Documenti dell'ANED di Milano

A tutti i nostri compagni caduti qui va il nostro pensiero

di Gianfranco Maris, presidente dell’ANED*

* Intervento al XII Congresso dell’ANED a Mauthausen nel maggio 2000  

G. Maris a Mauthausen (maggio '92)

(foto di Francesco Coluccio)

La presenza nel campo di Mauthausen dei superstiti dell’annientamento nazista, dopo 55 anni dalla fine della guerra - per ricordare tragica criminale violenza che è stata qui consumata, ma anche per trattare i problemi del futuro di un’Europa unita nella libertà e nella democrazia - è emblematica di quanto possano gli uomini quando sono uniti, quando combattono uniti nel segno di alti ideali. Siamo in una sede etica europea, perché qui hanno conosciuto l'annientamento con il lavoro, con il gas, nella camera delle false docce che è qui a pochi metri da questa sala, nei cassoni stagni dei camion che facevano la spola tra Mauthausen e Gusen, nelle baracche stesse trasformate in camere a gas alla fine dell’aprile del ’45, con la forca e con le fucilazioni, 200.000 combattenti della resistenza antifascista e antinazista europea e, tra di essi, gli stessi antinazisti austriaci e 7.200 antifascisti italiani. A tutti i nostri compagni di ogni nazionalità caduti qui, va il nostro primo pensiero, nella consapevolezza che il mostro del totalitarismo nazista fu stroncato in Europa grazie anche al loro sacrificio. Siamo nella sede di una memoria  nella quale tutti i popoli d'Europa si riconoscono. Se vi sarà un giorno una identità europea, nella quale tutti i cittadini dell'Unione potranno riconoscersi, nel rispetto di tutte le singole identità nazionali, quella identità europea comune trarrà legittimità da questa memoria comune: la memoria della deportazione dei resi­stenti d'Europa nei medesimi campi di annientamento. Noi lo testimoniamo. Qui la camera a gas riceveva, già al loro i deportati inabili al lavoro, rami secchi da bruciare immediatamente. Ricordo – perché a volte quelli che più ti seguono nella vita non sono il ricordo degli stermini indistinti dei grandi numeri, ma il ricordo dello sterminio di quelli di cui hai conosciuto lo sguardo, dello sterminio dei numeri piccoli, del tuo compagno, quello col quale avevi lottato, quello che era vicino a te, quello di cui conoscevi la vita e la famiglia – ricordo all’arrivo nel lager, nel luglio del 1944, tre compagni inabili del mio trasporto, due partigiani feriti, uno, Braccesco, era di Monza, aveva perso una gamba, immessi nella camera a gas senza nessuna attesa, mentre tutti noi venivamo spogliati e rasati. Qui ci sono state le camere a gas e ricordo, alla fine di aprile del 1945, il 21 di aprile, a poche ore dalla fine della guerra, quando il mostro nazista era già crollato, ricordo la selezione sulla piazza dell'appello di Gusen e i 600 compagni assassinati, il 21 e il 22 di aprile del ‘45, nella baracca trasformata in camera a gas. Noi lo testimoniamo. Ma fermarsi al ricordo in questa sede etica sarebbe colpa. Qui la memoria non può essere assunta che come valore fondante della società umana. La lezione etica dello sterminio nazista e dell'annientamento degli oppositori e dei combattenti per la libertà e per la fratellanza tra i popoli è un momento centrale della storia d'Europa. Ma perché sia, questa storia, intelligenza di vita e non soltanto ricordo di morte - più che mai oggi, nella temperie disorientante di conflitti che continuano ad annidarsi minacciosi negli stessi processi di trasformazione e di sviluppo della società umana - più che mai oggi questa lezione deve essere coniugata al futuro. Alla fine di un secolo di sangue, feroce, aperto dal genocidio degli armeni e da un colonialismo di rapina, scandito dall'ecatombe della prima guerra mondiale e dalla crisi economica degli anni ‘30, che coprì il mondo di angosciose incertezze; di un secolo scandito dall'ecatombe di 50 milioni di morti nella seconda guerra mondiale e dall'annientamento con il lavoro e con le camere a gas di 11 milioni di deportati politici e razziali, ancora grandi ombre si allungano sulla nostra società. Ci dobbiamo congedare da questo secolo avvertendo la necessità - essendo noi stati per 55 anni testimoni attivi di una memoria di grandi va­ori - di mettere in guardia le nuove generazioni su quelli che saranno i problemi gravi del loro futuro agire politico. All’indomani della liberazione di Mauthausen, nel maggio del 1945, i deportati superstiti - larve di uomini e di donne - sentirono il bisogno morale, prima ancora di saziarsi con un pane di cui avevano perso persino il ricordo, sentirono il bisogno di dire a tutti gli uomini di Europa e del mondo, nell’immediatezza del dolore per i compagni morti, ciò che era stato il campo e quello che essi ritenevano fosse l'insegnamento di una esperienza assoluta nella vita dei popoli. “Si aprono le porte di un campo tra i più insanguinati, quello di Mauthausen - scrivevano i superstiti - e stiamo per ritornare nei nostri paesi liberati dal fascismo, sparsi in tutte le direzioni. I detenuti liberi, ancora ieri minacciati di morte dalla bestia nazista, ringraziano dal più profondo del cuore per l'avvenuta liberazione le vittoriose nazioni alleate e salutano tutti i popoli con il grido della libertà riconquistata”. L'appello proseguiva e sottolineava il valore della fratellanza e della solidarietà come condizione essenziale perché tutti i popoli potessero conseguire il traguardo della libertà e della giustizia. Parlavano 21 lingue diverse i deportati dei campi di annientamento nazisti, avevano 21 culture diverse, avevano tradizioni e costumi diversi, appartenevano a 21 etnie diverse, ma erano anche i superstiti di 21 resistenze e opposizioni nazionali. Uomini diversi, dunque, ma con pensieri uguali. I superstiti dei campi di concentramento nazista, volendo trarre dalla memoria del passato l’indicazione dei valori che oggi sono necessari alle nuove generazioni per affrontare i problemi che si pongono sul loro cammino, potrebbero oggi limitarsi a suggerire a queste nuove generazioni la tolleranza, la fratellanza, la solidarietà, come condizioni sufficienti per assicurare da sole giustizia sociale per tutti i popoli? Potrebbe essere questo il contenuto di un messaggio nuovo, aggiornato, per il futuro nostro, che mette a posto le nostre coscienze ma dà anche delle coordinate di azione e di impegno civile ai nostri figli e ai nostri nipoti? I valori della solidarietà, della fratellanza, erano validi forse per la lotta contro i totalitarismi di società più arretrate. Non è pensabile che possano ancora oggi essere sufficienti da soli per garantire il successo di un impegno politico che si colloca in dinamiche sociali ben più complesse. Il mondo è cambiato, radicalmente cambiato: cambiato nei suoi processi economici, nei modi e nei ritmi della produzione,nei modi e nei ritmi della circolazione dei beni e dei capitali, nella distribuzione della ricchezza, nella fenomenologia dei sistemi politici, nelle istituzioni, nel diritto, nell’informazione, nella formazione del pensiero, nell’agire politico.

