Documenti dell'ANED di Milano

«Il martire di Pasqua» 

di Nino Bonelli

La Pasqua del 1944 cadeva al 9 di aprile: i 600 e più detenuti politici torinesi che nella notte sul 13 marzo erano stati trascinati dalle carceri nuove alla stazione ferroviaria e, dopo una breve sosta a Bergamo, fatti proseguire per Mauthausen, avevano ormai raggiunto da due settimane il vicino campo di Gusen loro assegnato per trascorrervi la quarantena. Durante questo periodo, sotto lo specioso pretesto dell'isolamento profilattico, i nuovi arrivati erano tenuti in strettissima segregazione nel recinto della baracca loro assegnata sotto la sorveglianza di altri detenuti, delinquenti comuni tedeschi, cui erano affidati tutti i servizi del campo. I 600 uomini ancor pieni di forza e di quasi incredulo stupore d'essersi tutt'a un tratto tramutati in schiavi, venivano intruppati al mattino verso il luogo del lavoro e riportati la sera nella baracca n.16 ove avevano per giaciglio dei cassoni a tre piani sovrapposti, ciascuno dei quali doveva bastare per quattro persone. I cassoni avevano l'aspetto di una bara e in bara si erano già fin dai primi giorni trasformati per due nostri compagni: Cristoforo Coalova di Dronero e Dionigi Rosso di Torino, stroncato il primo dalla polmonite e il secondo da 50 e più bastonate inflittegli perché, colpito da un attacco di epilessia, disturbava coi suoi lamenti i sollazzi notturni dei nostri guardiani che nel ristretto quadrato della baracca, friggevan salsicce e danzavano al suono di violini tzigani. L'infermeria, sempre a scopo profilattico, era inibita ai deportati in quarantena, e cosi pure l’obitorio, onde al mattino, accalcandosi sotto la sferza degli aguzzini verso il wascheraum, i deportati si ritrovavano sotto i piedi, nel ristretto spazio fra la fila dei lavabo e quella dei w.c., il cadavere ignudo del compagno che - dopo accurata lavanda (a tanto si spingeva la farsa dell'igiene) - veniva trasportato al crematorio. L'alba del 9 aprile, livida nel raggio spettrale dei riflettori che dalle torrette di sorveglianza abbagliavano ogni recesso del campo (sintomatico dispregio della protezione antiaerea per la sua popolazione di banditi nemici del Reich) si era levata gravida di minacciose incognite per i 600 torinesi che attendevano, nel cortiletto della baracca n.16, la conta del soldato SS prima d’avviarsi al lavoro. Le stelle brillavano ancora intensissime sul nostro capo e le brume che salivano dal Danubio avvolgevano d'un velo plumbeo il declivio della collina ai nostri piedi: qualcuno volle abbozzare un sorriso ed un augurio: buona Pasqua, ma lo zittì l'imprecazione del sorvegliante, e la triste colonna si avviò in silenzio al cantiere ove si costruivano le baracche per l'ampliamento del campo. Stava allora nascendo Gusen Il presso la cava di St. Georges: quei nomi sono troppo tristemente famosi per dover ricordare che ogni zolla, ogni pietra vi è intrisa di sangue. Per lo più il nostro gruppo era addetto ai trasporti di terra o di pietre: gli zoccoli si affondavano nella neve fangosa arrestandoci d'improvviso nella corsa forzata e la sferza cadeva inesorabile sulle nostre spalle fin quando non riuscivamo a riprendere il cammino. Solo qualcuno era prescelto per lavori più qualificati, alla gettata di un pilastro o all'armatura di un tetto, e noi li guardavamo con invidia. A mezzogiorno il lavoro, che continuava dalle 6, non s'interruppe: l'orario unico festivo continuava sino alle 14, e dopo otto ore il fischietto dell'adunata ci richiamò per la conta, prima di rientrare. Di solito questa operazione era assai lunga, ma quella domenica di pasqua pareva non dovesse finire più: i sorveglianti passavano e ripassavano le loro mani sulle nostre spalle, esattamente come alle fiere valligiane i negozianti numeravano ad