Diario

Al di là delle lacrime

Un cronista ricorda i tre giorni in compagnia dei sopravvissuti di Auschwitz, che testimoniarono nel processo del 1985 in contumacia contro Mengele, «la sua faccia d’angelo», le sue torture «peggiori della morte»

di Jean Blanchaert

 

Vi ricordate i famosi sei gradi di separazione? Ecco, fra Mengele e la gente che sta in Israele i gradi di separazione spesso non sono più di due. Non sono ragionamenti che si fanno, al limite non sono neppure notizie che si sanno, ma certamente sono cose che si sentono. Si chiamano sensazioni. È brutto parlare di sé? Dipende, a volte è stupido non farlo. Mi trovavo dunque da ben quattro anni a Gerusalemme, quando, nel gennaio 1985, si sentì arrivare sulla città il processo al dottor Mengele in contumacia. Non è buona creanza nominare tutte le persone che stanno dietro a qualcosa? E chi l'ha detto? Vent'anni fa ne avevo 30 ed ero corrispondente e delegato della Camera di Commercio italo-isreaeliana presieduta da Davide Hodara. Lavoravo come impiegato al reparto donazioni della Biblioteca nazionale, a Givat Ram, alle dipendenze della dottoressa Roberta Marcus. Anche se non sono mai stato giornalista, Fiamma Nirenstein ebbe l'idea di farmi seguire questo processo per il mensile socialista Mondo Operaio e mi mise in contatto telefonico con il direttore Federico Coen. Avrei dovuto scrivere un resoconto su quei tre giorni di testimonianza. Aldo Baquis, che allora era all'ufficio stampa governativo, mi fece avere l'accredito. Tutti in Israele sapevano e sanno molto bene chi era stato il dottor Mengele. lo stesso ho con lui solo due gradi di separazione, perché mia madre Silvia è nipote di Ugo De Benedetti ed Etta Reinach e cugina del loro figlio Piero di anni 11, deportati ad Auschwitz nel 1943 insieme al nonno Ernesto Reinach di anni 89, morto in treno (lo scorso anno su queste pagine la vicenda è stata ricostruita da Philippe Daverio nell'articolo Nazionalità nemica: razza ebraica). Molto probabilmente arrivarono di fronte all'angelo della morte sulla rampa alla fine del binario di fronte al campo e da lui furono selezionati. Non tornarono. Sono a Londra e mi viene in mente che Mengele non è riuscito nel suo intento per­hé sto mandando queste righe dal computer di mia cugina Etta De Benedetti che vive qui e si chiama come sua nonna. A 62 anni da Mengele noi siamo ancora uniti. Allora quel processo passò su di me come un tank e mi lasciò annichilito. «Many have argued in the stron­gest possible terms that the only possible cultural response to such barbarity is to say nothing», così scrive oggi, 15 gennaio 2005, Peter Aspden sul Financial Times e questa è la ragione per cui io non consegnai mai quell'articolo. Fui pervaso da una sensazione di silenzio totale. Le parole del vocabolario non erano adatte a descrivere quello che avevamo sentito. E se, come si dice oggi, si dovesse definire la cifra di quel processo, essa è proprio il silenzio. A Gerusalemme, la città vecchia c'è don Giulio Restelli, prete di Desio, che parlando delle oculate capacità imprenditoriali di un popolo, racconta che ci vogliono dieci cattolici per fare un ebreo, dieci ebrei per fare un armeno e dieci armeni per fare un brianzolo. Poco più in là c'è il Muro del Pianto e lì si sa che peggio della cattiveria è il nazismo, che il peggio del nazismo sono le camere a gas, ma che c'è qualcosa di peggio ancora ed è il dottor Mengele. So che Gabriele Eschenazi - che ringrazio perché mi ha aiutato a ricordare - scrive un articolo su Mengele che precede il mio. lo cercherò di raccontarvi le impressioni di quei tre giorni. Dopo 20 anni, in qualche modo, mi è meno difficile. Anche perché ho trovato la scatola dei miei appunti. Prima di cominciare voglio ricordare le parole pronunciate da Simone Veil 15 giorni fa ad Auschwitz, dove aveva condotto i suoi nipoti in visita: «La bas le n'ai jamais pleure, c'etait au-dela des larmes». Ed è proprio al di là delle lacrime che si è svolto il dibattimento, organizzato da Yad Vashem, il museo dell'Olocausto. È il 29 gennaio 1985, Gidon Hausner - già pubblico ministero al processo Heichman - presenta e introduce, l'avvocato Zvi Terlo