Diario

Il vittimismo armato

Nel XIX secolo la diaspora ebraica appariva all’immaginazione ostile come fantasma di un impero avverso e infiltrato, il nazismo portò il concetto all’estremo. Come si lotta contro certe idee? Difendendo la libertà di tutti.

di Stefano Levi Della Torre

 

In che cosa siamo diversi dagli altri, noi ebrei? Abbiamo storie particolari che in parte ci accomunano; abbiamo culture e tradizioni particolari per chi di noi le vive e le studia; abbiamo anche una religione particolare, per chi di noi ci crede e la pratica. Ci capita però di sospettare di razzismo chi ci considera diversi, e al tempo stesso di offenderci se non viene riconosciuta la nostra diversità. In che cosa vogliamo essere considerati uguali e in che cosa vogliamo sia riconosciuta una nostra differenza? Mi sembra una buona domanda per chiarire i rapporti tra noi e tra noi e gli «altri». Ma occorre considerare che ogni seria differenza può produrre contemporaneamente diffidenza e attrazione, come succede per esempio tra donne e uomini. Per cui non è logico vantare una nostra diversità pretendendo che questa sia del tutto esente da qualche attrito con coloro rispetto a cui ci differenziamo. Un certo attrito tra noi e gli altri è fisiologico. Qual è la soglia oltre alla quale questo attrito diventa patologico e possiamo parlare lucidamente di sintomi antisemitici? L’«odio per il diverso» comprende l'antisemitismo ma non lo definisce specificamente: è una definizione così generica da abbracciare senza distinzioni qualunque ostilità verso gli «altri», dal campanilismo fino al razzismo. Il perturbante, d'altra parte, non nasce propriamente dall'alterità, ma piuttosto dall'alterazione. Il canguro, per esempio, presenta un grado molto alto di alterità dall'homo sapiens, ma siamo maggiormente perturbati dallo scimpanzé proprio perché è meno diverso, e anzi vi leggiamo qualcosa di noi, un'alterazione dell'umano. Per cui l'antisemitismo non si sviluppa in proporzione della diversità ebraica, ma piuttosto di una somiglianza che proprio in quanto tale è percepita come minacciosamente concorrenziale. Nell'immaginario antisemita, più che un diverso l'ebreo è un deviante che grazie a un suo potere globale deforma e conforma ai suoi interessi l'andamento della politica, della cultura, dell'economia. Ora, la diaspora ebraica in Europa, Asia, Africa, America, ha avuto e ha effettivamente la dimensione di un impero su cui «non tramonta mai il sole». Non è un impero degli ebrei, ma l'effetto che gli imperi (a partire da quello babilonese, attraverso quello romano fino ai nostri giorni) hanno avuto sugli ebrei. Sono le dimensioni intercontinentali della nostra dispersione ad alimentare l'immaginazione di un impero informale e di un imperialismo attivo degli ebrei, oggi con il suo perno in Israele come Stato guida. È appunto una questione di imperi. Nell'analisi di Hannah Arendt, l'antisemitismo tra il XIX e il XX secolo si è sviluppato soprattutto in relazione al nazionalismo dell'epoca dell'imperialismo, alla competizione tra nazionalismi imperialistici. È in questo periodo soprattutto che la diaspora ebraica appare all'immaginazione ostile come fantasma di un impero avverso e infiltrato, quasi che il nazionalismo imperialista proiettasse sugli ebrei la propria paura di veder ribaltata contro di sé la propria stessa vocazione all'appropriazione e al dominio. È attraverso questa proiezione, questo rispecchiamento di sé in ciò che immaginano di troppo simile e concorrenziale negli ebrei, che gli antisemiti si proclamavano o si proclamano vittime degli ebrei. Da quanto detto, vorrei desumere tre caratteri che, combinati insieme, convergono nell'antisemiti­smo:

1) il primo è il carattere proiettivo dell'antisemitismo, il proiettare sugli ebrei almeno una parte di se stessi; questo avviene più che dal lato della differenza ebraica, dal lato invece della somiglianza: della somiglianza deviante e alterata attribuita agli ebrei; la quale induce a espellere da sé quella immagine e quella somiglianza inventando differenze anche biologiche.

2) Il secondo è l'immaginazione di una strapotenza ebraica nei processi storici mondiali. E questo punto distingue particolarmente l'antisemitismo dalla generica «ostilità all'altro».

