Corriere della sera

  Giorno della memoria 

Il presidente delle comunità ebraiche: «Dimenticato il giorno della memoria»

Discussioni - Amos Luzzatto al ministro dell’Istruzione e ai rappresentanti delle Camere: un anno dopo la legge, iniziative insufficienti per il 27 gennaio

di Paolo Conti

«Non  intendo esprimere giudizi aggressivi. Ma credo che gli attuali governi abbiano sottovalutato la legge.  Forse non hanno capito che riguarda loro stessi, cioè lo Stato, e non le Comunità ebraiche che possono essere coinvolte per offrire testimonianze ma non devono certo “organizzare”. Altrimenti a che serve una legge?» Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è molto amareggiato anche se la sua non è una polemica infuocata. Ecco il nodo: domenica 27 gennaio sarà il secondo «Giorno della memoria», istituito dalla legge 211 del 20 luglio 2000. Gli articoli sono solo due e molto semplici. La legge nasce per «ricordare la Shoah, cioè lo sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte». Per questo si organizzano «cerimonia, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole». L’anno scorso ci furono molti seminari nelle medie inferiori e superiori, nelle università («io stesso ne ho presieduti tanti a Milano, Roma, Venezia, Avezzano, Verona … i ragazzi hanno mostrato una gran voglia di sapere»). L’allora presidente della Camera, Luciano Violante, presenziò a una giornata ad Agrigento con i ragazzi delle scuole. L’ex presidente del Senato Nicola Mancino commemorò Giovanni Palatucci, il questore di Fiume che finì a Dachau dopo aver salvato centinaia di ebrei dalla deportazione. E quest’anno? Risponde Luzzatto: «Siamo a pochi giorni dal 27 e non ha ancora avuto alcun segnale né della presidenza del Senato né da quella della Camera». E la Pubblica Istruzione? «Ho chiesto più volte un appuntamento al ministro Letizia Moratti. Mi ha fatto sapere di essere molto occupata e mi ha indirizzato al sottosegretario Valentina Aprea. A sua volta il sottosegretario è rimasto a lungo silente. Ho solo ricevuto una telefonata che annunciava lo slittamento di un appuntamento di cui non avevo mai saputo nulla… Ma l’essenziale è che ora non ci sono iniziative nelle scuole. Lo so, c’è l’autonomia scolastica ma certi appuntamenti, lo spiega la legge, vanno incoraggiati con adeguati indirizzi. Ormai siamo troppo in ritardo per dar vita a un buon calendario». L’unica manifestazione istituzionale di cui Luzzatto si dice al corrente è quella al museo della Liberazione in via Tasso a Roma che dovrebbe essere presieduta da Carlo Azeglio Ciampi: «Mi sono già scusato, credo che il mio posto quel giorno sia alla Risiera di San Sabba». Per quale valutazione? «C’è un problema, spero in via di risoluzione, con l’assessore alla Cultura di Trieste che per statuto è presidente del museo della Risiera. Si è distinto in atteggiamenti non molto limpidi nei confronti delle minoranze, non parlo degli ebrei ma degli sloveni sì. Credo che la mia presenza sia ben più necessaria lì, il 27 gennaio». Sono comunque numerose le iniziative organizzate da diverse istituzioni locali. A Milano, Palazzo Reale, l’Associazione Figli della Shoah organizza dal 24 gennaio col Comune la mostra «Dalle leggi antiebraiche alla rinascita». A Roma il 28 gennaio convegno su «Deportazioni e Shoah tra storiografia e coscienza civile» nella sede dell’Enciclopedia Italia. Ancora a Milano, per mercoledì 23 alle 20,30 alla Società umanitaria in via Daverio 7 convegno sulle conclusioni della Commissione di indagine sulla spoliazione dei beni degli ebrei italiani, cioè la Commissione Anselmi.

Dal Corriere della sera, 10 gennaio 2002


WIESEL «Io ricordo ma non per odiare»

Intervista al Nobel per la Pace che paragona l’11 settembre ad Auschwitz e Hiroshima. Il 27 gennaio, Giornata della memoria, andrà in scena il suo testo più famoso: «La notte». «Non si può concepire il Lager con Dio, né senza Dio. In Bosnia si uccidevano per fatti avvenuti 200 anni prima»

di Marc Fleishhacker e Gianluca Guidotti

In Il male e l’esilio lei ha detto: «Auschwitz è la fine, Hiroshima l’inizio … ma rischiamo di avere altre Hiroshima». Dove, in questo percorso di tragedia, dovremmo collocare l’11 settembre 2001?

