Corriere della sera

Papa Pacelli prevedeva la distruzione d'Israele

Rivelazioni - Vaticano e Stato ebraico: documenti inediti in un saggio di Uri Bialer - Nel 1948 Pio XII domandò alla Grecia la disponibilità ad accogliere i superstiti

di Alberto Melloni

Non fu solo una questione di prudenza, di diffidenza: nel tormentato rapporto fra Vaticano e Stato d'Israele, all'indomani della decisione dell'Onu di dividere i territori del mandato britannico e di far nascere una entità politica ebraica nell'angolo di Palestina compreso fra Giordania ed Egitto, giocavano questioni politiche e teologiche di prima grandezza - e sono le carte diplomatiche israeliane che ne fanno apprezzare i contorni. Il ritorno degli ebrei nella terra d'Israele, infatti, ha toccato da subito e per sempre le corde più profonde delle chiese cristiane. Se nel fondamentalismo  protestante americano s'è formata una ideologia politica di Israele e nella ortodossia russa la geopolitica sovietica ha usato a propri fini le antiche istituzioni zariste di Gerusalemme, per il cattolicesimo la presenza ebraica in quel cono di terra ha costituito una sfida cruciale, ha denudato contraddizioni profonde, ha inciso sulla visione vaticana della Terra Santa. Lo rileva lo straordinario studio che oggi offre Uri Bialer: studioso di spicco della Hebrew University di Gerusalemme, Bialer pubblica e studia le fonti politico-diplomati­ che israeliane in un volume, Cross on the Star of David (Indiana Uni­versity Press, pagine 264, $ 39,95), talmente ricco ed importante che il presidente israeliano Moshe Katsav, nella sua recente visita al Papa, ne ha lasciato una copia in dono a Benedetto XVI… Bialer ci accompagna dal 1947 alle soglie (per ora) della Guerra dei sei giorni, con documenti che (eccetto per la parte su Nostra Aetate) erano del tutto inediti. Si sapeva, infatti, che la Santa Sede era rimasta per decenni legata all'idea che l'internazionalizzazione di Gerusalemme fosse il perno e la priorità dei riassetto territoriale del Medio Oriente. Le informazioni e i giudizi israeliani, invece, vedono in questa insistenza un disegno politico fondamentalmente antagonista rispetto allo Stato ebraico: «L'internazionalizzazione di Gerusalemme - ricordava il primo ministro degli Esteri israeliano Moshe Sharett nel 1950 - significa il controllo cristiano di Gerusalemme, che significa il controllo vaticano di Gerusalemme (...) e questa è una cosa che non è mai accaduta prima. Ci fu ai tempi del regno crociato di Gerusalemme, ma quel regno cadde» (p. 6). Per questo, secondo gli israeliani, la diplomazia vaticana guarda con freddezza all'aggressività araba contro il nuovo Stato: nel 1948 al futuro presidente israeliano Haim Herzog consta che il Vaticano di Pio XII, convinto che «gli ebrei di Gerusalemme sarebbero stati distrutti», abbia chiesto, tramite l’ambasciata italiana ad Atene, se la Grecia era disposta ad accogliere come profughi gli ebrei superstiti a un destino segnato. D’altronde, riferisce l'ambasciatore americano James McDonald dopo un'udienza del 1948 con Pio XII, «il Papa non accetterà mai la sovranità di Israele sulla Terra Santa»: e gli eventi del 1949 (dalla enciclica Redemptoris Nostri alla ratifica all'Onu del piano per l’internazionalizzazione di Gerusalemme) mostrano una Santa Sede attiva nel muovere le proprie pedine contro Israele. I gesti di pubblica compiacenza verso il Papa non mutano il giudizio di Sharett: «I cristiani possono tollerare che i musulmani governino i luoghi santi, ma non che dei miserabili ebrei governino il Cenacolo. (...) Se il Papa accetta che gli ebrei governino i luoghi santi, come potrà tenere alta la faccia nell'altro mondo?». «Il Vaticano non vuole che Israele governi qui», perché «abbiamo sfidato il dogma cattolico secondo il quale gli ebrei devono andare raminghi nel mondo», gli fa eco Ben Gurion, pur consapevole che ben altre minacce gravano su Israele. Poggia su questa base di disillusione la strategia israeliana che, nei primi anni Cinquanta, non