Corriere della sera

 Giorno della Memoria 

Berlino '43, mio marito è un ebreo

Margarethe von Trotta: «Racconto le donne ariane che sfidarono Hitler» - Esce il film «Rosenstrasse» con Katja Riemann premiata a Venezia

Valerio Cappelli 

Nel febbraio 1943, in una via centrale di Berlino, Rosenstrasse, centinaia di donne si radunarono sotto un palazzo, divenuto un centro di raccolta per ebrei che aspettavano di essere «evacuati» (così si diceva) nei lager dell' Est. Se ne stavano lì giorno e notte, e non se ne andavano: speravano di salvare i propri mariti, o di poterli vedere ancora una volta. Su quest' episodio vero, misconosciuto, primo atto di ribellione di donne tedesche al nazismo, Margarethe von Trotta ha realizzato un film che esce domani, il Giorno della Memoria. E con la memoria, naturalmente, il film deve fare i conti: ognuno ci convive a suo modo. Chi dimentica, chi rimuove, chi ricorda ogni particolare come fosse oggi. In «Rosenstrasse» c' è tutto questo, oltre all' abbandono. Il film, che valse alla protagonista, Katja Riemann, il premio come miglior attrice a Venezia, ha suscitato discussioni in Germania: c' è chi ha detto peccato che mia madre non sia più viva per vederlo; c' è chi ha polemizzato: perché il tema ripropone qualcosa che non si vuole accettare ma si deve accettare. «In Germania - racconta la regista - secondo una corrente di pensiero, sul lavoro di memoria rispetto a Hitler, abbiamo già dato». Si è discusso anche sul fatto che i tedeschi non appaiono così terribili come nella realtà, e come ci hanno mostrato «La lista di Schindler» e altri film. «Non volevo entrare nel cliché della crudeltà. E poi quelle donne avevano davanti a loro gendarmi della polizia, che non erano delle SS. Erano berlinesi, ariane. Ariane che erano chiamate "le puttane degli ebrei". Alle coppie miste si chiedeva di divorziare, gli ebrei perdevano tutto, la carriera, il futuro. Sotto il nazismo le donne dovevano stare a casa e fare figli, non erano accettate come esseri pensanti. Hitler idealizzò la fedeltà della donna tedesca. Invece quelle, per la prima volta, ebbero il coraggio di gridare. Mi è piaciuto che la loro non era una dimostrazione politica, ciascuna andò lì per il proprio uomo, spinta dall' amore e dalla disperazione». Margarethe von Trotta (la regista de «Gli anni di piombo») ha impiegato dieci anni per fare questo film: «La mia idea nacque nel momento delle commedie leggere, non trovavo i finanziamenti. Certe volte le cose si sentono nell' aria. Ora era il momento giusto». Non si sente la pioniera dei film sul nazismo in Germania, tanto più che se ne stanno girando due, sul lager di Dachau e su Hitler ritratto da Bruno Ganz. Le donne di Rosenstrasse vinsero la loro battaglia. «ROSENSTRASSE», da domani nelle sale .

Dal Corriere della sera, 26 gennaio, 2004


 LE STORIE  – Volti, ricordi e speranze dal mondo ebraico

 L’ex dirigente - «Bisogna spiegare. I ragazzi non sanno»

Alessandro Trocino

Nella comunità ebraica di Parma durante la guerra erano in sessanta. Diciotto finirono nei campi di concentramento gli altri se ne andarono. Ora è rimasto da solo, insieme a 22 ebrei stranieri, rumeni, russi. Proprio lui, Franco Vigevani, che a Parma non è riuscito a nascere: «Quando mia madre mi aspettava - racconta - ci furono l' 8 settembre e l'occupazione nazista. Il pericolo cresceva ogni giorno. Grazie a un giudice di Parma i miei genitori ottennero documenti falsi e riuscirono a espatriare: io sono nato a Lugano, il 14 febbraio del 1944». Vigevani, dirigente d'azienda in pensione, è an­dato al cimitero ebraico per la commemorazione: «C'erano solo anziani. E questo mi dispiace. La memoria si deve tramandare ai giovani. E per  questo servono insegnanti preparati, che siano in grado di far rivivere la rivolta del ghetto di Varsavia, con l'entusiasmo con cui una volta si parlava della resistenza. E senza cadere nella retorica». L'antisemitismo è una piaga antica, dice Vigevani: «Da qualche anno va peggio, ma prima se ne parlava meno. Le cause sono molte. Per esempio il residuo di antisemitismo di origine cristiana. Escluso il Papa; naturalmente. L'altro giorno alla conferenza di un rabbino, un prete ha chiesto ai presenti: "Ma perché non vi convertite?"».