«Probabilmente l’11 settembre va collocato nel mezzo; e se non stiamo attenti, se dimentichiamo troppo presto, allora un’altra Hiroshima è possibile, non un altro Auschwitz, ma un’altra Hiroshima sì. Forse c’era così tanto odio in quegli anni, in quei tempi, in quegli eventi che si ha ancora un fall-out. Così come parliamo di precipitazione radioattiva possiamo parlare di precipitazione di odio. E cinquant’anni dopo siamo testimoni di questa precipitazione  e questo fall-out, queste ceneri d’odio ancora brucianti, sono sparse di fanatici che credono di avere Dio dalla loro parte. E credono che Dio sia diventato un loro complice, un complice di assassinio e assassino. Come possono coinvolgere Dio in un assassinio? «Ma l’11 settembre è una data importante perché migliaia di persone sono state uccise soltanto perché si trovavano là. Ebrei, cristiani, musulmani, giovani, vecchi, ricchi e poveri, uomini e donne. Erano là e per questo sono morti. E io credo che tutto il mondo civile debba mobilitarsi con tutti gli sforzi possibili e tutte le energie per combattere il terrorismo. Il terrorismo ora è il nemico. Il nemico dell’umanità».

Nel romanzo L’oblio lei parla del morbo di Alzheimer. La paura della perdita della memoria attraversa gran parte delle sue opere. Questa terribile malattia sembra una metafora dei nostri tempi in cui troppo spesso odio e violenza vincono. Come può l’uomo, dopo l’Evento, continuare a ripetere gli errori e le atrocità del passato?

«Che ne è dell’umanità che non impara dal passato? Vorrei saperlo. La questione è che la natura umana non può essere cambiata così rapidamente. Probabilmente non nell’arco di una sola generazione, e nemmeno in un secolo. Perciò siamo sedotti dal male, siamo tentati da ciò che è impuro. E quando quella tentazione prende il potere allora siamo in pericolo.La minaccia per questa generazione, questo secolo, i giovani d’oggi, i bambini, è il fanatismo, l’odio, l’odio razziale, l’odio religioso, l’odio etnico, l’odio culturale. E l’odio è come il cancro, quando c’è è difficile fermarlo perché contagia da cellula a cellula, da arto ad arto, da persona a persona fino alla morte. Sì, oggi abbiamo dei nemici che credono che il loro essere uomini consista nel potere di uccidere. Devono essere fermati, una volta ancora».

In L’ebreo errante lei ha scritto: «Ad Auschwitz è morto non solo l’uomo, ma anche l’idea dell’uomo». Dopo essere passato attraverso «il male assoluto», ha ancora fiducia nell’uomo? Nel Bene?

«Non si può concepire Auschwitz con Dio, né senza Dio. E quindi ci troviamo davanti a un dilemma. Che fare allora? Continuiamo a farci questa domanda e rispondiamo che non si può concepire Auschwitz avendo fiducia nell’uomo e neppure senza. Dov’era l’umanità in quegli anni?  Ē  troppo facile dire che tutto è Dio. E gli uomini? Auschwitz non è sceso dal cielo. Ē  stato concepito dall’uomo, edificato dall’uomo, reso efficiente dall’uomo. Ē stato frutto dell’uomo. Spesso di uomini intelligenti: alcuni anche colti e ben educati. Allora perché educare? Io sono un educatore. Perché credere nella cultura? Io sono uno scrittore. «Non ho una vera risposta. Tutto quello che posso dire è: qual è l’alternativa? Andare contro l’umanità? Non posso farlo, tradirei me stesso. Allora lavoriamo, e cerchiamo di dare un significato alle cose che ancora non ne hanno. Ma facciamolo sempre per l’umanità, non contro».

In questi anni l’Europa ha conosciuto gli orrori della Bosnia e del Kosovo. Che cosa dovremmo insegnare ai nostri figli affinché la fine dei genocidi diventi realtà e non solo un sogno?

