Corriere della sera

Genocidi, le radici dell’orrore nelle idee del darwinismo sociale

Così nacque l’ossessione di eliminare le “razze inferiori”

Novecento – Lo storico Bruneteau ricostruisce le tragedie del secolo, dal massacro degli armeni alle stragi del Ruanda

Il problema – Gli ebrei temono che qualcuno intenda relativizzare la Shoah, ma altre vittime non possono accettare che le loro vicende siano ridotte a crimini di seconda categoria

Le analogie – Il Reich di Hitler e la Russia sovietica usarono verso i nemici la stessa terminologia. Si parla di “microbi”, “parassiti” e “vermi”; si ordina di “epurare”, “ripulire” e “purgare”

di Sergio Romano

Il genocidio non è un massacro, una strage, una carneficina, un eccidio. Secondo Raphael Lemkin, ebreo di origine polacca e professore di diritto internazionale in una università americana, la parola (da lui coniata nel 1944) poteva essere usata soltanto per definire la precisa intenzione di annientare l'identità nazionale, religiosa ed etnica di un popolo. Quando se ne servì in un libro intitolato Axis Rule in Occupied Europe («Il dominio dell'Asse nell'Europa occupata»), Lemkin ritenne che questo nuovo tipo di crimine internazionale definisse, in particolare, le misure pianificate dai nazisti contro gli ebrei e i polacchi. Quattro anni dopo, nel 1948, l’Onu adottò una «convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio». Il dibattito giuridico, a questo punto, cominciò a confondersi con il dibattito storico e politico. Quando il diritto internazionale definisce un nuovo reato e lo colpisce con una particolare sanzione politica e morale, non è irrilevante stabilire se la morte di un gran numero di esseri umani debba definirsi genocidio, massacro o strage. Sul trattamento riservato agli ebrei dal Terzo Reich esiste da sempre, con la voce stonata di qualche negazionista, un universale consenso. Ma in altri casi la questione è meno semplice. Possiamo parlare di genocidio a proposito degli armeni morti durante le terribili marce dell’esodo nel 1915? È genocidio il trattamento riservato dalla Russia sovietica ai borghesi nel 1918, ai kulaki nel 1929 e agli ucraini nel 1932? Sono tentativi di genocidio i trasferimenti di intere comunità in condizioni particolarmente drammatiche a cui Stalin ricorse frequentemente? È genocidio quello perpetrato dai nazisti contro gli zingari, dai khmer rossi in Cambogia, dagli hutu in Ruanda e dai serbi in Bosnia? L'importanza assunta dalla Shoah negli studi accademici e nella vita pubblica dell'Occidente, soprattutto negli ultimi trent'anni, ha creato una sorta di corsa al genocidio. Le vittime e i loro congiunti esigono il pubblico riconoscimento delle loro sofferenze, non vogliono che la loro vicenda venga trattata come un crimine di seconda categoria. La discussione comporta necessariamente una comparazione e lo studio attento delle diverse circostanze in cui tali avvenimenti hanno avuto luogo. Ma gli ebrei sono generalmente ostili a un metodo che finirebbe, secondo alcuni, per relativizzare i singoli eventi e diminuire l'importanza della loro particolare tragedia. Al confronto tra i genocidi oppongono l'unicità della Shoah e quindi, implicitamente, l'unicità della storia ebraica. Ma quanto più insistono per sottrarre la loro tragedia a qualsiasi confronto, tanto più suscitano nelle altre vittime una combinazione di invidia, risentimento, gelosia. Questo intreccio di argomentazioni è da tempo sul tavolo degli storici. Sono loro, dopo tutto, che debbono accertare i fatti, individuare le cause, valutare le conseguenze e definire le particolari caratteristiche di un evento. Se il giudice è all'Aja, dove siedono due corti di giustizia (il Tribunale penale internazionale e quello per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia), la giuria è nelle università, nelle riviste specializzate, nei mezzi d'informazione. Per entrare in questa