vuole contattare, ma solo capire un nemico «rispettato e sospettato», al quale non ci si deve «arrendere». Questa linea muta con la guerra di Suez del 1956: un'udienza, qualche conversazione, un mandato ad Avraham Kidron per raccogliere informazioni - ma soprattutto la capacità sovietica di attrarre i Paesi arabi - rendono Israele più potabile. Inizia la stagione di Maurice Fischer, prima vicedirettore del mini­stero degli Esteri israeliano, poi am­basciatore a Roma: egli conosce mol­to bene il Vaticano pacelliano, è ami­co da prima dell'elezione di Giovanni XXIII, incontrerà anche Paolo VI (che lo umilierà chiedendogli di non rivelare il loro colloquio) - e accompagna una grande svolta. Il punto di partenza lo sintetizza per la segreteria di Stato vaticana monsignor Domenico Tardini, che, secondo un rapporto del 1953, dice: «Sono sempre stato convinto che non c'era nessun bisogno di costituire uno Stato, che questa creazione è stata un grave errore da parte degli Stati occidentali e che la sua esistenza sarà una costante fonte di pericolo di guerra nel Medio Oriente. Ora che Israele esiste non c'è naturalmen­te la possibilità di distruggerlo, ma ogni giorno paghiamo il prezzo di questo errore» (p. 58). La svolta è data dalla decisione di Giovanni XXIII di riconsiderare i rapporti ebraico-cristiani nel Concilio Vaticano II. Il nuovo Papa aveva avuto contatti diretti con l'agenzia ebraica dagli anni di Istanbul fino a quelli di Parigi e si muove con molta attenzione: non respinge, ma nemmeno si consegna alle organizzazioni dell'ebraismo internazionale che irritano Golda Meir con la loro imprudenza; e persuade l'ambasciatore israeliano che è la trave delle radici teologiche dell'antisemitismo che deve essere rimossa prima d'ogni operazione sulle pagliuzze politiche, e non viceversa. Su queste idee transiterà la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, che segna una rottura decisiva con le ambiguità dell'antisemitismo (e/o dell'antigiudaismo) cattolico. Bialer presenta molta documentazione sulle tensioni interne al potere israeliano durante il Vaticano II: come avevo potuto constatare anche io nel mio libro L'altra Roma (Il Mulino, 2000), il governo non è mai certo della rilevanza politica degli scontri teologici così come dei tentativi di sovversione interni alla curia di Roncalli (p. 67), delle campagne di sensibilizzazione, delle astuzie che Paolo VI usa quando nel suo viaggio del 1964 riesce a parlare per giorni senza dire mai la parola «Israele», delle informazioni d'intelligence che raccoglie. E alla fine del Vaticano II, Gerusalemme scopre di aver imparato una verità semplice, ma essenziale nei rapporti con la Chiesa: «Il Vaticano ha i suoi metodi peculiari, ed è assai arduo distinguere tra considerazioni teologiche e calcolo puramente politico: l'affaire del documento (Nostra Aetate) dimostra senza ombra di dubbio a quale grado la politica incida sulla teologia, ma anche il contrario è vero, e non è improbabile che la posizione teologica formulata nel documento incida sulle relazioni fra la santa Sede e lo Stato d'Israele». Venti mesi dopo, nel giugno del 1967, le truppe israeliane vincevano la Guerra dei sei giorni ed entravano nella città vecchia di Gerusalemme: iniziava una nuova pagina i cui contenuti sono ancora da studiare; e anche sull'esito ci sarebbe da discutere. Come osserva Bialer in conclusione della sua fatica, l'accordo fondamentale siglato fra Santa Sede e Israele, il 30 dicembre 1993, vuole superare millenni di discriminazione, incomprensione, risentimento: non c'è dunque da stupirsi se sussistono difficoltà, come quelle vissute nei mesi scorsi. Ripercorrere, però, il breve tratto israeliano di una storia lunghissima è utile per ricollocare le tragedie del passato, le speranze del futuro e i problemi del presente su uno scenario che non si lascia addomesticare dall'apologia e non si illude delle ideologie.

Corriere della sera, 18 gennaio 2006

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