Corriere della sera

  Lettera da un Paese prigioniero del passato

L' 8 settembre, la Resistenza, le foibe: perché da noi la parola «revisionista» è ancora un insulto. Il «caso italiano» spiegato ai tedeschi: una denuncia dell' intreccio fra storia e politica, unico in tutta l' Europa occidentale

Galli Della Loggia Ernesto  

L' articolo di Ernesto Galli della Loggia che appare in questa pagina, già destinato ai lettori tedeschi, è stato pubblicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung con il titolo «Prigioniera del passato, l' Italia discute i crimini dei partigiani comunisti». I riferimenti alla discussione storiografica, e al costume politico italiano a essa intrecciato, hanno anche lo scopo di rendere comprensibile la questione nazionale italiana a un pubblico, come quello di lingua tedesca, interessato principalmente ai termini generali del problema. L' uscita nell' autunno del 2003 del libro di Giampaolo Pansa, «Il sangue dei vinti», sta avendo in Italia più o meno lo stesso significato che ebbe in Germania tempo fa la pubblicazione de «Il passo del gambero» di Günter Grass. Per la prima volta, grazie ad un autore di sinistra che fa suo un tema per così dire «di destra», un gigantesco nodo di emozioni e di valutazioni critiche legate alle vicende della Seconda guerra mondiale - e di cui tutto il Paese aveva conservato memoria, ma sul quale finora era stato considerato politicamente corretto sorvolare - per la prima volta un tale grumo di ricordi è stato portato clamorosamente alla luce come memoria colpevolmente rimossa. E così ha potuto diventare finalmente oggetto del più ampio e accettato discorso pubblico. Il libro di Pansa ricostruisce, in uno stile asciutto e fattuale, le uccisioni su vasta scala (si parla di ventimila morti) compiute da partigiani appartenenti perlopiù alle formazioni comuniste ai danni di «fascisti», nei giorni e nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra. Si trattò di eliminazioni decise non solo quasi sempre al di fuori di qualsiasi procedura legale (fosse pure quella assai lasca dei tribunali di guerra), ma che assai spesso colpirono responsabilità insignificanti, parecchie volte degli innocenti, e in più di un caso si rivolsero addirittura contro membri non comunisti della Resistenza. Fino al punto da far concludere all' autore che tali eliminazioni dimostrerebbero la volontà da parte di almeno un' ala del partito comunista di trasformare, dopo l' aprile del ' 45, la guerra contro i fascisti di Salò in una nuova guerra rivoluzionaria contro la borghesia italiana. Ma nel clima del durissimo scontro politico dell' Italia di oggi anche il libro di Pansa (che è un noto giornalista con una lunghissima militanza di sinistra) è stato messo sotto accusa, non ultimo, forse, proprio a causa del suo straordinario successo (trecentomila copie vendute finora). Una parte importante dell' opinione pubblica e della cultura della stessa sinistra, infatti, lo ha giudicato come l' ennesima e più pericolosa (perché proveniente dalle sue stesse fila) manifestazione del «revisionismo», cioè, come essa dice, del tentativo della destra di «riscrivere la storia», approfittando del fatto di essere al governo del Paese e di godere di uno spazio mai avuto prima nell' editoria e nel sistema dei media. «Revisionismo» è il termine carico di significato spregiativo (talora, come ha fatto un recente articolo del quotidiano dei Diesse l' Unità contro il presidente del Senato Marcello Pera, viene usato persino il termine «negazionismo» ricalcato sulle posizioni di chi, come Irving e Faurisson nega la realtà storica della Shoah) usato da sinistra per gettare discredito su quella storiografia italiana (ma non solo: anche Ernst Nolte e François Furet sono da sempre nel mirino) che proseguendo lungo la via aperta dal grande storico Renzo De Felice, autore di una monumentale biografia di Mussolini, cerca, da almeno un decennio, di gettare nuova luce e di fornire una nuova interpretazione specialmente del nodo di eventi fascismo-comunismo-Resistenza che ha al suo centro il periodo 1943-45. Questa nuova storiografia si muove lungo due direttrici principali. Da un lato essa mira a riempire le pagine lasciate in bianco dalla vulgata storiografica precedente. Il caso più clamoroso di tali pagine bianche è la vicenda delle «foibe», le cavità naturali dell' Istria e della Venezia Giulia dove i partigiani slavi di Tito, desiderosi di annettere quei territori che nel ' 43-45 avevano occupato militarmente, gettarono i cadaveri di alcune migliaia di italiani, fascisti e non, da essi eliminati in un agghiacciante tentativo di «pulizia etnica»: una vicenda di cui per decenni non si è fatto il minimo cenno in alcun manuale scolastico italiano. Dall' altro lato essa ha cominciato a leggere in modo problematico le molte pagine della storia scritte finora con l' inchiostro rosa, al fine di far tornare conti che invece non tornano: per esempio il consenso di massa di cui il fascismo effettivamente godette, contraddittorio rispetto all' immagine artificiale costruita dopo il ' 45 di un' Italia reale massicciamente antifascista da sempre. Sono tutti temi intorno ai quali ogni volta si accendono furiose discussioni pubbliche che immediatamente coinvolgono i partiti e gli uomini politici, diventando oggetto dello scontro politico vero e proprio. È questa una caratteristica assolutamente peculiare dell' Italia di oggi, rispetto a qualunque altro Paese perlomeno dell' Europa occidentale: l' intreccio strettissimo che si è stabilito tra storia e politica, in particolare l' immediato rilievo politico che assume ogni discussione storica del ventesimo secolo. È proprio a causa di questo intreccio, peraltro, che si rivela così difficile