Le regole del procedere dell’esistenza degli uomini, nell’incognita di una globalizzazione prima d’ora sconosciuta, sono mutate.

Quali prospettive apre o chiude, per la promozione sociale, per il progresso economico dei singoli paesi, la liberalizzazione completa degli scambi mondiali delle merci, dei servizi, dei capitali, delle monete, dei prodotti culturali? Quale modello di sviluppo diffonde questa mondializzazione? Quali influssi esercita sulle povertà, sull’inquinamento, sulla manipolazione degli alimenti, sulla manipolazione dei geni vegetali, animali, umani? Quali certezze e quali precarietà di vita, di lavoro, di promozione sociale, di progresso di civiltà potrebbero essere indotte, da questa mondializzazione, nelle comunità nazionali, che sono molteplici e difformi tra loro, difformi sotto il profilo di tutti gli indicatori: della povertà, della ricchezza, della produzione dei servizi? La globalizzazione passa sopra la testa degli uomini, fuori e sopra gli stati nazionali. Le grandi concentrazioni di potere capitalistico, economico, multimediale determinano la globalizzazione e la guidano, e la guidano senza democrazia, perché nei centri dove si gestisce la globalizzazione non vi sono strutture di partecipazione. Eppure investe questioni che toccano la radice, il fondamento stesso della vita: l’ambiente, la salute umana, la qualità della vita, le identità culturali, lo sviluppo differenziato del sud del mondo, lo sviluppo prioritario dei paesi poveri.

