il libro che trovate insieme a Diario in edicola, il magistrale Le origini culturali del Terzo Reich di Mosse, scritto più di quarant’anni fa, per considerare quanto la globalizzazione abbia accorciato tempi e spazi, ma non metodi.

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Storie di quel tempo. Quelli che scrissero lettere ufficiali alle autorità per le devastazioni delle sinagoghe di Ferrara e Trieste. Leggeteli nei documenti presentati da Michele Sarfatti. Quelli che si opposero: i Giusti italiani, raccontati da Liliana Picciotto, lo sconosciuto esercito anonimo che riscattò il nome dell’Italia; la monella scrittrice danese Karin Michaelis, riscoperta da Marina Morpurgo, che negli anni tra le due guerre, con la sua Bibi globe trotter era un best seller per le bambine europee. Una ragazzina che prendeva il treno e girava, e si sedeva a tavola con artisti e scienziati. Goebbels volle appropriarsene e fare di Bibi un’eroina germanica, Karin non ebbe problemi a rispondergli che, se voleva, la sua nuova Bibi sarebbe stata ebrea. Si oppose lo scrittore cinese Ba Jin, che vagheggiò l’idea di un museo della Rivoluzione culturale cinese (Ilaria Maria Sala racconta la trasformazione mercantile del suo progetto). Alcuni tra quelli che tentarono di raccontare: Charlie Chaplin, che lo fece; Jerry Lewis, che non lo fece. Grandi narratori: Norman Manea, Hanna Krall, Nicole Krauss. La storia di un secondo armadio della vergogna, densa di conseguenze, raccontata dal giudice Guido Salvini. La straordinaria avventura di un giovane fotografo svizzero, Christian Schiefer, che mise davanti alla sua Leica l’umanità che passava tra l’Italia e la Svizzera, ai tempi in cui gli svizzeri sostenevano che, «basta, la barca è piena». Poi Schiefer, con due Leica a tracolla, da Como andò a Milano per vedere come, a piazzale Loreto, finì la storia, con i vigili urbani milanesi in divisa che mostrano una storica copertina de L’Avanti! (È il nostro portfolio, a cura di Giovanni Scirocco).

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Conservate questo nostro numero speciale, come avete fatto per tutti gli altri. Fatelo leggere: è un dettame della Legge! E se poi chi scrive può mischiare i suoi piccoli ricordi a quelli della Grande Storia, consiglio in particolare due articoli. Marcello Pezzetti, che racconta la storia sconosciuta di una città nel Sud della Polonia che un tempo si chiamavava Auschwitz, poi si chiamò Oswiecim e poi di nuovo Auschwitz, e ora si chiama di nuovo Oswiecim. Per un lungo periodo gente di mezza Europa andava a Oswiecim, perché c’era da vivere, c’erano ferrovie, industrie. Poi Hitler fu interessato alla logistica delle ferrovie. Il secondo articolo, di Paolo Stefanini, racconta di un anno, il ’68, simbolo di libertà in tutto il mondo. Ma non fu così a Varsavia, che inaugurò il soft pogrom di massa.

Buona lettura. All’anno prossimo.

Com’è ’sto fatto che si dice sempre che il prossimo sarà meglio?

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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