3) Il terzo, conseguente al secondo, è il carattere vittimistico dell'antisemitismo, che lamentandosi vittima degli ebrei e del loro presunto potere globale proclama la discriminazione o la persecuzione o il genocidio degli ebrei come missione di autodifesa e guerra preventiva. Nel nazismo tale combinazione tra vittimismo e aggressività ha raggiunto come è noto la massima evidenza. Tra le due guerre mondiali le masse tedesche si sentirono (ed erano) vittime della pace vendicativa di Versailles, della devastante crisi economica e dell'occupazione. Il nazismo ebbe successo nel proporre una versione vittimistica dell'umiliazione tedesca che scaricava la Germania dalle sue responsabilità, le proiettava sugli altri, sulla democrazia, sul bolscevismo - e sugli ebrei come motori occulti di entrambi e come veri persecutori dei tedeschi.

Ora, si può essere stati vittime nella maniera più grave senza necessariamente abbracciare un'ideologia vittimistica. Nella storia recente ne è stato un grande esempio Nelson Mandela, che ha guidato la straordinaria transizione pacifica, democratica e interrazziale del Sudafrica. Che cosa propugna invece la demagogia vittimistica? L’idea seducente che chi si sente vittima - reale o presunta - sia perciò esente da responsabilità, e che abbia acquisito un diritto assoluto di rivalsa senza limiti. Sono, questi, i connotati di una regressione infantile: innocenza, irresponsabilità, perdita dei limiti. Regressione infantile che rende disponibile la massa a due figurazioni: da un lato quella di una guida paterna, un Führer o un grande «padre» (qual era Stalin), che punisce e lusinga dicendo «siete, siamo i migliori, e  vi regalerò il mondo», «siamo il Bene contro il Male»; dall'altro il Babau, il nemico/capro espiatorio, su cui condensare e proiettare tutta la propria paura e la propria aggressività. Vittimista non è la vittima che vuole riparare l'offesa secondo giustizia, con la condanna dei colpevoli, e della loro ideologia, affinché il crimine non si ripeta né per sé né per altri; vittimista è colui che mette a frutto nei suoi rapporti personali e in politica il suo statuto di vittima - vera o presunta - per accampare un proprio diritto incondizionato, e dunque un proprio privilegio. «La sola giustizia era ciò che giovava al nostro popolo», fa dire Primo Levi ai nazisti ne I sommersi e i salvati (p. 17, Einaudi, 1986). L'ideologia vittimistica pretende il privilegio, cioè una privatizzazione del diritto, a scapito di ogni convenzione civile e internazionale e di ogni criterio universalistico di giustizia: «Non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te». E nel sancire l'arbitrio, il vittimismo ha come sue prime vittime le minoranze politiche, religiose, culturali e sessuali. È da questa combinazione di vittimismo e aggressività che dovremo soprattutto guardarci: essa è anche il terreno più fertile dell'antisemitismo. Siamo, noi ebrei, esenti da un'elaborazione vittimistica e strumentale della nostra immane tragedia? In Russia, il cui governo conduce una guerra di sterminio in Cecenia, e che è colpita dal terrorismo islamista ceceno, è in aumento la xenofobia. Nella suppurazione dell'impero sovietico decadente c'è chi grida la Russia ai russi; così in Francia, la Francia ai francesi. In Germania, in Sassonia, l'Ndp neonazista ha raggiunto il 9,2 per cento nelle elezioni di settembre. E l'assassinio del regista Van Gogh in Olanda è uno dei tanti episodi che rivelano come gruppi fondamentalisti islamici facciano da quinta colonna della loro versione della «Guerra di civiltà»; e ci sono aree della sinistra che, per degenerazione ideologica «relativistica», confondono vittime con vittimisti e fanno da sponda alle loro pretese reazionarie, mutilazioni «tradizionali» della donna e antisemitismo compresi. Ma in Europa c'è pure una risposta a queste tendenze. Sostengo che i territori più fertili per uno sviluppo dell'antisemitismo corrispondono alla geografia del vittimismo (come l'ho definito) nel mondo. È il vittimismo di chi si sente defraudato dalle contaminazioni etniche, culturali, politiche indotte dall'interdipendenza, dalle migrazioni, dalla globalizzazione, dalla storia. È il vittimismo del privilegio che si sente minacciato, o che rivendica privilegio, gerarchia - dei ricchi sui poveri, dell’uomo sulla donna, della patria o delle comunità o delle religioni sugli individui - in funzione della competizione e della guerra. È un'idolatria delle identità, delle purezze, delle religioni degradate a vessillo di identità. Cuius religio, eius regio, se vogliamo invertire il motto della pace di Westfalia, per renderlo attuale. Dove vediamo oggi manifestarsi nella sua forma più violenta