Nel contesto di questo processo di mondializzazione si inserisce lo spostamento di popolazioni, di dimensioni bibliche, imposto dal bisogno dei poveri e dal bisogno dei ricchi.

Dal bisogno dei ricchi di avere manodopera perché il benessere senza il contributo del lavoro sfiorisce in una nuova povertà. Dal bisogno dei poveri di un salario, senza il quale non vi è promozione umana.

L’emigrazione sarà la realtà di fondo intorno alla quale ruoterà il divenire prossimo venturo del nostro continente.

L’annuario dell’Istituto italiano di statistica del 1999 sottolinea che in Italia da cinque anni il saldo della popolazione è negativo. Un saldo negativo che pesa su tutti i paesi dell’Europa, tanto che nel continente europeo è prevista, nei prossimi cinquant’anni, una lacuna demografica e quindi una necessità di immigrazione in Europa – se l’Europa vuole progredire e andare avanti – di 160 milioni di anime. 160 milioni dovranno arrivare dai paesi lontani dall’Europa, 160 milioni, non una goccia nell’acqua di un mare, ma un gruppo corposo di uomini e di donne che verranno a lavorare in Europa, non a razziare e a rubare. Verranno a lavorare perché del loro lavoro vi è bisogno. E gli ospedali, l’edilizia, la costruzione delle strade, i trasporti, l’agricoltura, l’industri avranno sempre più bisogno del loro lavoro. Le diversità sono fatalmente destinate a incontrarsi perché hanno bisogno l’una dell’altra. Le comunità del futuro saranno formate da uomini e donne che parlano lingue diverse, che appartengono a etnie diversi, che hanno culture e costumi diversi. Si possono costruire queste comunità evitando, impedendo i conflitti che i processi di globalizzazione e di immigrazione inducono e determinano nelle società? Si possono costruire società nuove, pluralistiche per lingue, etnie, culture, religioni, costumi, utilizzando soltanto il richiamo ai valori della tolleranza, della fratellanza e della solidarietà, valori che pure restano sempre il fondamento della cultura umana, individuale e collettiva? Queste categorie del pensiero e dell’agire sociale, oggi, da sole, sono ancora capaci di condurci al superamento dei conflitti e delle differenze, al superamento degli isolamenti, per costruire società diverse, formate da persone che vengono da più parti del mondo? Senza un’onda culturale che investa alla radice i modi di sentire più diffusi, senza un impegno diretto e radicale delle istituzioni nel governo dell’economia, senza l’affermarsi di norme giuridiche che impongano l’osservanza dei diritti fondamentali dell’uomo in ogni spazio, nazionale o internazionale, in ogni luogo, in ogni paese, ovunque, senza questa onda culturale senza l’affermarsi diffuso dei diritti dell’uomo e senza il formarsi di un corpo di norme giuridiche imperanti su tutta l’umanità, le categorie del pensiero saranno di per sé inadeguate. Le identità non devono essere cancellate.

È il riconoscimento e il rispetto della diversità che rende possibile la coesistenza senza conflitti tra le diverse persone, con legami tra di loro, nel rispetto delle leggi, per un comune impegno, senza negarsi a vicenda.

Questa è la strada per trasformare il mondo. E così è anche per la fratellanza. Il Papa, nella sua ultima visita in India, ha indicato come il concetto di fratellanza nella concezione della Chiesa debba subire una ristrutturazione. Non più soltanto soccorrevole amore verso il fratello bisognoso, non più soltanto carità, ma operosità comune. La fratellanza come azione. Sicuramente, nei suoi aspetti sostanziali, debbono essere riconsiderate anche le condizioni della solidarietà. Non si può semplicemente ripetere la parola solidarietà illudendosi che il ripeterla o predicarla possa trasformare la parola in opere concrete. I singoli paesi e l’Unione Europea nel suo complesso, ciascuno con le sue possibilità finanziarie e normative, debbono comprendere che i contenuti del loro diritto interno e del cosiddetto stato sociale – nel quadro della globalizzazione e del fenomeno dell’emigrazione – debbono essere rivisti, non per dovere di’”ospitalità” verso chi viene da lontano o di “solidarietà” nei confronti dei cittadini meno fortunati, ma perché le comunità nuove e diverse esigono cittadini uguali, esigono un diritto e uno stato sociale “globalizzati, con diritti e doveri garantiti a tutti, nella sicurezza personale e collettiva e nella certezza che tutti conseguiranno il giusto soddisfacimento dei loro bisogni.