«Ho  visitato i Balcani, sono stato là, sono stato a Sarajevo, sono stato in Bosnia durante i massacri. Ricordo che giravo chiedendo alle persone: «Perché fate questo? Perché tutto questo odio?». E là, davanti al mio sconcerto, alla mia paura, al mio disincanto, hanno evocato il potere della memoria. E dicevano: “Che significa? Ma mio nonno è stato ucciso, o umiliato, da suo zio, dal suo prozio, come posso dimenticarlo?” E a causa di fatti successi duecento anni prima, combattevano uno contro l’altro, ammazzandosi reciprocamente. Io credo che la memoria sia un rimedio contro l’odio, ma loro usano la memoria per spargere odio. Ē  un problema di cultura. Penso che adesso la situazione sia migliorata perché alcuni dei politici che hanno commesso i massacri si trovano ora a L’Aia, affronteranno la corte e verranno puniti, spero come meritano. «Le cose si sono calmate. Significa che non succederà più? Siamo ottimisti. Speriamo per tutti i bambini che la smettano con questa assurda pratica con la quale si sono divertiti per generazioni: uccidere. Che c’è di grande nell’uccidere? Non c’è gloria in quel gesto. Non si rendono conto che non esiste gloria nell’uccidere? Gran cosa essere in grado di uccidere uomini, donne e bambini, civili senza difesa! Che c’è di grande in tutto questo? «Spero capiranno».

Dal Corriere della sera, 17 gennaio 2002


  La testimonianza  - Liliana Segre: «Mi portarono ad Auschwitz, avevo tredici anni »

di Pierluigi Panza

«Sono nata nel 1930 a Milano. La mia era una famiglia di ebrei milanesi da generazioni. Abitavamo in corso Magenta. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali in cominciò la persecuzione, e io dovetti lasciare la scuola di via Ruffini. Poi iniziò la caccia all’ebreo. A tutti, anche a mio nonno che era malato terminale di Parkinson». E così, il 7 dicembre del ’43, l’anno in cui Milano festeggiava il patrono piangendo tra le rovine della Scala, una bambina di 13 anni di nome Liliana Segre viaggiava verso Viggiù e la Svizzera per cercare la salvezza. «Vivevo questo viaggio come un’avventura di grande speranza: ero con mio padre e due suoi cugini. Dormimmo la notte in una casa di contrabbandieri. Ma arrivati ad Arzo, nel Canton Ticino, un ufficiale svizzero-tedesco ci respinse, e i finanzieri italiani, in camicia nera, ci arrestarono».

La speranza si rivela un sogno da svegli e inizia la prigionia.

«Finimmo in prigione a Varese, divisi tra maschi e femmine. Poi a Como. Poi a San Vittore, 40 giorni di attesa della deportazione annunciata. Eravamo nel V raggio, quello adibito agli ebrei. Allora il muro di recinzione era più basso e si vedeva piazza Aquileia».

Quaranta dì, quaranta nott …, e poi?

«Il 30 gennaio ’44 lasciammo San Vittore per la Stazione Centrale. Ci caricarono all’alba, nel buio, dai sotterranei. Ci davano calci e pugni per farci salire e i cani latravano. I vagoni venivano sprangati».

Poi, come scriveva Thomas Mann, la partenza che, non meno del ritorno, appariva impossibile al disperato.

«Infatti, non volevo crederci. Il viaggio durò una settimana: prima di partire ci avevano dato un sacchetto con razioni di galletto e latte in polvere. Non c’era da bere e non c’era luce. Durante il viaggio fecero scendere due volte alcuni di noi a prendere dell’acqua».

Cosa accadde all’arrivo?

«Arrivammo ad Auschwitz; appena giù dal treno fui divisa da mio padre. Non lo vidi più. Nella primavera seguente portarono qui anche i miei nonni. Non li vidi più. Io, con altre ragazze, fui scelta per lavorare: su 605 persone solo 31 ragazze e circa 60-70 uomini scamparono al camino lo stesso giorno. Non so perché mi abbiano scelta: ero alta dimostravo più di 13 anni».

Il racconto prosegue in un clima da «Schindler’s list» senza Schindler.

«Prima ci raparono a zero, ci impressero il numero tatuato sul braccio, ci portarono via tutto, ci vestirono a righe. Io lavoravo come operaia in una fabbrica di munizioni, la Union, che in tempo di pace fabbricava macchine. Ho lavorato al coperto, altrimenti non avrei avuto speranza di sopravvivere: ero giunta a pesare 32 chili».

Ricorda la liberazione?

«Il 27 gennaio ’45 i russi entrarono a Auschwitz, ma noi eravamo stati trasportati via. Ci spostavano da un campo all’altro: fu la marcia della morte. Quelli che cadevano a terra venivano uccisi. Dall’ultimo campo noi e i nazisti uscimmo insieme dai cancelli. Poi, lungo la strada, loro si cambiarono gli abiti e si misero in borghese. Di colpo furono loro ad avere paura e fuggirono. Ma ben pochi di loro hanno pagato».

