Documenti dell'ANED di Milano

«Vita e morte nei lager»

di Enea Fergnani

Ē un'alba grigia e gelida: sui settemila scheletri allineati sull'«Appelplatz» coi piedi immersi nel fango, piove. Come in un cimitero dove tutte le tombe si siano silenziosamente scoperchiate e gli scheletri si siano silenziosamente rizzati in piedi, stupiti di vedersi in quella luce crepuscolare, con quel berretto tondo sul teschio e quella lurida uniforme a righe, cascante sulle ossa, immobili e muti per la pietà e l'orrore, sull'immenso campo essi non odono che il fruscio della pioggia attraverso l'aria livida e il picchiettio delle gocce che rimbalzano nelle pozzanghere. Per due o tre ore, in quell'immobilità di cadavere, vigilati dai loro custodi e carnefici, attendono l'arrivo del comandante del campo. Una parola, un movimento sono delitti punibili con la morte. Poiché piove e la temperatura è di molti gradi sotto lo zero, il comandante ordina che vengano sull’ «Appelplatz» anche i moribondi. E questi vengono trascinandosi o trascinati, ignudi, a morire sotto la pioggia gelata. Muoiono silenziosamente, senza un rantolo, come se fossero già morti prima dell’ultimo respiro. Gli altri, i vivi, come automi, a branchi di cento e cento, si avviano al lavoro sotto la sferza. Sono Francesi, Russi, Cecoslovacchi, Iugoslavi, Greci, Belgi, Spagnoli, Olandesi, Polacchi, Italiani; e per compiere tra di loro la quotidiana strage li accompagnano centinaia di aguzzini armati di nervi di bue, di bastoni, di pistole, di fucili mitragliatori. La sera ritorneranno al campo portando su barelle di ramaglia o sulle spalle i compagni col cranio spaccato o uccisi dalla fatica, dalla fame o dalla più atroce di tutte le morti: quella per disperazione. Chi non è stato nei campi di sterminio tedeschi, sa che vi si moriva di fame, di fatica, di dissenteria, di tifo e di ogni altro morbo; a colpi di bastone o di pistola, fucilati o impiccati; col cranio o col petto schiacciati a colpi di tacco o di pietra, assiderati, sbranati dai cani; per asfissia, iniezioni di benzina o inoculazione di germi micidiali; per soffocazione o affogamento, con tratti di corda o lancio nel precipizi, per folgorazione e cremazione, maciullati o lapidati; ma non sa che più orribile di ogni altra vi era la morte per disperazione, non sa che tal genere di morte fu inflitto con una tecnica che gli stessi fascisti nostrani più faziosi e seviziatori non avrebbero saputo ideare né applicare con così raffinata perizia. Non vi è certezza di morte imminente o sofferenza fisica che equivalga il tormento di sapere di dover morire in un modo non prevedibile ma straziante, tra un mese, un giorno o all'istante, senza possibile difesa, senza discussione possibile, per decisione di uno qualsiasi degli ufficiali, sottufficiali, soldati, capi baracca, sorveglianti o di un loro favorito, ciascuno dei quali aveva il diritto di uccidere e uccideva: chi voleva, come voleva, quando voleva, per malumore, per capriccio, per giuoco, per scherno. Entrato nel Lager il prigioniero sapeva che per lui non vi ora più via di scampo, non c'era più possibilità di salvezza: così gli diceva la ragione e ciò gli confermava l'esperienza di ogni giorno, di ogni momento. Capiva di essere stato aggredito da un mostro immane, di ferocia implacabile, che aveva già azzannato la sua carne più profonda e non l'avrebbe più abbandonata. Tuttavia la speranza sopravviveva in lui; una speranza assurda ma che prodigiosamente resisteva alla ragione e gli sorreggeva ancora il cuore esausto. Per distruggere il conforto di quell'estrema speranza che mai abbandona neppure i morituri, la speranza di riuscire miracolosamente a sfuggire alla rappresaglia. alla violenza improvvisa, al capriccio crudele e mortale, non bastavano la fame e la fatica