Corriere della sera

Il mistero svelato di Israel Zolli rabbino che volle farsi cattolico

Per la prima volta dagli archivi della comunità ebraica la storia della clamorosa conversione nella Roma del' 45

La preveggenza - Disse che le SS avrebbero colpito il ghetto. Ma non convinse i suoi fedeli a mettersi in salvo

La spiritualità - Era affascinato da Gesù Cristo ed era propenso a sottolineare le somiglianze tra i diversi culti

di Giovanni Belardelli

 

Se avvenisse oggi, in un'epoca di dialogo interreligioso, la conversione di un rabbino al cattolicesimo non farebbe scalpore. Ma oltre sessant'anni fa, nel febbraio 1945, la notizia che Israel Zolli, rabbino capo di una comunità particolarmente segnata dalle persecuzioni naziste come quella romana, si era appena battezzato sollevò discussioni e polemiche destinate a durare decenni, non solo in Italia. Da parte ebraica, Zolli - che aveva esercitato le sue funzioni fino al giorno precedente la conversione - venne considerato un traditore del suo popolo; da parte cattolica, invece, la scelta dell'ex rabbino, che convertendosi aveva assunto il nome di Eugenio per gratitudine verso un pontefice che aveva aiutato gli ebrei, è stata più volte richiamata in relazione alle polemiche sui presunti silenzi di Pio XII di fronte alla Shoah. Ma ora tutta la vicenda può essere finalmente esaminata sotto una nuova luce grazie al libro di un giovane studioso, Gabriele Rigano, basato per la prima volta su una documentazione assai ampia e di straordinario interesse. In particolare, l'aver avuto accesso all'archivio dell'Unione delle comunità ebraiche ha consentito all'autore di inserire la vicenda di Zolli nel quadro delle polemiche accesissime che attraversarono negli anni Trenta l'ebraismo italiano. Quando Zolli, rabbino capo di Trieste, venne chiamato a Roma, nel settembre 1939, la persecuzione antiebraica era già all'opera da alcuni mesi (lo stesso rabbino era stato appena privato della cittadinanza italiana che, nato in Galizia, aveva preso nel 1922). Eppure, in una situazione così grave, la comunità ebraica romana sembrava soprattutto dilaniata dalla lotta tra due correnti, divise perfino sull'atteggiamento da assumere di fronte al regime. Per quanto possa apparire sorprendente, infatti, molti ebrei erano animati da un sentimento patriottico così forte da condurli a difendere (ancora dopo le leggi razziali!) posizioni filofasciste. Aldo Ascoli, presidente della comunità ebraica romana, nel dicembre 1938 rivendicava la necessità di aderire «con vero cuore alla Patria Fascista» e di collaborare lealmente con uno Stato «diventato grande» grazie al Duce. Fu appunto in questo genere di polemiche che si trovò coinvolto suo malgrado il nuovo rabbino Zolli, che tuttavia riuscì a stabilire rapporti almeno formalmente buoni con i nuovi vertici della comunità, a cominciare dal presidente Ugo Foà, che nel 1940 aveva sostituito il filofascista Ascoli, assumendo una posizione più ferma nei confronti del regime. Ma tra il settembre e l'ottobre 1943, nei circa trenta giorni che vanno dall’occupazione tedesca della capitale alla razzia del ghetto, si verifica una crisi decisiva nei rapporti tra il rabbino e la comunità. Zolli ritiene infatti che gli ebrei debbano disperdersi, quasi - diremmo oggi - passare alla clandestinità, poiché prevede (giustamente) che quanto è avvenuto altrove in Europa ai loro danni è destinato a verificarsi presto anche a Roma. La sua stessa origine di ebreo galiziano, che ha conosciuto l'antisemitismo violento dell'Europa orientale, oltre che le notizie ricevute direttamente dalla Germania lo inducono a non farsi illusioni sul comportamento dei nazisti. I vertici della comunità, invece, pensano che sia possibile comportarsi con i tedeschi come si è fatto per cinque anni con il governo fascista, garantendosi una situazione di relativa tranquillità. «Anche