Come fu il ritorno a Milano?

«Gli americani ci avevano raggruppati per nazionalità in alcuni paesi liberati. Ci riprendemmo e dopo quattro mesi presi un convoglio per Milano. All’inizio andai a vedere la mia casa in corso Magenta 55. Le finestre erano chiuse. Per sempre. Ma il portinaio mi disse che i miei nonni paterni si erano salvati nascondendosi in un convento a Roma ed erano venuti a cercarmi. Si era salvato anche un mio zio, che aveva combattuto a Borgosesia con i partigiani. Vissi con gli zii e i nonni. Poi, a 18 anni, ho conosciuto il ragazzo con cui mi sono sposata. Abbiamo festeggiato le nozze d’oro. Abbiamo tre figli e due nipoti».

Cosa racconta loro?

«Hanno una mamma da coccolare. Adesso ho un nipote, Edoardo, di 13 anni, l’età in cui venni deportata. Gioca con la playstation. Mi fa un certo effetto. Davide ne ha 11. Preferisco che siano i miei figli a raccontare. Loro mi chiedono poco, c’è molto pudore».

Ē mai tornata a vedere i campi?

«No, mi sono sempre rifiutata. Perché se tutto fosse uguale a prima non potrei reggere; sapere che tutto è diverso, e che non si può avere un’idea di quell’orrore, mi ferisce. Ho l’impressione che tra poco non ci sarà più niente, le poche vestigia de campi cadono a pezzi. Qualcuno vuol fare un supermercato vicino. Io incontro ogni anno migliaia di scolari; ma ho visto in tv dei ragazzi che saltavano e mangiavano gelati dentro Buchenwald. Io dico: si portino a visitare i campi solo ragazzi preparati»

Dal Corriere della sera, 25 gennaio 2002


  L’intervista - Rumi: «I cattolici antisemiti? No, ma il caso Israele è un’altra cosa . Le leggi razziali fecero diventare antirazzista l'uomo della strada»

di Paolo Conti

«Cattolici italiani antisemiti oggi? Direi proprio di no. L’Olocausto ha creato una contraddizione insanabile tra l’essere cristiani e ogni atteggiamento antisemita. Il combinato disposto tra ciò che è accaduto e la lezione del Concilio Vaticano II lo rende impensabile anche a livello colloquiale», dice Giorgio Rumi, storico cattolico, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano.

Invece Amos Luzzatto parla di persistente antisemitismo degli ambienti cattolici rimasti impermeabili proprio agli insegnamenti del Concilio.

«Bisognerebbe dimostrarlo …. Lui avrà le sue ragioni per affermarlo. Io vivo in un ambiente universitario e non ricordo riserve, eccezioni contro il popolo, la tradizione, la religione ebraici. Altra cosa è la questione Israele. Lì c’è una distinzione: una parte di cattolici dimostra maggiore sensibilità per la necessità dell’esistenza dello Stato d’Israele, altri pongono il problema dei palestinesi. Ma l’antisemitismo non c’entra più».

Qual è il nodo storico dell’antisemitismo italiano?

«A livello europeo la presenza di un popolo che manteneva lingua e tradizioni “diverse”: atteggiamento incomprensibile per popolazioni latine o germaniche che, fatta eccezione per alcuni grandi porti, erano sostanzialmente omogenee. E la vicenda del “diverso” attraversò l’Europa in molte direzioni».

Che cosa intende?

«Dico che nell’800 non era facile essere cattolici in Svezia, protestanti in Spagna. E se è vero che alla fine del ‘700 il popolo di Mantova si ribella all’apertura del ghetto ebraico, è vero anche che il popolaccio di Londra si solleva in quegli anni contro una legge di tolleranza a favore dei cattolici. Sia ben chiaro: non propongo certo l’assoluzione di storici errori sugli ebrei che nel XX secolo diventano tragedia. Dico che bisognerebbe fare una “eziologia” sul concetto del diverso, uno studio sulle radici della malattia».

Torniamo al caso italiano

«Nell’Italia moderna è possibile individuare un momento ben preciso: la fine di quelle che Carlo Cattaneo chiamava le interdizioni israelitiche, i vincoli che facevano dell’ebreo un suddito diverso. Tra la fine dell’800 e fino alla prima Guerra mondiale ci fu una certa discriminazione con grossolani elementi antisemitici tra i cattolici. L’abolizione delle interdizioni trovò impreparata la parte più rozza della popolazione che aveva un senso rudimentale della cittadinanza. Aggiungiamo che nelle comunità ebraiche era marcata la simpatia per la sinistra risorgimentale. Prima di allora no: nel 1848, quando si stese lo Statuto rimasto in vigore fino al 1948, non ci furono obiezioni anti-ebraiche».