L’avvocato  «Orgogliosa di essere ebrea. L’ignoranza mi spaventa»

«Mi spaventa l’ignoranza, chi parla degli “ebrei tirchi” e li chiama “rabbini”. Chi mi chiede se sono israeliana e quando gli spiego che sono italiana mi risponde: “Allora hai la doppia cittadinanza?”». Michela Bordieri è avvocato, ha 27 anni, vive a Milano. «Non sono credente, ma rispetto le tradizioni e sono orgogliosa di essere ebrea. Non lo sbandiero, ma chi non sa che sono ebrea, in fondo, non mi conosce davvero». E’ cresciuta ascoltando i racconti sulla sorella della nonna: «Finì in carcere perché ascoltava Radio Londra. Poi scappò in Svizzera corrompendo le guardie con i gioielli di famiglia». Ricordare è necessario: «Il pericolo è che la Shoah venga considerata come uno dei tanti eventi della storia, non come qualcosa di unico. Alle mostre sullo sterminio vado soprattutto per portarci gli amici, per far conoscere a chi non sa e a chi non vuoI sapere».

Il pensionato «Ho avuto incubi per anni. I miei salvi in un convento»

Quando Giorgio Sestieri è nato, nel settembre '44, la città di Roma era libera. Il peggio, passato. Ma non gli incubi. «Quelli ce li ho avuti per tanti anni da bambino - ricorda Giorgio Sestieri, 59 anni, esperto d'informatica bancaria in pensione -. Le cugine di mia madre erano state deportate. Sognavo i tedeschi che ci sparavano addosso. Con le leggi razziali mia madre era stata cacciata dalla scuola di via Panisperna in cui insegnava, mio padre era stato costretto a chiudere il negozio in via Nazionale. Nel '43 si erano salvati. Pagando per essere accolti in convento». L'antisemitismo? "Per me è cominciato a scuola: non si raccontava nulla. Il programma si arrestava prima. È sempre stato un problema di disinformazione. Oggi si nutre dell'abbinamento ebrei-governo Sharon. Non si distingue tra nazionalità e religione».

L’insegnante  «A scuola un clima pesante. E l’intolleranza aumenta»

Insegna alla scuola ebraica di Milano. E il clima di antisemitismo lo vive da vicino. «Con gli attentati - spiega Debora Saviano Jona Falco, 36 anni - viviamo momenti pesanti. Le misure di sicurezza sono aumentate e i bambini se ne accorgono». In classe parla di antisemitismo. «Ma spiegando che è solo un aspetto dell'intolleranza che sta rinascendo. E che prende la forma dell'odio per l'ebreo, come per il nero o l'extracomunitario». Spiega i rischi dell'intolleranza: «Spesso i bambini vivono gli insulti o gli striscioni allo stadio come una bravata. Non sanno che è già successo, non capiscono come può andare a finire». Alcuni ebrei francesi hanno scelto di tornare in Israele: «L'Italia non è la Francia, ma mi sono chiesta cosa farei in quelle condizioni. Credo che rimarrei. Non bisogna far finta di nulla, bisogna opporsi all'intolleranza e lottare».