Nel mondo laico e nel mondo religioso si avverte la necessità di innovare i contenuti dei concetti di fraternità, di tolleranza e di solidarietà.

Anche il mondo dell’arte sente questa sollecitazione Giorgio Streheler il grande regista scomparso, a proposito del Teatro d’Europa, diceva, con il linguaggio proprio di un artista, che la globalizzazione è una cosa meravigliosa solo se unisce, mostrando le affinità non solo come diversità ma sapendo che le diversità devono essere recepite come momento di conoscenza, come momento di azione comune, secondo “l’alfabeto del cuore e dell’anima”. Dobbiamo infrangere, concludeva, il muro illusorio dietro il quale ciascuno di noi crede di sentirsi protetto e che genera invece solitudine profonda e sempre più gelida. Purtroppo tutte queste voci incontrano nuovi muri, che respingono i richiami alla necessità di coniugare fra di loro le diversità, come strumenti di ricchezza. Con il consenso di quote significative di elettori cominciano a presentarsi forze politiche che negano di identificarsi con bandiere disonorate di un passato criminale e che assumono di rappresentare “democraticamente” esigenze di tutela di beni primari delle donne e degli uomini di ogni paese: quelli della difesa dell’identità e della cultura nazionali di aggressioni ipotetiche da parte di “stranieri” e di “diversi”.

Forze politiche che non si fanno carico neppure di sottoporre a una seria analisi le dinamiche sociali del nostro tempo e si limitano a predicare l’esclusione dei diversi, sostituendo alle analisi la loro arroganza, ipotizzando solo che nazionalità diverse, entrando in contatto con la propria, porterebbero alla contaminazione della propria identità.

Queste forze politiche offrono soltanto una soluzione: l’isolazionismo, l’esclusione di chi viene da altri paesi, l’esclusione di ogni altra cultura e di ogni altra etnia. Questa proposta si contrappone a quella di “costruire” invece, e tutti insieme, società nuove, inserendo nelle vecchie comunità del nostro continente le comunità nuove, coniugando tra di loro le diversità, nella tolleranza e nella fratellanza. L’isolazionismo e l’esclusione ai fini di sopravvivere conservando il proprio benessere, è pura follia. È la più sciagurata fra tutte le proposte politiche possibili. Il problema è grave, molto grave, perché il populismo xenofobo non si alligna soltanto fra i liberali austriaci. È un vizio ancestrale, un male antico, che si comporta come un fiume carsico, che a volte scompare dalla cultura ufficiale ma riemerge dopo un certo tempo, che tocca trasversalmente anche altre informazioni politiche, di destra e di sinistra, che contamina la cultura della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia in Italia e in Europa.

È un male da combattere, la xenofobia, senza tregua, ovunque e contro tutti, superando qualsiasi ragione di appartenenza politica o nazionale.

E tutto ciò soprattutto nel tempo in cui l’Europa è obbligata ad affrontare il nodo più epocale che possa immaginarsi: quello del trasferimento di dimensioni bibliche di popolazioni di antica miseria verso i paesi del nuovo benessere, spinte dalla fame e richiamate dall’offerta di lavoro imposta dalla caduta demografica e dalla globalizzazione. In questa prospettiva la xenofobia non solo si presenta come la negazione di valori per la difesa dei quali il mondo è stato insanguinato nel nostro secolo; non solo si presenta come la negazione di diritti fondamentali degli uomini, che l’Onu indica come il traguardo da raggiungere con norme giuridiche cogenti in tutti gli ordinamenti di tutti i paesi; ma si presenta, quale è, come una miscela esplosiva, la quale, sull’onda di una paura irrazionale, diffusa in ampi strati sociali, del timore di perdere, a seguito delle immigrazioni, il benessere e l’identità, potrebbe innescare gravi e nefasti conflitti sociali.