raccoglie le deposizioni, Simone Veil interviene con una testimonianza, Itzak Arad, presidente di Yad Vashem, saluta i convenuti. Per tre giorni si susseguiranno in quell'aula 30 testimonianze. L'avvocato Terlo chiederà, i sopravvissuti risponderanno. Ci sono certamente stati toni di voce ed espressioni drammatiche, sia durante le testimonianze, sia quando gli Zwillingen si rincontravano, ma io ricordo soprattutto una cappa che non ha mai abbandonato l'aula. Au-dela des larmes. Mengele in realtà era morto sei anni prima, ma questo allora non lo si sapeva, anzi, c'era una grande tensione in quei giorni per incoraggiare i servizi segreti dei Paesi forti a collaborare. Questo poi avvenne e fu così che si scoprì della morte di Mengele. C'è una strana atmosfera nell'aula. Il tavolo è pieno di personalità, ci sono molti gemelli e vittime giunte da ogni parte del globo. Si sa che la copertura mediatica è mondiale, però l'aula non è piena. È impossibile non accorgersi dell'intensità dell' evento, ma io mi sento come lo sherpa Rajiv, quello inadeguato della terza spedizione sull'Everest portato su quasi per caso poiché non c'era nessun altro che andasse. Cerco di rendermi invisibile e sto immobile per tre giorni con la stilo e il quaderno circondato da persone che fanno come me, meno inadeguate, ma tutte ugualmente paralizzate. Non ci sono altri italiani in aula. Sento la mancanza di un giornalista vero alla Sandro Ottolenghi. Introduce Gidon Hausner, pubblico ministero del processo del ventesimo secolo. Contestualizza la figura dell'angelo della morte in guanti bianchi, il medico antropologo Josef Mengele e racconta due episodi per spiegare che aria tirava. Ne riporto uno: «Ci siamo qui riuniti per tre giorni per ascoltare testimonianze e conferenze di esperti nel campo del diritto e della medicina e alla fine del dibattimento faremo ascoltare le conclusioni del comitato. Fra i viventi di oggi risalta soprattutto l'uomo che fu il simbolo della eliminazione ad Auschwitz, l'uomo delle Ss. Le torture e le violenze erano peggiori spesso della stessa morte; la vita ad Auschwitz aveva perso la dimensione umana e portava velocemente allo sgretolamento dell'animo e del corpo dei prigionieri. I nazisti videro in Auschwitz un luogo ideale per la realizzazione di esperimenti sugli uomini. Essi credettero che la teoria della razza fosse la chiave per la decifrazione per i segreti dell'esistenza. La personalità di Mengele impersona la terribile crudeltà che fu nutrita dal razzismo nazista e dalla mistica della razza ariana superiore. Mengele fu affascinato dall'idea di diventare padrone della vita di ogni essere umano e faceva selezioni dividendo chi sarebbe andato al campo per vivere provvisoriamente e chi sarebbe andato subito nelle camere a gas e nei forni crematori. Fu lui a fare passare masse di gente sotto la sua egida. I nazisti avevano paura di dover interrompere le espulsioni e le eliminazioni prima di avere annientato il popolo ebraico e per questo fecero degli sforzi straordinari per colpire i bambini. I bambini di Israele furono il loro primo obiettivo. Ci furono delle operazioni speciali, che furono chiamate "Kinderactionen". Una volta una donna ebrea nella città di Cehanov scongiurò la salvezza dei propri figli, che erano stati messi sul camion dell'espulsione. Il pianto e le sue grida furono rivolti al nazista responsabile dell'operazione. "Quanti bambini ha lei là?" domandò il nazista. "Tre", rispose la donna. "Puoi prenderne uno", disse il nazista. La donna salì sul veicolo e tre coppie di mani si tesero verso di lei, senza proferire parola. Lei passò da uno all'altro e ogni volta pensò di prenderne uno diverso. Il nazista gridò "Schnell, schnell!". E alla fine la madre scese dalla macchina da sola». Testimonianza di Elena Hammermesh, ungherese, arrivata ad Auschwitz nel dicembre 1943, nella quale si racconta che c'è peggio di ucciso e torturato, c'è torturato e ucciso: «Mengele era solito venire ogni tanto alla baracca dei gemelli, prenderne una coppia e, con un pretesto, portarla direttamente al forno crematorio. Qui li uccideva con una iniezione di fenolo al cuore. Squartava poi il loro