estenuante; occorreva che il campo fosse continuamente percosso e terrificato dall'imperversare di un uragano di criminale follia. Questo fu il capolavoro dei torturatori nazisti, la distruzione della speranza prima della morte della carne, come mezzo anzi, e il più scellerato, per accelerare e provocare la morte fisica. Essi seppero creare la Disperazione perché questa si insediasse nel prigioniero a rodergli i muscoli e i nervi, il cuore e il cervello. E la disperazione, come un serpe sottile lento e cauto si apriva la strada dentro al prigioniero insinuandosi quasi di soppiatto, annidandosi nel suo cranio e acquistando via via sempre più nettamente la figura di una particolare demenza. Il prigioniero che stava per diventarne preda, si sentiva sempre più sprofondare in un’angoscia che non ora più soltanto la sua, ma quella di tutti i suoi compagni, di tutti gli uomini della sua patria invasa, di tutti gli uomini viventi sulla faccia della terra; un’angoscia universale, cosmica che opprimeva e schiacciava il mondo, senza rifugio ormai per nessuna perché tutti ormai dannati alla dissoluzione dell’anima e del corpo. E man mano che l'incubo spaventevole progrediva, il prigioniero sentiva l’orrore scavargli dentro ai visceri e consumarli, intuiva di diventare egli stesso una figura di incubo, percepiva lucidamente la disgregazione della propria coscienza alla quale si sostituiva il dominio di «un’altra cosa» di cui atterrito spiava i progressi nel proprio volto che gli diventava petroso e gelido, nella propria voce che gli usciva dalla bocca tagliente e sconosciuta. L'uccisione del corpo nei Lager politici era uno dei modi sbrigativi di soppressione dei patrioti, che se disonorava la nazione germanica, restava pur sempre nell'orbita della barbara tradizione militare tedesca, ma il nazismo andò assai più lontano inventando un'uccisione più efferata ed empia: l'uccisione dello spirito prima di quella della carne; creò la scienza della distruzione della personalità umana. L'immobilità per due o tre ore sotto la pioggia a dieci o venti gradi sotto zero, non aveva soltanto lo scopo di sopprimere rapidamente i meno resistenti al lavora, ma era una delle innumerevoli sevizie morali che miravano a degradare lo spirito. Il salto della rana protratto per ore e la marcia sulle ginocchia e sui gomiti erano uno spettacolo particolarmente divertente per i fieri araldi della civiltà nazista perché era un modo di torturare dileggiando. Il lancio del berretto sul reticolato ad alta tensione con l'ordine di riportarlo, non era soltanto un modo di uccidere per folgorazione. ma voleva essere piuttosto una beffa accompagnato da scrosci di risa. La tragica esposizione dei morti ignudi accatastati per giorni intorno alle baracche prima del trasporto ai crematori e il calcio nel ventre al primo che capitasse a tiro di uno stivale tedesco, la gassazione di migliaia di malati che si ostinavano a vivere e la lacerazione delle camicie prima di distribuirle ai prigionieri. le lunghe soste notturne all'aperto sotto la neve a corpo ignudo e il divieto di usare un pezzo di carta per pulirsi il naso, il bagno gelido ai deliranti per la febbre e la fanfara che un'ora ogni settimana, con grande strepito di trombe e tamburi, suonava «Lillì Marlène » nella baracca degli agonizzanti. la marcia di cinquanta chilometri per sperimentare una nuova qualità di suole per scarpe e la rasatura di una striscia di cuoio capelluto dalla fronte all'occipite; la marcia a piedi scalzi su frantumi di vetro e gli zoccoli col tomaio di ritagli rossi, gialli e azzurri, l'immersione nell'acqua gelida o bollente per studiare la reazione dei tessuti umani o le ferite prodotte per introdurvi pezzetti di vetro, schegge dì legno o di metallo, pezzi di stoffa, terra infetta di tetano, per studiare