È tempo di uscire dagli schemi culturali di un passato che sul principio della non ingerenza negli affari interni di ogni paese ha costruito un secolo di violenza e di morte.

È tempo di pensare che, se si costituisce una unità politica tra più paesi, sulla base di principi liberamente accettati da ogni paese che aderisce a questa comunità, tali principi diventano il valore fondante di una nuova sovranità, che è legittima e giuridica altrettanto di quella dei paesi singoli, gerarchicamente sovraordinata alla sovranità dei paesi aderenti. Dopo Maastricht l’Europa deve darsi un’anima, deve disegnare una vera Costituzione europea: deve avere la dignità e la forza di imporre a tutti il rispetto dei diritti fondamentali degli uomini e dei suoi valori fondanti. Il rischio, per il nuovo secolo, è una deriva etnica preoccupante, che può contenere i prodromi di vicende gravi e destabilizzanti. Quando la xenofobia diventa nazionalismo, innesca processi pericolosi. La nostra esperienza ci ha insegnato che quando anche soltanto si delineano, nel presente, fatti che possono determinare nel futuro gravi conflitti, noi non dobbiamo attendere che nascano i mostri per combatterli. Noi dobbiamo prevenirne la nascita, dobbiamo operare subito per costruire, nella cultura e nel rispetto della democrazia, gli anticorpi, cioè quei processi culturali che corrispondono all’interesse di tutta l’umanità. I conflitti attuali non si iscrivono nell’architettura precedente dei vecchi conflitti. Noi abbiamo il dovere di elaborarli perché la memoria, come ricordo del dolore, non serve se è soltanto rivisitazione di quello che hai sofferto e che, sotto questo aspetto, appartiene al passato.

La memoria ha valore soltanto se consente di rielaborare concettualmente i processi che nel passato hanno portato a un risultato di dolore e di morte, di miseria e di impedire che questi processi progrediscano.

È da poco trascorso il decennale della caduta del muro di Berlino. Pensiamo che la demolizione  di quel muro abbia avuto soltanto il significato del ricongiungersi di una nazionalità spezzata in due per ragioni contingenti? È un messaggio per il futuro.dice che è giunto di coniugare le etnie, le lingue, le diversità, se vogliamo che l’umanità sopravviva nella pace e nella giustizia. Il messaggio della memoria dice oggi che presupposto di qualunque pace sono i diritti fondamentali dell’uomo. Il messaggio della memoria dice che presupposto di qualsiasi società pluralista sono i diritti fondamentali dell’uomo; che presupposto dell’abbattimento delle separazioni sono i diritti fondamentali dell’uomo.

La bussola della nuova dimensione della politica internazionale è quella dei diritti. I principi di democrazia, di sovranità nazionale, lo stesso concetto di sovranità popolare vanno sottoposti alla questione dei diritti. Non può esservi globalizzazione dei mercati e delle monete senza la globalizzazione dei diritti.

Alle soglie del nuovo millennio, i deportati, che hanno combattuto il fascismo e il nazismo, per congedarsi con dignità dal secolo, perché la memoria abbia un senso etico e storico, e sia un’indicazione politica, di agire politico per gli uomini non possono che formulare per le nuove generazioni questo messaggio: fate che l’Europa non sia soltanto l’unione dei mercati e delle monete; fate che l’Europa sia sostanza di uomini e di valori comuni e condivisi; fate che l’Europa sia l’espressione politica e umana di un comune impegno per la costruzione di una società pluralista, non intesa come tolleranza ma come consapevolezza che la ricchezza è insita nelle diversità, come consapevolezza che tutte le diversità devono essere riconosciute, che tutte le diversità devono essere rappresentate, che tutte le diversità devono essere presidiate con norme giuridiche che tutelino i diritti dell’umanità intiera. Fate questo perché la memoria del prezzo pagato per la libertà possa avere un futuro.

Da “Diamo alla memoria un futuro”, a cura dell’ANED, gennaio 2001

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