per l' Italia repubblicana la costruzione di una memoria condivisa, cioè dell' immagine di un passato nazionale nel quale la stragrande maggioranza possa riconoscersi. In realtà, alle spalle dell' uso politico della storia, che è tipico della scena italiana, c' è un fondamentale problema di legittimazione, ed è questo il problema che realmente muove le discussioni sul «revisionismo». In certo senso si tratta di un dato che fa parte del Dna dello Stato italiano. La storia, una legittimazione ideologica fondata sulla storia, un forte richiamo al passato e alle sue glorie, sono state, infatti, alla base stessa del Risorgimento come di tutti i nazionalismi di ieri e di oggi. Solo che nella penisola il richiamo alle ragioni della storia ha avuto fin dall' inizio un carattere profondamente divisivo: in quanto esso era oggettivamente rivolto, oltre che contro gli stranieri, anche contro quella parte del Paese - i cattolici - che in nome della fedeltà alla Santa Sede e in nome di un' altra storia si opponevano all' unità della nazione auspicata dai liberali di Cavour e dai democratici di Garibaldi e Mazzini. Fin dall' inizio, dunque, in Italia la storia è servita come strumento di legittimazione di un determinato assetto politico, specialmente attraverso la delegittimazione di coloro che vi si opponevano: era innanzi tutto il passato di questi ultimi che li rendeva incompatibili con qualsiasi ruolo politico di governo nel presente. Si può dire che questo modello di legittimazione/delegittimazione politica, fondato su un' interpretazione pesantemente divisiva del passato storico nazionale, rappresenti il filo rosso dell' intera vicenda italiana del Novecento. È in buona parte a esso che va fatta risalire la responsabilità del fatto che fino a tempi recenti in Italia, anche durante i periodi di regime parlamentare (dal 1860 al 1914 e dal 1945 in poi) non vi è mai stata una vera alternanza al potere di schieramenti contrapposti. In realtà, quello che oggi è in atto in Italia, e che causa tutte le polemiche sul passato e sul «revisionismo», è per l' appunto uno scontro che nasce dalla volontà di alcune forze politiche di non rinunciare ai vantaggi che vengono a esse, in termini di legittimazione, da una particolare lettura della storia del Paese. Queste forze sono quelle del centro-sinistra che oggi hanno il loro nucleo aggregatore nel partito postcomunista dei Democratici di sinistra; e la lettura della storia di cui si tratta è quella che attribuisce all' antifascismo del partito comunista, al suo ruolo nella Resistenza e nella stesura della Costituzione del 1948, il valore di un suo accreditamento sostanziale come partito democratico e nazionale. La medesima lettura tende all'opposto ad affermare il carattere compiutamente totalitario e razzista del fascismo, a considerarlo come il frutto inevitabile della «autobiografia della nazione», dunque a pensare sempre possibile per l' Italia una sua minacciosa rinascita, sia pure in forme nuove. È la medesima lettura, infine, che, per venire a questioni un po' diverse ma collegate, tende a vedere nel rovinoso armistizio dell' 8 settembre 1943 non già il momento di massima crisi dell' idea di nazione (o, come figurativamente si è anche detto, di «morte della patria») destinato a proiettarsi sull' intero cinquantennio successivo della vita pubblica del Paese - bensì l' inizio, proprio l' 8 settembre, della rinascita dell' idea di nazione in quanto inizio della Resistenza. In generale, ciò che si vuol mantenere assolutamente ferma è l' equivalenza storica (e di principio) antifascismo/democrazia, a dispetto dell' inoppugnabile verità che di certo non tutti gli antifascisti erano dei democratici. Solo mantenendo ferma quell' equivalenza, infatti, la tradizione comunista italiana impersonata da un leader come Togliatti può essere definita come democratica, e rivendicare una piena legittimazione politica ab origine entro un sistema costituzionale. Altrimenti, essa, i suoi eredi attuali nonché tutta la vasta parte di società italiana che da decenni va facendo a quella tradizione le più ampie aperture di credito, sarebbero tutti costretti ad imbarazzanti esami di coscienza. Quegli stessi esami di coscienza (con relativa autocritica) che viceversa è stato costretto a fare poche settimane fa a Gerusalemme Gianfranco Fini, a lungo leader di un partito che si richiamava in qualche modo all' eredità fascista, ma che alla fine ha capito come essa fosse incompatibile con la democrazia. Una destra profondamente influenzata dal passato fascista, e una sinistra profondamente influenzata dal comunismo: l' Italia ha avuto nel novecento la sorte singolarissima di essere stata un fertile terreno di coltura prima del totalitarismo di destra, e poi di quello di sinistra. Ai quali - particolare importantissimo - hanno aderito con convinzione, per mezzo secolo, quasi tutte le principali figure intellettuali del Paese. Questa ingombrante eredità ha modellato e condizionato fino al 1994 anche il sistema politico della Repubblica democratica, e continua a farlo anche oggi attraverso la presenza dei postfascisti e dei postcomunisti. Ma una democrazia con troppi post è, come si capisce, una democrazia i cui conti con il passato si rivelano inevitabilmente difficili. La storia è diventata così una sorta di ombra di Banquo della scena pubblica, e in particolare della scena politica del Paese: destinata periodicamente a ripresentarsi (e a essere usata) come un memento minaccioso o a essere rimossa e addomesticata. Il passato italiano non passa, non può passare, perché in realtà esso è ancora una parte nascosta ma ben viva del presente.

Dal Corriere della sera, 24 gennaio 2004

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