Il commerciante  «Ora evito lo stadio. Fischi ogni volta»

Lo chiamavano «Pippo er boia». Aggiustava le penne all’angolo di via Montebello, a Roma, accanto alla Stazione Termini. «L'avevano soprannominato così perché era esattamente l'opposto, una persona di grande umanità e disponibilità - racconta Vittorio Pavoncello, il nipote cinquantenne, che porta lo stesso nome del nonno, commerciante a Roma -. Nonno Vittorio era davvero una pasta d'uomo, partiva da casa col suo banchettino mobile sotto braccio e cercava di guadagnare il pane per i suoi otto figli, compreso mio padre Attilio. Altro che banchiere... Quando i tedeschi l'hanno portato via ha lasciato otto orfani. Mio padre Attilio aveva solo 17 anni, la sorella più grande 25, la più piccola cinque». La Shoah per Vittorio Pavoncello si chiama anche Angelo Calò, il suocero che è morto pochi anni fa. Sul braccio portava tatuato il numero A5364. Era riuscito a tornare da Auschwitz, malato per le botte ricevute allora. «L'antisemitismo? Mi fa paura quello che c'è nello sport. Non vado più allo stadio Olimpico - dice Pavoncello -:Anche domenica, quando hanno annunciato la Giornata della Memoria, dalla Curva Sud qualcuno è riuscito a fischiare...».

Paolo Brogi


Viaggio nel dolore, insieme ad Auschwitz arabi ed ebrei 

L’iniziativa – Il lavoro del Centro di documentazione ebraica di Milano e la visita ai luoghi dell’Olocausto: conoscersi attraverso lo specchio della sofferenza

Francesco Alberti

MILANO - Avvenne all'improvviso, nel breve tratto che divide il Bunker 2 (camera a gas più fosse comuni) da uno dei cinque Krematorium (camera a gas più forni). La studentessa palestinese, volto coperto dal chador, affiancò Magda, ebrea ungherese sopravvissuta alla Shoah, e le sussurrò: «In questo momento ti vedo come se tu fossi mia madre». E l'anziana, fissandola negli occhi: «lo l'ho sempre saputo, è una vita che sei mia figlia...». Quel giorno del maggio scorso c'era il sole su Auschwitz-Birkenau, i prati erano in fiore e il bosco di betulle che fa da sfondo alla Casa Rossa - prima camera a gas messa in funzione dai nazisti, 13 mesi a pieno regime (marzo '42 - aprile '43) con una media di 400 morti al giorno - aveva contorni meno spettrali del solito. Strana comitiva si aggirava lungo i viali della morte. Avversari storici camminavano fianco a fianco. C'era la studentessa con il chador e altri duecento musulmani: docenti universitari palestinesi, capi religiosi islamici di Francia e Belgio, arabi d'Israele. Con loro, quasi a toccarsi, decine di ebrei provenienti da ogni angolo d'Europa. E poi cristiani. «Per tre giorni e tre notti, la delegazione palestinese e quella ebraica accettarono di confrontarsi e di conoscersi attraverso lo specchio dell'Olocausto, della sofferenza...», racconta ora Marcello Pez­zetti, 50 anni, storico del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, autorità mondiale per tutto ciò che riguarda Auschwitz e le sue tecniche dell'orrore: fu lui nel 2001 a scoprire che la Casa Rossa, per mezzo secolo abitata da una tranquilla coppia di polacchi, era in realtà l'antenata di tutte le camere a gas ed è stato lui, assieme al prete greco cattolico Emile Shoujani, a tirare le fila di quello specialissimo viaggio. Per i musulmani, dice, quella fu la Giornata della Scoperta: «La scoperta che il nemico ebreo, da loro visto e vissuto unicamente come aggressore, era stato anche vittima, perseguitato e sterminato. Mi subissavano di domande, soprattutto i giovani arabi, sembravano non capacitarsi di una violenza così pianificata». Pezzetti faceva da guida, parlava in francese e «ancora ricordo l'emozione di sentire i miei discorsi tradotti contemporaneamente in arabo e in ebraico...». Di fronte ai Bunker, alle foto e alla Judenrampe - fino al '44 una sorta di capolinea per i treni blindati che trasportavano i deportati e luogo di selezione tra carne da gasare e carne da lavoro - «le certezze di molti giovani palestinesi, allevati nel solco di una cultura revisionista della Shoah, se non addirittura negazionista, venivano messe in discussione». Gli ebrei, tra i quali c'era anche il sopravvissuta Shlomo Venezia, che lavorava nelle camere a gas, ebbero quel giorno un atteggiamento di totale umiltà. «Non c'era e non avrebbe potuto esserci alcuno spirito di rivalsa, gli accordi erano chiari: utilizziamo queste ore per confrontarci nella sofferenza, poi ognuno trarrà le proprie conclusioni» spiega Pezzetti, alla cui competenza in materia di lager hanno attinto registi come Steven Spielberg per Schind­ler's List e Roberto Benigni per La vita è bella. Quei tre giorni furono il frutto di quasi sei mesi di intensa diplomazia. Un filo che solo il prete melchita Shoufani - sangue arabo, fede cattolica, domicilio in Israele - poteva tessere: «Alla fine riuscì a convincere perfino l'imam di Parigi, ma quante difficoltà... Gli arabi, anche la parte più moderata, non nascondevano diffidenza all'idea di un viaggio con gli ebrei. E in mezzo c'erano i cristiani, un po' mediatori, un po' osservatori».  Nessun dettaglio fu trascurato: ognuna delle comunità aveva i suoi sponsor, l'Unione Europea fece il resto. E prima di immergersi nell'orrore di Auschwitz, l'eterogenea delegazione ripercorse, nel ghetto di Cracovia e alla sinagoga di Tempel, le tappe della persecuzione ebraica precedente il nazismo. Oggi, sette mesi dopo, Pezzetti dice: «Se solo il 20 per cento di quel gruppo continuerà a lavorare per il dialogo, qualcosa di importante sarà stato seminato». Poi, quasi temesse di caricare la cosa di troppi significati, butta lì: «A Parigi alcune organizzazioni studentesche ebree e musulmane, così come gli scouts, già collaborano. Hanno iniziato proprio dopo il viaggio...».  