uno ad uno colle mani gli ovini d'un gregge. D'un tratto tutto fu chiaro: qualcuno aveva pensato di sottrarsi all'adunata, nascondendosi per poi tentare di fuggire. Le ricerche affannose dei guardiani coadiuvati da grossi cani lupo appositamente addestrati per la caccia all'uomo, si svolgevano attorno a noi, impotenti, ma tuttavia combattuti fra la speranza che l'ignoto compagno si salvasse e il timore della rappresaglia che sarebbe certamente caduta sopra il nostro capo. Ben presto l'uomo fu ritrovato: si era aggrappato alle travature d'un tetto ove era riuscito a nascondere del traliccio ricavato dai sacconi che fungevano da pagliericcio nel pomeriggio domenicale; contava di cucirsi un vestito per sostituire la divisa a righe del forzato e tentare la fuga al tramonto. Poco dopo, in coda al doloroso corteo, rientrava pure il fuggitivo, ridotto ormai ad un cencio per le percosse degli aguzzini e trascinato faticosamente dai compagni. Nel cortiletto della baracca n.16, a quell'ora, avrebbe dovuto aver luogo la distribuzione della zuppa: un gran mestolo di broda immonda per la quale l'assuefazione e lo sfinimento erano mal sufficienti a vincerne lo schifo. Ma nessuno pensava al cibo quel giorno. Il fuggitivo, che sembrava aver perso conoscenza, giaceva come cosa inanimata in un angolo del cortile, e i guardiani, passando, lo calpestavano col piede e lo colpivano col bastone, senza che il suo corpo reagisse in alcun modo. Noi sostavamo sull'attenti in cinque file, come ci era stato ordinato, presaghi di qualche cosa che sentivamo avvicinarsi come un pericolo ignoto. Poi qualcuno di noi fu prescelto a caso dalle file: sei uomini furono avviati a wascheraum e ne ritornarono con una gran botte scoperchiata colma d'acqua: noi continuavamo a non capire, ma s'intuiva che la punizione per il tentativo di fuga, durante la quarantena, era considerata faccenda da sbrigarsi, come tutte le altre, senza alcun contatto all'esterno, e sorvegliavamo ogni movimento dei guardiani. Costoro fecero trascinare il fuggitivo nel mezzo del cortile, accanto alla botte: ora lo vedevamo bene: aveva la casacca a brandelli, era scalzo, e le mani e i piedi piagati, il viso sfigurato e perdeva sangue dalla bocca semiaperta. I suoi grandi occhi spalancati sembravano fissati, ma forse le sue pupille erano già spente. I guardiani ora si avvicinavano a noi, scomponevano la nostra formazione per cinque e ci disponevano in fila indiana: prelevavano altri cinque o sei uomini a caso e li portavano accanto alla botte. Ed ecco, mentre il nostro lunghissimo corteo cominciava a snodarsi tutto attorno all'angusto recinto, gli aguzzini, tempestando di bastonate i nostri compagni, li costringevano a sollevare il corpo inerte del fuggitivo, ad appoggiarlo alla botte e ad immergerne la testa nell'acqua. Per l'orrore, gli esecutori coatti dello scempio cercavano di ritrarsi e a un tratto vi riuscirono: ed allora si vide il disgraziato sollevare la testa dall'acqua, drizzare il corpo in un estremo anelito dì vita e lanciare un grido: lamento, invocazione, saluto, non ci fu dato di comprendere poiché gli aguzzini gli furono sopra e lo reimmersero nell'acqua tenendolo a forza colla testa all'ingiù fin che tutti noi, uno ad uno, non fummo sfilati davanti al Martire di Pasqua. Si chiamava Luigi Nada, lavorava negli stabilimenti torinesi della Aeronautica d'Italia, abitava, colla moglie e i due figlioletti, a Torino al n^ 105 di via Bertolla: era stato arrestato e deportato come organizzatore dello sciopero del 1^ marzo 1944 che fu la prima manifestazione di aperta ribellione al nazifascismo da parte della totalità dei lavoratori piemontesi.

Dal fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico, s.d., per gentile concessione

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