corpo ancora caldo e immergeva i diversi organi in sostanze chimiche dentro dei contenitori, che poi spediva in posta prioritaria alle università in Germania. "Mengele fece degli esperimenti sugli occhi dei bambini. Oltre alle gocce, che egli inoculava loro regolarmente, fece delle iniezioni direttamente nelle pupille. I bambini sottoposti a questo trattamento persero la vista e morirono quasi tutti. Chi non morì fu portato nel laboratorio di Mengele e ucciso con una iniezione. Dai cadaveri furono cavati gli occhi. Dopo la guerra, mi interessai presso il professore a cui Mengele inviava gli occhi dei bambini. Lui mi confermò di aver ricevuto molti preparati interessanti da Auschwitz, ma di non aver mai saputo che fossero occhi di bambini assassinati. Da Auschwitz trafugai, con l'aiuto di una donna polacca, diverse medicine avvelenate. Volevo raccogliere delle prove contro i nazisti. Non potevo accettare di essere uccisa nelle camere a gas come essere inferiore, senza fare qualcosa per ribellarmi. Presentai queste medicine al primo processo contro i criminali nazisti nel 1945 a Lilieburg. In tribunale non poterono credere ai loro occhi quando mostrai loro delle ampolle sigillate su cui c'era scritto "glucosio sterile" e che contenevano in realtà fenolo liquido. Le ricerche di Mengele riguardavano la genetica ereditaria e avevano lo scopo di scoprire il modo di riprodurre e moltiplicare la razza ariana, la razza superiore. Per questo faceva esperimenti sui gemelli. In un altro laboratorio studiavano il modo per eliminare le razze inferiori al di fuori degli ebrei, che pensavano di eliminare nelle camere a gas e nei crematori. Volevano escogitare un mezzo per fare delle sterilizzazioni rapide ed economiche. Donne e uomini venivano costretti a ingerire medicine sperimentali e venivano sottoposti a raggi Roentgen. Dopo, venivano asportati loro gli organi genitali per sottoporli ad analisi. Seppi di uomini a cui erano stati tagliati i testicoli. Una volta sentii un Ss che, parlando a una kapò, le mostrava un sacchetto per il tabacco ricavato dalla pelle dello scroto di un ebreo». Testimonianza della dottoressa Vera Alexander, cecoslovacca, arrivata ad Auschwitz all'età di 19 anni, nell'aprile del 1942, nella quale si racconta l'episodio delle calze aderenti: «Giudice: "Cosa successe negli incontri con Mengele?". Alexander: "Un giorno un colonnello delle Ss mi portò in motocicletta in un campo dove mi nominarono responsabile di una baracca di gemelli zingari fra i tre e i cinque anni di età. Mengele veniva a far visita portando coperte, lenzuola bianche, vestiti nuovi, giocattoli, vasi da notte e cioccolata per scoraggiarli a uscire dal fabbricato. Egli si occupava dell'ordine e un giorno vedendo una bambina che non aveva una calza bianca abbastanza tesa sulla gamba mi urlò: "Non è possibile che le calze non siano aderenti!". Mi occupai dei bambini per alcune settimane fino a che un giorno qualcuno venne e portò via una coppia di gemelli dalla baracca. Uno dei due aveva una gobba. Li riportarono dopo non so quanti giorni in condizioni terribili. Le vene delle loro schiene erano cucite insieme, le loro schiene erano in pratica unite". Giudice: "Come i gemelli siamesi". Alexander: "Le ferite erano piene di liquido infetto, i bambini gridavano giorno e notte". Giudice: "Chiese loro chi aveva compiuto questa orrenda operazione?". Alexander: "Non lo chiesi, ma i loro genitori riuscirono a procurarsi della morfina e l'iniettarono nei bambini per farli morire e liberarli dalle loro atroci sofferenze». Testimonianza di Zerah Taub, ungherese, giunto ad Auschwitz nel maggio 1944, all'età di undici anni, nella quale si chiede scusa ai cani e si racconta la storia delle aste e del filo, uno degli scherzetti preferiti da Mengele: «Arrivammo ad Auschwitz e scendemmo giù dal treno. I nazisti ci dissero qualcosa, anzi gridarono, abbaiarono: chiedo scusa ai cani per il paragone. La folla veniva ordinata in file di cinque, alla testa della fila c'erano delle Ss con dei cani e in mezzo a loro, Mengele. Ci selezionavano come si seleziona la frutta. Alcuni di qua e altri di là. Mandarono me e il mio fratello gemello con