(ha collaborato Giovanna Roseghini)

Dal Corriere della sera, 27 gennaio 2004


Oltre la memoria di una tragedia - «Guardare al futuro per ricostruire»

Leone Paserman *

La Giornata della Memoria che il nostro Paese commemora da alcuni anni con grande impegno istituzionale e popolare rappresenta un momento di incontro, di riflessione comune, di scambio. È importante che questa giornata diventi anche occasione di costruzione, con uno sguardo che dal passato e dal ricordo della più immane tragedia consumata dall'umanità e sull' umanità, ci riporti al presente e al futuro. Nel presente noi ebrei sentiamo il dovere di mantenere le società in cui saranno vigili nei confronti di ogni fenomeno di razzismo, di intolleranza e di antisemitismo sintomi non solo di un pericolo che ci riguarda, ma di un male profondo che minaccia la nostra cultura intera, male che la frantuma mettendo uomini contro altri uomini. Un presente che rischi di essere offuscato da molta confusione, in cui si accetta sempre meno l' altro, colui che pur partecipe fino in fondo della vita morale e sociale è percepito come diverso, non in senso arricchente ma negativo. A questa confusione si aggiunge l' ignoranza; per la Shoah, per la cultura comune per l' identità dell' altro, in questo caso l' ebreo, come singolo e come popolo. Ci preoccupa assai per questa ragione che nella società moderna gli ebrei siano tollerati come individui ma meno accettati come popolo. Gran parte del rigetto nei confronti di Israele non viene da una critica al suo governo ma da una non accettazione della sua esistenza come Stato degli Ebrei, fulcro nazionale e spirituale dell' ebraismo. Ci preoccupa anche perché l' attacco ad Israele esprime una cecità di fronte al pericolo del terrorismo che minaccia tutta la cultura occidentale e che combattiamo assieme. Antidoto a tutto questo restano il dialogo, il confronto, ma soprattutto l' educazione contro l' ignoranza i contenuti contro il vuoto i valori contro le paure. Il popolo ebraico, attraverso quasi più di tremila anni di storia, veicola molti di questi valori comuni. E noi speriamo che saranno questi a tenerci uniti sempre ai nostri concittadini oltre la memoria di una tragedia che purtroppo ci vide passivi, oltre una pagina di storia che non va dimenticata, con un imperativo: ricostruire, costruire. Facciamolo assieme.