Impossibile non parlare dell’infamia delle leggi razziali del ’38 e dell’accoglienza delle tragiche discriminazioni tra i cattolici.

«Bisogna distinguere tra il prima e il dopo. “Prima” c’era indubbiamente diffidenza. Il “dopo” fu altra cosa. Il razzismo fascista, curiosamente, riuscì a far diventare antirazzista il piccolo uomo della strada. Vorrei ricordare la famosa omelia del cardinale di Milano Ildefonso Schuster che proprio nel ’38 parlò di “eresia anti-romana”: Roma era madre dei popoli e l’applicazione delle “barbare leggi” razziste erano secondo lui  “un’eresia anti-romana”, quindi riteneva il Concordato “vaporizzato”».

Ma nel ’43 padre Tacchi Venturi, anima di Civiltà Cattolica, dopo la caduta del fascismo scrive a Badoglio e non chiede l’abolizione delle leggi razziali ma solo la modifica.

«Frutto di arretratezza culturale, del sentirsi uomo dell’800. Bisognerebbe invece pensare al contributo assicurato da tanti sacerdoti nell’Italia del Nord durante la Repubblica sociale».

A cosa si riferisce in particolare?

«Ai rapporti della Guardia nazionale repubblicana che parlavano dei parroci del Nord come parte di una rete di assistenza agli ebrei e di simpatia per la Resistenza».

La Resistenza ha dunque contribuito a battere l’antisemitismo?

«La Resistenza attiva, quella in montagna, ma anche l’altra fatta di amicizie e di simpatie (cioè l’acqua rispetto al pesce, per citare esempi maoisti): sostegni umani prima ancora che coscientemente politici, come quelli dei parroci. L’antisemitismo tedesco e poi fascista ha suscitato un vento liberatorio da vecchi atteggiamenti».


  Domande e Risposte  

di Paolo Valentino

Il Bilancio

Quanti morti?

Dei sei milioni di ebrei assassinati, il triste primato spetta alla Polonia, con tre milioni di vittime (il 90,9% della popolazione ebraica), seguita dall’Unione Sovietica (34,4%). Gli ebrei greci uccisi furono 67.000 (86,6%). Gli italiani 7.680 (17,3%).

La definizione

Chi era un ebreo?

Il 14 novembre 1935 i nazisti definirono «ebreo» chiunque, con tre o quattro nonni ebrei, appartenesse alla Comunità ebraica al 15 settembre 1935, o vi si fosse iscritto dopo; chiunque fosse spossato con un ebreo al 15 settembre 1935 o dopo questa data; chiunque discendesse da un matrimonio o da una relazione extraconiugale con un ebreo al o dopo il 15 settembre 1935.

I campi

 Quale fu il primo?

Il primo campo di concentramento, Dachau, in Germania, fu aperto il 22 marzo 1933. I primi reclusi furono prigionieri politici, criminali abituali, omosessuali, testimoni di Geova, mendicanti, vagabondi e venditori ambulanti.

Fuggiaschi

Chi si salvò

Dal 1933 al ’39, 355.278 ebrei tedeschi e austriaci abbandonarono le loro case. Nello stesso periodo, 80.860 ebrei polacchi immigrarono in Palestina e 51.747 ebrei europei si rifugiarono in Argentina, Brasile e Uruguay. Negli anni 1938-1939, circa 35.000 ebrei emigrarono dalla Boemia e Moravia (Cecoslovacchia). Shanghai accolse circa 20.000 ebrei europei.

Giustizia

 Ci furono processi?

Il termine «Processo di Norimberga» si riferisce all’insieme dei processi dei criminali di guerra nazisti che si svolsero alla fine della guerra. I primi processi si svolsero tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946, di fronte al Tribunale militare internazionale. La seconda fase del processo, conosciuta come i Processi dopo Norimberga, si svolse dinanzi al Tribunale Militare di Norimberga.