questo vittimismo armato? In primo luogo nel terrorismo globale islamico e in secondo luogo nell'ideologia della guerra preventiva del dopo 11 settembre 2001. L'area del fondamentalismo islamico si proclama vittima dell'occidente e alimenta l'aggressione terroristica; l'area del cristianesimo fondamentalista si proclama vittima dell'islam e giustifica l'arbitrio della guerra. Proclamano entrambe «Dio è con noi», e privatizzano Dio come privatizzano il diritto internazionale. Ma hanno un nemico in comune: lo spirito democratico, pluralistico e dunque laico della concezione liberal o liberal­socialista della giustizia sociale e delle libertà politiche, culturali e religiose. Il moralismo cinico che ha confermato Bush il 2 novembre non si riferisce a valori morali intesi alla giustizia e la libertà, ma al contrario all'affermazione e al restauro di un ordine gerarchico dentro e fuori dal grande Paese, caratterizzandosi proprio sulla discriminazione esemplare di una minoranza emblematica (i gay). Scriveva Thomas Friedman sul New York Times a immediato commento delle elezioni: «Quello che mi preoccupava era l'ondata a favore di George Bush che non solo sostiene politiche diverse dalle mie, ma un tipo di Paese diverso dal mio. Non solo non siamo d'accordo su quel che dovrebbero fare gli States, ma su cosa siano gli States». Friedman ci mette in allarme persino su una possibile mutazione degli Stati Uniti, quanto ai valori di cittadinanza, di libertà, di laicità, di diritti delle minoranze. Per quanto mi riguarda, amo le tradizioni, le sapienze dei maestri ebrei e non ebrei trasmesse di generazione in generazione: esse danno profondità al nostro presente e al nostro futuro. Qui parlo del richiamo reazionario alle tradizioni, dell'istinto di conservazione dell'ordine e del privilegio costituiti, che si oppongono alla trasformazione e al miglioramento. E dunque, alle tre caratteristiche (dette sopra) che convergono nell'antisemitismo, voglio aggiungerne una quarta: ed è il fatto che l'antisemitismo non è solo una reazione a una congiuntura storica, come può essere per esempio una risposta xenofoba all'immigrazione; l'antisemitismo è anche una tradizione trasmessa nei secoli come una nervatura delle identità nazionalistiche e integralistiche in Occidente. Forse oggi latente, ma per quanto, se è stagione di rivalsa delle identità declinate in forma retriva? Forse fino a quando Israele sarà visto, col suo sacrificio d sangue, come utile barriera contro l'islam, e per questo incoraggiato alla guerra e non alla soluzione politica e al compromesso? E così pure nell'islam fondamentalista, nel suo sogni totalitario di società irrigidite in gerarchie soffocanti, l'antisemitismo è una tradizione che se è storicamente meno profonda che nel cristianesimo cerca ora alimento nei testi della tradizione antisemita europea, compresi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Noi ebrei, e con noi Israele, siamo presi in mezzo tra fondamentalismo cristiano e fondamentalismo islamico, che si combattono ma sono consonanti, col loro integralismo, nel non promettere nulla di buono né ai diritti degli individui né à quelli delle minoranze. Crediamo che sia una scelta lungimirante, per noi e per Israele, buttarci nelle braccia dei fondamentalisti cristiani risvegliati e dei clericali per combattere i fondamentalismi islamici? Alcuni di noi credono di sì. Anzi certi nostri ebrei arrivano a tanto che mentre gridano al sacrilegio e all'antisemitismo se qualcuno insinua che l'occupazione israeliana dei territori infligge ai palestinesi cose simili a quelle che gli ebrei hanno sofferto, applaudono con ossequio se qualche prelato o clericale lamenta che i cattolici in Europa sono ormai perseguitati come furono perseguitati gli ebrei (perseguitati per altro con la partecipazione o il consenso di tanti prelati o clericali). E anzi vorrebbero zittire in pubblico il presidente degli ebrei italiani che giustamente obiettava a questo spudorato strumentale vittimismo-clericale. Ma come nota Primo Levi ne I sommersi e i salvati, «il privilegio difende e protegge il privilegio (p. 28)» e questi ebrei apostolici romani corrono in pietoso soccorso agli integralisti cattolici che pretendono il privilegio d'essere esenti per principio da critiche e da bocciature parlamentari, per poter rivendicare lo stesso principio per sé e per le loro posizioni: come se il diritto di critica fosse di per sé persecuzione: antireligiosa se rivolta a un clericale, e antisemita se rivolta a ebrei della loro risma. È bene dunque buttarsi nelle braccia del fondamentalismo cristiano, perché almeno qualche briciola della sua mensa cada su di noi? La maggioranza degli ebrei