* presidente della comunità ebraica di Roma «Ci preoccupano il rigetto nei confronti di Israele e la cecità nei confronti del pericolo del terrorismo»


 LO PSICANALISTA    Baharier: basta con le celebrazioni cerchiamo le ragioni della tragedia.

Giuseppina Manin 

«La giornata della memoria? La rispetto, ma non è quello di cui oggi abbiamo bisogno. La logica della sofferenza, delle colpe e dei castighi, non basta per capire quel che è successo né per trovare nuove strade. Io credo sia arrivato il tempo di porre un freno agli eccessi della memoria celebrativa e sostituirla con la memoria dell' uscita, quell' Esodo che il popolo d' Israele celebra a ogni Pasqua». Sa di osare molto con queste parole Haim Baharier, matematico, psicoanalista, motore del Centro Binah per la formazione manageriale. Sa di osare, ma deve e vuole farlo. Perché ebreo, perché studioso di ermeneutica biblica, e per adempiere a un impegno preso, tanto tempo fa, con suo padre. «Uscì da Auschwitz che pesava 31 chili, vivo solo in apparenza. "Tocca a te elaborare quello che è successo, io sono morto lì dentro", mi disse. Credo di farlo oggi, a 56 anni. Ma uscire dal ghetto del rimosso e del celato non è facile. Il grande compito dell' Occidente oggi è tutto lì». Compito che, come Baharier ha ribadito ieri sera in un incontro allo spazio No' Hma dal titolo «La città delle differenza», comporta una dolorosa quanto necessaria assunzione di responsabilità. «Al contrario della tolleranza, concetto limitato e limitante, la responsabilità è qualcosa di assoluto - ricorda -. Si è responsabili sempre e di tutto, anche di quello che fa il tuo nemico, dice uno dei miei maestri, il filosofo Emmanuel Lévinas. Bisogna superare i rassicuranti dualismi vittime-carnefici, evitare facili demonizzazioni. Le ragioni prime dell' Olocausto si possono spiegare solo in termini complessi, non scaricando ogni colpa sul popolo tedesco. E gli altri? Dov' erano? A quanto pare tutti sapevano tutto. Chi è allora il colpevole? Perché è potuto accadere? Bisognerebbe rileggere gli atti dei processi come Norimberga: là dentro c' è il meccanismo che ha portato a quell' orrore». «La città delle differenze» fa pensare anche a Milano, al suo essere da tempo in crisi sociale e culturale. «Il primo passo per uscirne credo sia mandare a diavolo i buoni sentimenti, l'autocelebrazione della Milano operosa, col cuore in mano. Basta con le vuote retoriche, cominciamo a pensare in termini di responsabilità. Anziché tolleranza zero, responsabilità infinita».


Vittime e carnefici

Yasha Reibman *

«Ricorda quello che ti ha fatto Amalek», questo insegnano i maestri agli ebrei sulle persecuzioni subite. Nel giorno della memoria, istituito su iniziativa di Furio Colombo, si chiede al Paese di compiere uno sforzo. Perché ricordare costa fatica. La memoria non è un soprammobile o un distintivo per l' occhiello della giacca. E di certo non è un fatto statico, cristallizzato una volta per sempre. È un processo dinamico, passa e cambia da generazione in generazione, da padre in figlio. In molti sostengono che questo sia utile per impedire che quanto accaduto allora - una campagna antisemita violenta che ha raggiunto l' apice dello sterminio sistematico di un popolo - non debba avvenire mai più. Poi ci guardiamo intorno e scopriamo, anche attraverso i sondaggi, che l' antisemitismo o alcuni pregiudizi stiano crescendo, a volte sotto nuove forme. Scopriamo, per esempio, che un terzo di noi italiani pensa che esistano i nuovi nazisti. E che questi siano proprio gli israeliani, le vittime diventate carnefici. Questo pericoloso pregiudizio è spesso creduto in assoluta buona fede. E viene alimentato nei tanti che subiscono un' informazione distorta del conflitto arabo-israeliano. Anche per tutti loro ha tuttora senso - purtroppo - questo giorno.      