le autorità tedesche sono interessate al buon ordine», è la stupefacente opinione di Foà, il quale invita dunque Zolli a non suscitare pericolosi allarmismi. A fine settembre il rabbino prende atto della situazione e decide rendersi irreperibile. In tal modo si salva da una morte quasi certa (di lì a poco, la sua casa sarà la prima ad essere violata dai tedeschi), ma separa anche il proprio destino da quello della comunità ebraica romana. Il 16 ottobre avviene infatti la razzia del ghetto, seguita dalla deportazione ad Auschwitz di oltre mille ebrei (la gran parte dei quali verrà uccisa il giorno stesso dell'arrivo). Era dunque inevitabile che dopo la liberazione di Roma del giugno 44 i rapporti tra Zolli e la comunità fossero tesissimi: il rabbino, accusato di aver abbandonato il suo posto nel momento del pericolo, imputava a sua volta ai capi dell'ebraismo romano di aver obiettivamente favorito, con la loro passività, la razzia tedesca. Senonché, la destituzione di Zolli venne allora bloccata dall'intervento del governo militare alleato, che decapitò i vertici della comunità nella convinzione (errata) che, essendo stati eletti in epoca fascista, fossero compromessi con il regime. Da parte di Zolli, la decisione di convertirsi matura in un clima fattosi per lui sempre più pesante. Per alcuni mesi appare effettivamente indeciso: tenta in ogni modo di non perdere il posto di rabbino, ma inizia anche a valutare la prospettiva di diventare cattolico. Come scrive Rigano, «almeno fino al gennaio 1945», dunque fino alla vigilia della conversione, Zolli «non volle chiudersi nessuna via d'uscita». Sembrerebbe dunque inevitabile concludere che tale conversione fosse dovuta in buona misura a considerazioni pratiche, legate all'ostilità nei suoi confronti diffusa nell'ebraismo romano. E tuttavia dalla ricerca di Rigano emerge che, se un tale scontro fece precipitare la decisione, questa era anche il risultato di una lunga maturazione, a partire dal modo in cui Zolli aveva sempre considerato l'ebraismo e l'esperienza religiosa in generale. Nelle sue memorie, pubblicate negli Stati Uniti nel 1954, Zolli assegnò una funzione essenziale alla visione di Cristo avuta proprio durante la celebrazione dello Yom Kippur, nel settembre 1944. Tuttavia l'episodio, pur continuamente citato dalla letteratura di parte cattolica, andrebbe considerato, secondo Rigano, come frutto di una successiva reinterpretazione personale: non a caso compare nella traduzione inglese, mentre è assente nella versione originale delle memorie, scritta in italiano e rimasta inedita fino a pochi anni fa. Ma effettivamente la figura di Cristo aveva sempre esercitato su Zolli un fascino notevole, ben prima che si affacciasse la possibilità di una conversione, che va probabilmente spiegata (nei limiti, ovviamente, in cui è lecito tentare di spiegare decisioni del genere) in relazione a una concezione della religione fortemente caratterizzata in senso mistico, con la propensione a sottolineare le «grandi somiglianze» esistenti tra i vari sistemi religiosi. A giudizio di Rigano ci troveremmo dunque di fronte a un'esistenza liminare tra ebraismo e cristianesimo, a uno spirito religioso che tendeva a dare un'importanza relativa agli apparati dogmatici e alle divisioni di fede. Del resto Zolli, come aveva dedicato da ebreo alcuni studi importanti alla figura di Cristo, continuò a manifestare da cattolico «una passione affettuosa» per il popolo di Israele. Tanto che nel febbraio 1945, subito dopo la conversione, ricevuto da Pio XII, gli domandò se fosse possibile eliminare, nella liturgia del Venerdì Santo, l'aggettivo «perfidi» attribuito ai giudei. Quasi che, essendo diventato cattolico, non avesse cessato d'essere e di sentirsi, almeno in parte, anche ebreo.

Corriere della sera, 3 giugno 2006

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