  Lo sterminio  

Una data simbolica

Il «Giorno della memoria» è stato istituito per legge dal Parlamento italiano nel luglio del 2000. Ē stato scelto il 27 gennaio perché in quel giorno, nel 1945, fu liberato il campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

27 Gennaio 1945

Sono soldati dell’Armata rossa i primi ad entrare nel campo di Auschwitz- Birkenau; i militari si trovano di fronte a quattro edifici rasi al suolo dai nazisti in fuga, a mucchi di cadaveri e a uomini scheletrici che vagano per il campo.

Olocausto e Shoah

Il termine Olocausto, che designa il sacrificio di Isacco, fu introdotto da Elie Wiesel per definire lo sterminio degli ebrei. A molti, tra i quali Primo Levi, il termine non piace e gli viene preferito Shoah (in ebraico, distruzione).

La soluzione finale

Il termine «Soluzione finale si riferisce al piano di sterminio del popolo ebraico e fu usato alla Conferenza di Wansee del 20 gennaio 1942. Si calcola che furono uccisi sei milioni di ebrei e cinque milioni di altri civili, tra i quali zingari e omosessuali».

  I LAGER  

Ecco come funzionava uno dei campi di sterminio organizzati dai nazisti

Auschwitz

Il campo di concentramento di Auschwitz (vicino a Oswiecim, nell'Alta Slesia, in Polonia) fu aperto il 27 aprile del '40 su ordine del comandante delle SS Heinrich Himmler. Vi furono sterminati circa quattro milioni di persone.

Birkenau

È il secondo campo di Auschwitz, destinato alla «Soluzione finale», ovvero allo sterminio degli ebrei. Qui nel luglio del '42 furono costruiti quattro forni crematori: contenevano le camere a gas e le fornaci per cremare i cadaveri.

Le camere a gas

Le vittime, aiutate a spogliarsi dagli uomini del Sonderkommando (prigionieri), venivano condotte nelle «docce»: in realtà erano camere a gas. Dopo l'immissione dello Zyklon-B, i detenuti morivano in dieci minuti.

I forni crematori

Gli uomini del Sonderkommando - dopo aver estratto protesi, denti d'oro e gioielli - mettevano i corpi, a gruppi di 15 - 20, sui montacarichi che conducevano ai crematori. Il tempo di incenerimento di un cadavere era di circa trenta minuti.

  Ebrei uccisi per nazione  

(percentuale della popolazione ebraica eliminata)

Austria

 50.000 

 27,0%

Italia

7.680

17,3%

Belgio

28.900

44,0%

Lettonia

71.500

78,1%

Boemia

78.150 

85,1%

Lituania

143.000 

85,1%

Lussemburgo

1.950

55,7%

Danimarca

60

0,7%

Paesi Bassi

100.0007

1,4%

Estonia

2.000

44,8%

Finlandia

7

0,3%

Polonia

3.000.000

90,9%

Francia

77.320

22,1%

Romania

287.000

47,1%

Germania

141.000

25,0%

Slovacchia

71.000

79,8%

Grecia

67.000

86,6%

Unione Sovietica

1.100.000

36,4%

Ungheria

569.000

69,0%

Yugoslavia

63.300

81,2%


«Così spiegai a mia figlia l’orrore dell’Olocausto»