* portavoce della Comunità ebraica milanese

Dal Corriere della sera, 28 gennaio 2004


«Abbiamo un debito, onore ai profughi istriani. Violante: dico no al bilanciamento degli orrori. Però è giusto dedicare una strada alle vittime delle foibe». Il conflitto è il sale della democrazia ma da noi sembra trascinarsi una continua guerra civile sotterranea  

L' INTERVISTA / L' ex presidente della Camera e la proposta di istituire un «giorno della memoria»: si tratta di ricordare una storia dimenticata. Il Pci ebbe gravi responsabilità

Marco Cianca 

ROMA - Insultati, umiliati, dimenticati. L' esodo della vergogna. Fuggivano dalle loro città. Da Pola, dall' Istria, dalla Dalmazia. Cacciati dai fucili dell' esercito jugoslavo. Accolti con fischi e sputi dai comunisti italiani che li consideravano fascisti e traditori. Esuli in patria. Quanti sono stati? Trecentocinquantamila, dicono le stime più attendibili. Partirono per non più tornare. Con le lacrime agli occhi e le loro cose imballate. C' era penuria di chiodi e di listelli. Alcuni si portarono via i propri morti, compresa la salma di Nazario Sauro, l' eroe della prima guerra mondiale impiccato dagli austriaci. «L'Italia ha un debito con loro. E dobbiamo pagarlo». Luciano Violante, 62 anni, ex presidente della Camera, erede di quel Pci che nel proprio libro di storia le pagine dal 1945 al 1947 le ha scritte con tanti falsi ed omissioni, chiede che la storia del confine orientale non sia più rimossa dagli italiani. E, con Piero Fassino, ha presentato una proposta di legge per non dimenticare. Un giorno della memoria. Alleanza nazionale, che ha già un suo progetto, vorrebbe ricordare il 10 febbraio del ' 47, firma del trattato di pace che consegnò quelle terre alla Jugoslavia, mentre i Ds preferirebbero il 20 marzo, giorno della partenza da Pola dell' ultimo piroscafo, il Toscana, carico di famiglie, di masserizie, di ricordi. Un' intesa non sembra difficile. Un altro giorno della memoria? Ma non c' è il rischio di una gara a chi ne propone di più? «E' un' obiezione che capisco. Ma qui si tratta davvero di ricordare una storia dimenticata. Circa la data, discuteremo con i colleghi parlamentari e con le associazioni dei giuliano-dalmati». Una pagina di storia occultata dal Partito comunista. Mi sembra che solo Umberto Terracini provò a parlarne ma fu messo subito a tacere. «Il Pci ha concorso in modo determinante a sconfiggere il nazifascismo e a costruire la democrazia; ma ha sicuramente le sue gravi responsabilità. Le responsabilità furono anche dei governi italiani che non ritenevano conveniente attaccare Tito che si era staccato da Stalin. E responsabilità le ha avute anche la destra nell' usare questa tragedia contro la Liberazione e la rinascita della democrazia in Italia». Una "conventio ad excludendum" nei confronti dei profughi istriani? «Una conventio ad obliandum». E perché ritiene che ora ci siano le condizioni per scacciare l' oblio? «Perché è giusto e perché va superato il problema della divisività italiana». Che cos' è la divisività? «E' l' Italia sempre divisa in due nazioni. Guelfi e Ghibellini, Nord e Sud, clericali e laici, comunisti e anticomunisti. Il conflitto è il sale della democrazia. Ma da noi sembra trascinarsi una continua guerra civile, sotterranea, ma pronta ad esplodere nei momenti di crisi politica. E non è così nemmeno in Spagna, dove ogni famiglia ha un parente morto dall' una o dall' altra parte della barricata. Perché solo da noi non è possibile ricordare senza creare nuove divisioni? Spero che il riconoscimento di Fini sul fascismo come male assoluto aiuti in questo senso». Ma la