la mamma. Gli altri cinque fratelli furono mandati a lavorare, mentre nostro padre fu portato nelle camere a gas. Al grido di "Zwillingen Aus!", mio fratello e io uscimmo e non rivedemmo più nessuno. Mengele ci iniettava qualcosa nella schiena. Tutto ciò andò avanti da maggio ad agosto, poi ci portarono nell'arbeit lager dove ci misero a fare il lavoro dei cavalli: dovevamo trainare dei carretti con i quali trasportavamo di tutto: pietre, legname, cadaveri. Alla vigilia del digiuno ebraico del Kippur, Mengele apparve nella nostra baracca, mise di fronte a noi due aste di legno unite da un filo e cominciò una selezione. Chi non era abbastanza alto per toccare il filo con la testa finiva nelle camere a gas. Questa era la selezione preferita da Mengele. Nel dicembre 1944 ci portarono da Birkenau ad Auschwitz. Ci portarono nel senso che ci fecero correre. Ci abbaiavano dietro come cani per farci correre. Da Auschwitz ci fecero continuare ad andare. Camminammo non so per quanto tempo. Avevo la febbre ed ero vestito con la divisa a righe del lager. Camminai forse per una settimana e un obiettivo solo mi tenne in vita: ritrovare mio fratello rimasto in un gruppo indietro. Non era permesso a nessuno di non camminare, di non andare al passo. Chi non ce la faceva veniva fucilato sul posto. Ne morirono così a decine». Testimonianza di Stephany Heller, polacca, portata ad Aushwitz nel dicembre 1943 all'età di 19 anni, nella quale si capisce chiaramente il concetto di cavia: «Giudice: "Quali furono gli esperimenti eseguiti su di lei e sua sorella gemella?". Heller: "Ci portarono in una specie di ospedale e ci fecero delle trasfusioni di sangue, a ciascuna separatamente, prelevando il sangue da altri due gemelli maschi che avevano la nostra età. Qualcuno ci spiegò che secondo i programmi di Mengele, noi eravamo state scelte per un esperimento speciale per cercare di scoprire se gemelli fecondati da altri gemelli producessero gemelli. Non avevamo molte occasioni di dire qualcosa, ma non so come, presi coraggio. Una volta quando Mengele era nella baracca gli chiesi di farmi incontrare mio marito che avrebbe dovuto lasciare il campo in quei giorni con altri prigionieri e gli dissi anche che non volevo più partecipare a quegli esperimenti. Lui mi guardò impassibile e allibito mi disse 'Tu non hai nulla da dire, tu sei un numero'. E se ne andò. Per fortuna dopo poco fummo liberati». Testimonianza di Aziel Neeman, ungherese, giunto ad Auschwitz il 7 luglio 1944 all' età di 48 anni, nella quale si vede il filo della speranza e si ripensa al racconto di Primo Levi: «Nel solenne giorno del digiuno del Kippur riuscimmo a procurarci, pagando, una piccola Bibbia e alcuni libri di preghiera. Pregammo tutto il giorno. Qualcuno riuscì, non so come, a procurarsi persino uno shofar che suonammo alla fine delle preghiere». Testimonianza della dottoressa Ela Linges, tedesca, non ebrea, giunta ad Auschwitz nel febbraio 1943 nella quale si comprende che Ela Linges per Mengele non è un numero e con lei parla e par­ando, spiega: «Giudice: "In quale circostanza arrivò ad Auschwitz?". Linges: "A Vienna avevamo aiutato degli amici ebrei a fuggire, qualcuno ci denunciò e ci scoprirono". Giudice: "Lei non è ebrea, signora Linges? "Linges:" No, non lo sono. E nel campo mi trovai in posizione privilegiata perché i non ebrei erano privilegiati rispetto agli ebrei e fra i non ebrei i tedeschi erano ancora più privilegiati e alla fine i dottori - tra tutti i prigionieri ­erano i più favoriti". Giudice: "Quando incontrò Mengele?" Linges: "Mengele fu molto sorpreso di trovare una come me a Auschwitz e mi chiese come mi fosse potuto venire in mente una idea del genere. 'È ovvio che gli ebrei cerchino di salvarsi, ma non riesco a capire come lei si sia immischiata in queste faccende'. In una delle conversazioni che ebbi con lui, mi disse: 'Lei deve sapere che ci sono solo due popoli dotati al mondo: gli ebrei e i tedeschi. È in corso una lotta fra loro e io voglio che sia quello tedesco a dominare"'. Giudice: "Mengele le disse mai qualcosa sulle teorie che aveva sviluppato?" Linges: "Nel settembre 1944 mi volle esporre i risultati delle sue ricerche: disegni di crani, scheletri, descrizioni antropologiche, misurazioni e note illeggibili. Mi disse: 'Guardi qui tutto il mio lavoro. Non è un gran peccato che cada nelle mani dei bolscevichi?'