aggrovigliata materia non esiste guida migliore del libro di Bernard Bruneteau Il secolo dei genocidi, apparso in questi giorni presso il Mulino con l'introduzione di uno storico italiano, Marcello Flores, che studia da tempo gli orrori del Novecento. Bruneteau accetta la definizione di Lemkin e cerca di individuare anzitutto le radici di un fenomeno che ha marcato con una pietra nera la storia degli ultimi cento anni. In questo viaggio a ritroso si imbatte anzitutto nei grandi massacri coloniali, da quello dei belgi in Congo a quello dei tedeschi nell'Africa del Sud Ovest. Ma le cause profonde sono più remote e vanno ricercate nella cultura della seconda metà dell'Ottocento. Le teorie di Darwin sulla evoluzione della specie seducono alcuni filosofi e contribuiscono a diffondere le tesi del darwinismo sociale: una ideologia che teorizza la graduale scomparsa delle razze inferiori. Spuntano rapidamente da questo tronco alcuni rami. Un brillante studioso austriaco, Ludwig Gumplowicz, sostiene che il motore della storia non è la lotta di classe, come affermano i discepoli di Marx, ma la «lotta delle razze». Mentre Gumplowicz adotta un atteggiamento sostanzialmente distaccato e neutrale, altri studiosi non esitano a parlare di «razze superiori». Di lì a sostenere che le razze inferiori non hanno il diritto di esistere, il passo è breve. Iscritta ormai nel libro della evoluzione, la loro scomparsa può legittimare l'uso della forza e perché no? - quello della scienza. Appare infatti negli stessi anni un frutto malato del positivismo: l'eugenetica, vale a dire la disciplina che si propone di accelerare con mezzi scientifici l'evoluzione e il miglioramento della specie umana. Il dottor Mengele, ormai, è dietro l'angolo. Perché i libri diventino realtà occorre tuttavia la scintilla della storia. L'evento che maggiormente contribuisce a diffondere i germi di queste teorie è la Grande guerra. Il conflitto disumanizza il campo di battaglia, banalizza la morte, trasforma il nemico in un essere ripugnante da sopprimere, liquidare, annientare. Occorre falciarlo con le mitragliatrici, schiacciarlo con i cannoni, bruciarlo con i lanciafiamme, avvelenarlo con i gas. Dopo la fine della guerra, le grandi ideologie totalitarie prolungheranno il clima della lotta a oltranza, senza quartiere. Anche se Bruneteau fa qualche interessante distinzione, non esiste grande differenza tra la percezione dell'ebreo nella Germania nazista e quella del borghese, del pope o del kulak nella Russia bolscevica. E non esistono grandi differenze nel numero delle vittime da una parte e dell'altra. In ambedue i casi il nemico è un verme, un microbo, una piaga sociale. L'autore del libro ricorda che Lenin era ossessionato dalla necessità di «epurare», «ripulire», «purgare» la terra russa dagli «insetti nocivi», dalle «pulci», dalle «cimici» e dai «parassiti» che la infettavano. Gli attivisti comunisti, che andavano a cac­cia dei controrivoluzionari nelle campagne russe, definivano se stessi «la scopa rossa». Il gergo nazista e le ossessioni di Hitler sono l'immagine speculare del gergo bolscevico e delle ossessioni di Lenin o Stalin. Ho concentrato la mia attenzione sulle cause storiche e culturali del genocidio e ho necessariamente trascurato i capitoli del libro dedicati ad alcune grandi vittime del Novecento: gli armeni, i nemici di classe nella Russia di Lenin e di Stalin, gli ebrei e gli zingari nell'Europa nazista, i cambogiani all'epoca di Pol Pot, i tutsi del Ruanda. Ma è questa la parte che riserverà ai lettori maggiori emozioni e sorprese. Qui Bruneteau dimostra di essere non soltanto un eccellente storico, ma anche un efficace e avvincente narratore.

Il libro Bernard Bruneteau, “Il secolo dei genocidi”, traduzione di Alessandra Flores d’Arcais, il Mulino, pagine 299, € 22

Corriere della sera, 15 gennaio 2006

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