divisività, per usare la sua espressione, è stata brandita come un' arma proprio dal partito comunista. Voi con la verità in tasca e gli altri sempre dalla parte del torto... «L' hanno brandita tutti; e qualcuno la brandisce ancora oggi». Eppure nel caso dei profughi istriani le vittime sono solo loro. Furono insultati, boicottati, isolati perché non erano voluti restare nelle terre del comunismo realizzato. Durante l' esodo, nei porti e nelle stazioni, ci fu chi si rifiutò di dargli cibo e e acqua. «Furono considerati traditori, ma erano italiani che volevano restare tali. Ma la propaganda dell' estrema destra che usò la tragedia giuliano-dalmata per delegittimare la neonata Repubblica non agevolò quegli esuli in patria. L'Italia fu costretta a firmare il trattato a causa della guerra e delle devastazioni che aveva provocato il fascismo. Nel 1920, a Pola, Mussolini aveva affermato che "di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara... io credo che si possono più facilmente sacrificare 500 mila slavi barbari a 50 mila italiani"». Anche lei è uno di quelli che spiegano la mattanza delle foibe, le cavità carsiche dove i titini gettarono migliaia di italiani, come la reazione ai crimini dei fascisti e dei nazisti in terra slava? «Respingo il bilanciamento tra orrori. Finché io cito la risiera di San Saba e gli altri replicano con le foibe ci chiudiamo in una gabbia. Abbiamo il dovere della storia e dobbiamo costruire un Paese moderno e normale». E non sarebbe allora più giusto dire una volta per tutte che 350 mila italiani fecero bene a scegliere la democrazia invece del socialismo? E che i democristiani erano infinitamente meglio di Tito? «Era la democrazia italiana infinitamente meglio. Lo disse già Enrico Berlinguer quando affermò di sentirsi più sicuro sotto la Nato. Intendiamo togliere questa storia dalla sua marginalità per farla entrare pienamente nella storia della Repubblica. E penso che sia giusto dedicare una strada alle vittime delle foibe». Senta, lei sta facendo un tentativo di riconciliazione come quando invitò a capire le ragioni dei repubblichini? «La repubblica di Salò fu una terribile vicenda di asservimento italiano al nazismo. Il giudizio storico su quella tragedia è netto. Chiesi di capire, senza revisionismi e parificazioni, perché, quando tutto era perduto, migliaia di ragazzi e di ragazze si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà. Ho negli occhi l' immagine di due adolescenti della RSI che fanno la guardia ad un vagone piombato diretto ad un campo di concentramento. Perché stavano lì? E perché dopo, con il terrorismo, altri giovani hanno scelto la violenza? Del tutto diverso il caso dei profughi istriani». Quando lei parlò con comprensione dei volontari di Salò, i maligni dissero che voleva accattivarsi la simpatia della destra per un' eventuale candidatura al Quirinale. Questa volta che c' è dietro? «Non ne parlai con comprensione. E comunque chi pensa che la contrattazione sia l' unico metro della vita non comprende il senso delle battaglie politiche e ideali». Marco Cianca Il trattato di Parigi e l' esodo dei profughi.

LA CESSIONE DI ISTRIA E DALMAZIA - Il 10 febbraio 1947 l' Italia firma il trattato di pace di Parigi che assegna alla Jugoslavia di Tito l' intera Istria, la parte rimasta italiana della Dalmazia, Fiume e l' Alto Isonzo 

MIGLIAIA IN FUGA - Dopo la firma del trattato - ma già dal 1943 erano iniziate le epurazioni dei titini - centinaia di migliaia di italiani furono costretti a fuggire e a cercare riparo in Italia

Dal Corriere della sera, 29 gennaio 2004

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