metodi di cura delle ferite causate da armi da fuoco e la farandola a suono di tamburello e zufolo intorno a un simulacro di albero natalizio la notte della nascita di Cristo Redentore; il prelievo di duecento grammi di sangue ogni venti giorni a migliaia di prigionieri e le giostre degli ebrei obbligati a correre in circolo per un'ora cantando; l'impiccagione a nodo di canapo lento affinché l'agonia si prolungasse e sordine dato a un infermo di correre per il campo abbaiando; l'apertura dopo otto giorni di una baracca zeppa di prigionieri lasciati senza viveri e la mimica delle SS imitante grottescamente i sopravvissuti che ne uscirono impazziti... Codeste infamie atroci ed empie, alcune tra le infinite che il nazismo ha commesso nel cuore dell'Europa e talora, se pure meno sacrilegamente e satanicamente in questa stessa nostra Italia che fu sempre celebrata terra di civiltà prima che la malavita nazionale venisse dal fascismo glorificata; tutte codeste abominevoli nefandezze che il nazismo ha commesso dalla Francia alle soglie del Caucaso, dalla Norvegia all'isola di Creta, ovunque, avido di conquista e cupido di strage, lo portò il suo sogno di dominazione del mondo, avevano deliberatamente un duplice scopo: uccidere prima lo spirito, luce di Dio e potenza dell'uomo, con l'umiliazione, l’avvilimento, il terrore e poi spegnere il corpo. Ben può dirsi che mai nel corso dei millenni fu neppure concepito un così diabolico piano di distruzione totale degli esseri umani. Nel Lager di Belsen, di Auschwitz, di Mauthausen, di Buchenwald, mentre dunque da una parte si combatteva una lotta disperata e stupenda di difesa: dello spirito che comandava alla carne «resisti » e della carne che rispondeva allo spirito «sorreggimi»; dall'altra i nazisti vi combattevano una lotta facile e vile, turpe e satanica per ridurre ogni prigioniero allo stato di bruto distruggendo in lui, con lo spirito, ogni speranza di salvezza e ogni potere di resistenza. Quando la disperazione sopraggiungeva, il prigioniero veniva ucciso dalla tortura della stessa sua disperazione e non gli restava che di attendere inerte il fatale, prossimo istante della morte carnale. La demenza cesarea che in Hitler fu congenita e che si accrebbe col crescere della potenza militare germanica oltrepassando ogni precedente esempio di paranoia di dominio, non basta a spiegare la raffinatezza dei supplizi che il nazismo ideò, eresse a sistema ed organizzò in modo uniforme in tutti i Lager politici; né giova a spiegare i misfatti delle camicie brune l'argomento che la Germania doveva difendersi alle spalle da milioni di uomini decisi ad ostacolarne la egemonia sul mondo perché tal sogno era già di per sé scellerato. Non so quanti in quella Germania che se fosse riuscita vittoriosa avrebbe trasformato l'Europa in un immenso Lager, abbiano rimproverato ai nazisti la loro arroganza, la loro truculenza, la loro criminalità, non so quanti abbiano piuttosto rimproverato a Hitler semplicemente di non aver saputo vincere la guerra. Certo è che la spaventevole macchina torturatrice messa in moto da Hitler fu so- spinta per tutte le contrade d'Europa da una forza creata dalla suggestione prestigiosa e quasi mitica che Hitler esercitava sulla nazione germanica la quale infatti resistette intorno a lui, con tutto il suo formidabile apparato amministrativo, militare e poliziesco fino al giorno della irreparabile, sconfitta. Quella forza ha un solo nome che la definisce e la spiega. «Odio»: l'eredità di Caino moltiplicata dall'esercizio della malvagità nei secoli, arricchita da una particolare attitudine e intelligenza nativa a torturare. La catastrofe di Hitler fu la salvezza dell'Europa e del mondo. Il mostro nazista, dopo avere lacerato tante anime, distrutti infiniti focolari, inceneriti