. Giudice: "Che cosa voleva dimostrare Mengele con le sue ricerche?". Linges: "Voleva scoprire la base genetica della razza e le sue caratteristiche"». Testimonianza di Orna Birbach, portata ad Auschwitz nel maggio 1944 dove si tratta della latitanza di Dio: «Da Cracovia viaggiammo come sardine per tre giorni e tre notti. Eravamo in 800 in un vagone, con un solo secchio per i nostri bisogni fisiologici. All'arrivo eravamo in 10 mila donne, provenienti da Plashov. Ci misero in fila per cinque. Ero con mia madre. Corse la voce che in cima la fila ci fosse l'angelo della morte che ci attendeva. Aveva davvero una faccia da angelo, un sorriso sarcastico e indossava un paio di guanti bianchi. Ci avvertirono di nascondere le donne anziane e i bambini perché Mengele si stava avvicinando. Qualcuno ci suggerì di pregare, ma non pregammo perché tanto Dio - pensavamo - ci aveva abbandonato. Lo sguardo di Mengele cadde su una bambina di 12 anni. La mamma della bambina gridò: "Ha 17 anni, può lavorare. Lasciatela con me!". Mengele rispose: "È giusto che tu voglia stare con lei, seguila". E così morirono insieme. È la prima volta che parlo di Auschwitz. Ho sempre parlato dell'Olocausto, ma mai di questa mia esperienza in particolare. Come si fa a raccontare di uno zio che strappa dalle mani della sorella la nipote per buttarla nel fuoco e salvarle così la vita?». Testimonianza di Vera Krigel, arrivata ad Auschwitz dalla Germania nel 1943 all'età di cinque anni, nella quale si vede che Dante ha scherzato: «Mengele ci fece mettere da parte perché vide che poteva fare su di noi degli esperimenti. Camminavamo senza sapere dove stavamo andando. Ero molto confusa. Ero molto piccola. A un certo punto vidi una grande buca dove ardeva del fuoco, dove buttavano i bambini piccoli che erano stati strappati dalle loro madri. Li gettavano vivi nelle fiamme. Le Ss rompevano i crani dei bambini con il calco dei fucili e facevano a pezzi i cadaveri come se fossero polli. lo vidi tutto questo con i miei occhi. Quando vidi le fiamme pensai di essere morta, forse all'inferno, circondata da fantasmi. Pensai anche di essere in manicomio, pensai di essere in uno zoo. L' ho già detto: ero una bambina piccola, confusa, non piansi». Nella seconda giornata ci fu la testimonianza di Simon Wiesenthal che volle ricordare gli zingari e raccontò di quella volta che Mengele gli sfuggì, all'albergo Principe di Savoia di Milano perché il mandato di cattura arrivò il giorno dopo. Nella terza giornata, parlò invece Issar Harel, capo del Mossad ai tempi di Heichman e raccontò sottovoce, non nell'aula principale, la sera, che i servizi segreti israeliani non erano tenuti a rispettare tutte le precauzioni giuridiche che preoccupavano Wiesenthal, come dire, individuato un criminale nazista non è stato sempre necessario pensare al mandato di comparizione. Infine, sempre l'ultimo giorno, parlò Yeuda Bauer e disse che questo assassinio di massa fu concepito da molta parte dell'intellighenzia tedesca perpetrato dai prodotti delle migliori università del centro Europa.

Conclusioni. La cultura del Reich, dall'asilo fino alle università aveva lavato il cervello a una nazione intera. Ebrei e zingari erano considerati come cavie da laboratorio. Auschwitz è stata una vera manna per il dottor Mengele e gli altri medici, di cui non si parla mai, che hanno potuto praticare l'hobby della pseudo-scienza. Chi è sopravvissuto in alcuni casi ha potuto testimoniare. Ancora oggi, purtroppo però il Mein Kampf va a ruba e in alcune parti d'Europa si pratica il Klatschen, l'esercizio della violenza fine a se stesso. La commissione di Gerusalemme ha fatto appello a tutti i popoli affinché si ricordino le disgrazie provocate dal nazismo in Europa e che non nasca più un regime così terribile. Questa decisione è firmata il 4 febbraio 1985 nei registri di Yad Vashem.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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