americani (che non sono nemici di Israele) non lo credono, visto che hanno votato per il 76 per cento contro Bush e con l'altra metà dell'America. Malgrado questo dato vistoso, non è mancato a sinistra un riflesso condizionato: Bush è stato favorito dalla «lobby ebraica». È uno stereotipo ora diffuso nella sinistra come lo è nella tradizione della destra: gli ebrei eminenza grigia dei poteri forti nel mondo. Quasi che Wolfowitz, consigliere neoconservatore di Bush, rappresentasse «gli ebrei», mentre, sul fronte opposto, un Michael Walzer o una Naomi Klein non fossero che delle eccezioni che confermano la regola. Questo condensare in uno stereotipo uni­oco un popolo, una cultura, una religione è alla base della xenofobia, dell’antisemitismo e anche dell'antiislamismo, (nella versione, per intenderci, della Fallaci, il cui messaggio ha la stessa struttura - cambiato l'oggetto ­ del discorso antisemita, lo stesso tipo di generalizzazione, di livore persino fisico, di caricatura unilaterale e rabbiosa buttata su milioni di esseri umani tra loro diversi e anche in conflitto). Ma quale vizio mentale ha fatto sì che a sinistra allignassero criteri di giudizio in tutto simili a quelli tradizionali della destra? E l'aver perso il senso della dialettica interna alla società e alla cultura, il senso della contraddizione interna ai gruppi umani, che è la dinamica della loro trasformazione, e il trasferire dunque l'idea di conflitto nell'antagonismo tra blocchi considerati omogenei: per cui esisterebbero popoli buoni e popoli cattivi, nazioni buone e nazioni cattive. In questo caso la differenza tra destra e sinistra si ridurrebbe al fatto che gli uni parteggiano per un popolo e gli altri per il suo nemico, ma usando criteri di analisi dello stesso tipo: nazionalismo contro nazionalismo. E perché una parte della sinistra raggruppa in particolare gli ebrei in un unico stereotipo negativo? Lo spiegava Asor Rosa in una sciocca pagina di un suo libro: perché gli ebrei da «puro Oriente» (buono) sono diventati grazie a Israele, «puro Occidente» (cattivo). Ora, per qualunque pensiero dialettico il termine «puro» è un non senso idealistico, o con parole più povere, una pura sciocchezza, cieca appunto alle contraddizioni interne alle cose. Ma che noi in quanto ebrei siamo la quintessenza della negatività dell'occidente è una figurazione che circola a sinistra. Dicevo all'inizio che l'antisemitismo è anche la ripulsa di una somiglianza, e così nella sinistra dell'Occidente c'è chi proietta su Israele e sugli ebrei tutto il negativo di quell'Occidente (di cui la sinistra in questione è anche un'immagine e una somiglianza), mentre magari accetta le barbarie delle mutilazioni genitali femminili perché sono espressione di una cultura «altra», e in quanto tale degna di rispetto e di ossequio. Certo, abbiamo molti conti da regolare a sinistra. Ma è forse da quella parte che viene il pericolo principale, o anzi l'unico come vogliono far credere i nostri ebrei abbracciati ai cattolici integralisti e alla destra revisioni­ta e teneramente memore di Mussolini? Credo proprio di no. Il pericolo maggiore viene dalla montata reazionaria, fondamentalista e nazionalista, e soprattutto là dove è armata e animata da volontà di potenza. Quel che mi sembra ci divida in due campi e secondo due impostazioni l'ha condensato Bernard Lazare - il primo a sollevarsi a favore di Dreyfus nel 1894 - alla fine del suo ultimo scritto Le fumier de Job. Di fronte all'antisemitismo diceva dunque Lazare agli ebrei: «Difendetevi. Come? Difendendo la libertà»: non dice la «vostra» libertà, ma la libertà. L'alternativa implicata in questa affermazione è se sia meglio rivendicare diritti particolari a favore della propria particolarità, o non piuttosto i diritti di tutti, la libertà e la dignità di ognuno a garanzia anche della propria; se sia non solo più giusto ma anche più efficace per gli ebrei e per il loro futuro puntare su criteri universalistici piuttosto che particolaristici. È un'alternativa tra diritti umani e rivendicazioni corporative dell'identità; un'alternativa che si presenta a ogni minoranza, e agli ebrei in particolare. Perché la nostra storia ha più volte dimostrato che i diritti particolari (come quelli degli «ebrei di corte» di un tempo) si sono facilmente ribaltati in argomento di discriminazione e di persecuzione; mentre i più importanti esiti emancipatori si sono verificati quando nelle leggi e nel senso comune avevano prevalso principi universalistici. Spetta poi a noi valorizzare le nostre differenze, le nostre tradizioni e le nostre fedeltà. 

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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