milioni e milioni di uomini, di donne, di bambini. schiacciato sotto il peso dei suoi delitti è riprecipitato nell'infernale abisso dal quale era uscito. Nei tempi moderni, quando la tirannia ripudia e sopprime gli istituti politici fondati sui diritti imprescrittibili dell'uomo, prima o poi ma fatalmente, la reazione si abbatte inesorabile per ristabilire l'impero della libertà e della giustizia che sono il fondamento necessario e insopprimibile delle società umane. La disfatta dell'hitlerismo, come il fosco tramonto e il crollo miserabile del fascismo in Italia, ne sono una nuova, decisiva e tragica conferma, tanto più decisiva e tragica quanto più cinicamente nazismo e fascismo irrisero, violarono e distrussero ogni norma di vita morale e civile. Il trascorrere del tempo sanerà le ferite tuttora sanguinanti, e bisogna credere e volere che sulle rovine e le distruzioni sorga un'età nuova e migliore, ma vi sono documenti e monumenti sparsi sul paesaggio mortifero del nazifascismo che debbono restare non solo come testimonianza storica del passato, ma soprattutto come ammonimento per l'avvenire. Debbono restare, più di ogni altro, vivi nella memoria e perenni allo sguardo e alla meditazione delle genti di ogni paese i campi di sterminio dove i sicari della tirannide hitleriana, ben più feroci delle belve, si esercitarono nell'assassinio quotidiano balzando sulla vittima nella luce spettrale delle albe invernali, nel crepuscolo delle sere estive, nelle tenebre della notte, nella piena luce del sole, con un urlo selvaggio o una bieca risata. Questi luoghi sacri alla morte più orrenda debbono restare con le loro camere a gas, i loro forni crematori, i loro attrezzi di tortura, le loro baracche per gli esperimenti di medici criminali, con le loro teche dove, dopo la liberazione, furono raccolte capigliature bionde e brune di donne, scarpine, bambole e ninnoli portati dagli ultimi bimbi arrivati fin lassù da ogni paese d'Europa e, dopo viaggi di dieci, quindici giorni nei carri piombati, immediatamente gettati nei forni. Debbono restare intatte le scale della morte e le cave di pietra, le «attrezzature cliniche»  del «Krankenbaus» di Mauthausen con le sue cuccette dove il corpo dei morti era il guanciale degli agonizzanti. Debbono restare intatti gli uffici dei Comandi dove si decretavano gli eccidi in massa e dove le SS portavano a gozzovigliare le loro donne sotto i paralumi di pelle umana. Devono restare le lapidi di esecrazione della barbarie e quelle di esaltazione della virtù e dei sacrificio, le bandiere delle nazioni suppliziate e gli omaggi recati dalle donne e dagli uomini di tutta l'Europa ai luoghi dove, se delle vittime non esistono più neppure le ceneri, alita però perenne il loro spirito risorto. Tutto deve restare come era tra la fine dell'aprile e i primi di maggio del 1945 quando i superstiti videro fuggire le SS prima che avessero avuto il tempo di eseguire il sempre minacciato «die letzte Niedermetzelung»: il massacro finale. Non per recarci in quei luoghi santificati dal martirio a covarvi vendette, ma per meditare sulla stoltezza e sulla malvagità degli uomini e per meglio capire e sentire su quelle zolle e in quegli edifici dove i nazisti si inebriavano dell'odore del sangue e assaporavano il gusto della tortura, che la malvagità mai si disgiunge dalla stoltezza; per rendere più vigorosa e più fiera la nostra volontà di contribuire con tutte le nostre forze affinché la storia non debba più registrare i crimini che il nazifascismo consumò nei «Konzentrationlager»: i carnai dove ogni cento suppliziati italiani si contano sette vivi e novantatre cadaveri.  

Dal fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico, s.d., per gentile concessione

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