di Erica Jong *

La prima volta che venni in Europa ero una ragazza che stava per diventare donna. Per mia madre, nata a Londra da genitori ebreo-russi, era importante portare le tre figlie newyorchesi in visita al vecchio mattatoio europeo. Io avevo 13 anni, le mie due sorelle 8 e quasi 18. Cominciammo col trascorrere una mese a Londra, che ricordo come il posto più spaventoso che avessi mai visto. Ovunque andassimo c’erano asce e ceppi dove tanti condannati avevano appoggiato i loro colli, strumenti di tortura: vergini di ferro, pinze per strappare le unghie. La Torre di Londra avrà anche custodito i Gioielli della Corona d’Inghilterra, ma quello che ricordo erano le asce e i ceppi. Si diceva che Anna Bolena vagasse per la Torre con la prima testa sottobraccio. La National Gallery, poi, era piena di quadri raffiguranti i torturatori e le loro vittime. Madame Tussaud’s era uno spettacolo orrifico di cera dedicato alla storia inglese. Apprendemmo che il London Bridge veniva usato per mostrare le teste dei traditori issate su picche. A Tyburn Tree i prigionieri venivano giustiziati mentre la folla assisteva allo spettacolo mangiando pasticci di carne e arance. L’Europa mi sembrava un bagno di sangue in confronto alla mia New York, casa dolce casa. (Nei tranquilli giorni della mia adolescenza nessuno ci aveva mai detto come i coloni d’America olandesi, francesi e inglesi avessero sterminato gli indiani). E cos’era questa strana voce di milioni e milioni di ebrei massacrati in Germania e Polonia solo una manciata di anni fa? «Davvero la gente ha fatto queste cose ?» chiesi a mia madre. «Solo tanto tempo fa. Al giorno d’oggi siamo molto più gentili e civili», mi rispose. Era l’estate del 1955. L’Olocausto era terminato da appena un decennio e mia madre lo sapeva bene. La sua placida risposta era solo il tentativo di confortare un’adolescente sensibile. Un salto avanti, 1994. Mia figlia Molly ha 16 anni e per la prima volta stiamo facendo un viaggio insieme in Germania. Sto per girare un documentario tv su Heidelberg, dove ho passato tre anni quand’ero poco più che ventenne. Molly non chiede se i tedeschi abbiano ucciso gli ebrei. Lo sa. Ha letto il  «Diario» di Anna Frank e diversi libri su Hitler, sul genocidio e sull’antisemitismo. Ha parlato con molti sopravvissuti dell’Olocausto. Ha visto «La lista di Schindler» e «La scelta di Sophie». La storia dell’Olocausto è stata parte della sua vita da quando ha memoria. Ma questo non significa che per lei sia un fatto scontato. Ogni due o tre anni l’orrore la colpisce nuovamente. In quell’occasione la portai a visitare un anfiteatro nazista chiamato Thingstette sulle verdi colline della valle del Neckar, sopra il delizioso affluente del Reno dove si inerpica l’affascinante città di Heidelberg. Costruito dalla gioventù hitleriana nel 1934, questo anfiteatro circondato da maestosi pini fu un affronto alla mia coscienza quando lo vidi per la prima volta negli anni Sessanta. «Cosa facevano qui, mamma?», chiese Molly. «Gridavano “Heil Hitler” e si caricavano per uccidere il maggior numero possibile di ebrei». «Perché ci odiavano?», domandò ancora. «Perché  siamo intelligenti, simpatici e testardi e non molliamo», le dissi. «Oh», fece Molly, che a quei tempi frequentava il liceo. «Come i miei compagni di scuola. I ragazzi più intelligenti sono trattati peggio». Molly lo sapeva. Attraversava un’età in cui la popolarità presso i coetanei era la cosa più importante della vita, e lei era un’outsider. Era simpatica, ironica, arguta, con un senso del mondo e dell’umorismo alla Woody Allen. Molti dei suoi compagni erano intimiditi dalle sue battute. Un anno o due più tardi l’avrebbero ammirata e adorata, ma a 16 anni non se la passava troppo bene. Capì immediatamente che l’antisemitismo era del tutto simile al saltarsi addosso senza alcun motivo tipico degli adolescenti. Ed eccoci arrivato alla Giornata della Memoria dell’Olocausto. Ē il 2002 e sono passati sessant’anni dal più grande pogrom della Storia contro gli ebrei ma ora il nostro modo di vedere le cose è diverso. Abbiamo visto sanguinare il Vietnam, Beirut, Gerusalemme, il Ruanda, la Bosnia, l’Afghanistan, New York e Washington. Sappiamo che siamo capaci di grande generosità, ma che questa qualità si manifesta meno frequentemente della ferocia. Sappiamo che non è necessario essere tedeschi per uccidere gli ebrei. Si può essere palestinesi o svizzeri o di altre nazionalità. Sappiamo che la crudeltà non è una caratteristica tedesca, bensì umana. Sappiamo che i fondamentalisti sono di ogni colore, di ogni gruppo etnico. Sappiamo che uccidere il nostro vicino perché non ci piace la sua religione è l’abitudine più maledetta e più radicata della nostra specie. Siamo più sofisticati ora, e lo sono anche i nostri figli. Sappiamo che probabilmente porteremo il genocidio nello spazio quando, dopo avere depredato il nostro bellissimo pianeta, saremo costretti a trasferirci su Marte o Venere. Ma non sappiamo ancora prevenire il genocidio. E non sappiamo ancora come spiegare ai nostri figli che li abbiamo portati in un mondo dove gli uomini uccidono e torturano i loro simili per il puro gusto animale della carneficina. La ferocia umana spesso non ha altra spiegazione che non sia la sete di sangue. Non sappiamo ancora come spiegare ai nostri figli che nel cuore umano risiedono i più oscuri misteri. Il cuore umano: un luogo in cui la ragione regna di rado. Ai nostri figli non sappiamo ancora come spiegare che moriremo e li abbandoneremo in questa giungla. Forse anche allora non arriveremo a capire perché gli esseri umani siano così irrimediabilmente sanguinari. E forse, purtroppo, non lo capiranno neanche loro.

*Scrittrice a saggista - (Traduzione di Nicoletta Boero)


La polemica - Furio Colombo: «Nelle scuole non basta un minuto di silenzio» . Il direttore dell’ «Unità» è uno dei padri della legge che ha istituito la scadenza

di Enrico Caiano

Milano – Soddisfatto di come l’Italia sta rispondendo alla «sua» Giornata della Memoria?

«Soddisfatto che sia difficile trasformare la Shoah in una celebrazione retorica. Mentre la retorica è possibile nel commemorare le guerre. Shoah invece significa leggi razziali, ricordare se un Paese le ha avute o no. E l’Italia non solo le ha avute, ma ha collaborato con la Germania a imporle in Europa. Col re Savoia unico sovrano europeo a firmarle».

Questa «antiretoricità» cosa comporta?

«Che proprio perché non è facile fare della retorica sul tema, è più facile reagire con la disattenzione».

Furio Colombo, ebreo, deputato ds nella scorsa legislatura e oggi direttore dell’Unità, è uno dei padri di quella legge dell’estate 2000 che ha istituito la Giornata della Memoria.

Da parte di chi si nota disattenzione?

«Al giornale ho ricevuto segnalazioni di Comuni in cui si invita a celebrare oggi l’inizio del Carnevale e a dimenticare che è il giorno della memoria. Penso al sindaco Giuliano Giuliani di San Severo , Foggia, che ha cancellato la ricorrenza sostenendo che “le leggi razziali sono un’invenzione comunista”.  Ē di An».

Accusa il centrodestra anche a livello di potere centrale?

«Il presidente della Camera – e sottolineo della Camera e non anche quello del Senato – si è  comportato davvero come vertice di un’istituzione che rappresenta tutto il Paese. Si vede che da deputato votò quella legge: ha celebrato la giornata in vari modi alla Camera, dalle mostre fotografiche alla prima del film dedicato a Giorgio Perlasca».

E del governo è soddisfatto?

«Non mi spiego il comportamento del ministro dell’Istruzione Letizia Moratti. Perché è una persona intelligente e con un certo senso della vita e delle conseguenze dei propri atti non: si rende conto dell’irrilevanza del minuto di silenzio nelle scuole suggerito a confronto con l’immensa rilevanza dl tema? L’ho sempre immaginata normale e non tormentata da visioni distorte come quelle che segnano la vita di molti membri della Lega. Mi pare difficilmente spiegabile tale grado di insensibilità, specie in una persona che tiene a farsi conoscere come religiosa».

A destra si paragonano Shoah e gulag staliniani, ma anche a sinistra si sente dire che lo sterminio degli indiani d’America fu un massacro come quello degli ebrei…

«Ogni volta che lo sento dire mi rattrista. Ē  confusione culturale. La manifestazione più terribile di mancanza di rispetto verso la Shoah è parlare d’altro. Ē come se a un congresso medico sui tumori si ricordasse che c’è anche la tubercolosi e si moriva di tisi in un altro secolo. Verissimo, ma è un altro discorso».

Non è invece il segnale che anche a sinistra serpeggiano pulsioni antisemite o comunque antisraeliane?

«Un sentimento anti israeliano forte c’è sempre stato a sinistra. Però si tratta di un fenomeno profondamente traversale in Italia. Basta pensare alla visita di Formigoni in Iraq durante la guerra del Golfo: molti filoni cattolici hanno antipatia per Israele. Mentre in quei giorni ricordo posizioni nettissime di Fassino e Veltroni, pacifiste però vicine a Israele».

Tuttavia, come ha notato Paolo Mieli, nessun intellettuale progressista si è mosso per segnalare l’intensificarsi in questi giorni nel mondo arabo dei riferimenti propagandistici ai Protocolli di Sion, quei falsi documenti che parlavano di un progetto israeliano per l’egemonia del mondo …

«Mieli ha ragione. Lo chiamerei però silenzio degli intellettuali punto e basta, non lo limiterei alla sinistra. Lui vede una militanza intellettuale da qualche parte o su qualche tema, negli Usa o in Europa? La realtà è di un grande vuoto, in cui ci si sente a disagio: viviamo un brutto momento di silenzio dell’intelligenza del mondo».

Dal Corriere della sera,  27 gennaio 2002

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