Documenti dell'ANED di Milano

Anna Maria Vinci

Università di Trieste

Il fascismo al confine orientale

Troppe volte la concatenazione precisa tra prima guerra mondiale, fascismo, guerra, dopoguerra e foibe/esodo non viene delineata con attenzione. Forse bisogna proprio accettare che non sempre e non necessariamente di concatenazioni precise si tratta: fenomeni di continuità e di discontinuità, si intrecciano sempre nel discorso storico che interpreta gli accadimenti. Fratture e lacerazioni profonde, rovesciamenti feroci delle parti sono infatti frequenti sullo sfondo di una perversa continuità della violenza, che è il connotato essenziale del secolo trascorso: sono fenomeni e ferite aperte che rappresentano altrettanti abissi all'interno dei quali è necessario guardare. Va poi detto che una riflessione che si inarchi lungo tutto il Novecento giuliano non è mai stata oggetto di seria divulgazione, fuori da contesti sempre sostanzialmente specialistici. Ognuno ritaglia un pezzetto da vicende ingarbugliate e di ogni pezzetto fa una sorta di parentesi: la responsabilità, intendiamoci, non è solo dei mass-media o della propaganda politica ossessionata dalle riletture legittimanti del passato. Anche tra gli specialisti manca, io credo, la volontà di rischiare fino in fondo un dibattito vero, capace a sua volta di suggerire altre piste di ricerca per una storia locale che divora frammenti di storia nazionale e internazionale, spezzoni di storia dell'Europa occidentale e orientale, lacerazioni-simbolo del XX secolo. Così, stabilendo di iniziare col fascismo al confine orientale, ben si può affermare che tale fenomeno resta una nebulosa se non si capisce il contesto da cui è nato: il contesto del disastro bellico e postbellico. Va ricordato che il fronte italiano della guerra è dislocato nell'area Nord, Nord-Orientale d'Italia. Qui le distruzioni maggiori, qui gli sconvolgimenti più radicali, qui l' ammassamento di truppe e la presenza di un potere militare come potere che sostituisce e di fatto sovrasta il potere civile per un tempo troppo lungo. L'elenco è presto fatto: anni di assalti e ritirate sul Carso, nei paesi del Friuli orientale e nella stessa Gorizia, "occupata" e "liberata" più volte, la rotta di Caporetto, i saccheggi, un vero e proprio terremoto demografico tra evacuazioni, spostamenti di popolazione, fughe, internamenti nelle famose "città di legno", le molte dolorose prigionie: al di qua e al di là del fronte è "un esilio senza pari", quello che colpisce la popolazione civile. Di più: italiani "irredenti" volontari non amati dall'esercito dei poveri al fronte; italiani in fuga non amati nella patria italiana affamata e lacera; italiani-cittadini austriaci messi di fronte alla difficile scelta di arruolarsi nell' esercito italiano per "scampare" la prigionia in Russia, sentendo di mettere in pericolo le proprie famiglie e sentendo di tradire una lealtà ancora viva verso l'Impero. A guerra finita, il senso di spaesamento e l'inquietudine contrassegnano il ritorno. Molti non tornano perché, di nazionalità non italiana, si sentono ora stranieri nella loro patria di un tempo. Ex nemici si ritrovano insieme in uno spazio spaesato. Il peso dei morti giovani è sulle spalle delle fasce più deboli di popolazione (orfani, anziani, vedove). Le ombre lunghe dell'imbarbarimento dei costumi, della consuetudine alla morte, l'umiliazione di una percezione del sé come frammento. senza umanità di una guerra moderna e mostruosa proprio per questa sua modernità entrano nella società con la forza di una contaminazione che dilaga. I vecchi modi di far politica non reggono più già al termine della guerra guerreggiata. Il potere delle armate, ad esempio, va al di là della moderazione dello stesso governatore militare, generale Petitti di Roreto, che ha pure il compito dell'amministrazione civile: il diritto di conquista e conseguentemente di dominio assoluto è una pulsione forte. Un costume di vita. Ora più che mai i prepotenti nazionalismi nati nel tardo Ottocento all'interno di un Impero come quello austro-ungarico sono for­ti forme di identificazione che sembrano rassicurare e offrire un rifugio, una giustificazione e una speranza mentre perpetuano la durezza dello scontro e delle divisioni; le manifestazioni di piazza, d'altro canto, rappresentano un continuo autoriconoscimento, un continuo contarsi, la raffigurazione palese di un disagio che la dimensione privata non riesce a contenere. Ed è quello della ribellione, del desiderio di palingenesi totale, della critica feroce ad una democrazia inetta, un fenomeno che attraversa la destra e la sinistra, supera i confini ideologici, mescola talvolta anche le violenze. Nella Venezia Giulia come altrove. Molte di quelle manifestazioni - ed è ovvio che qui il discorso dovrebbe farsi più lungo - diventano lugubre esibizione della morte (i numerosi uccisi nella pace guerreggiata), come se l'esperienza appena vissuta dovesse trasformarsi ora in gesto di sfida, simbolo di un sacrificio che chiede risarcimenti. Ma bisogna andare oltre. I poteri forti (militari, ma anche economici) puntano ad una vittoria senza limitazioni, "non mutilata", né verso l'esterno né verso l'interno. L'urlo dannunziano è già nella gola di strateghi ben più solidi. Prospettive di penetrazione economica in un'area resa debole dal crollo dell'Impero austro-ungarico diventano l'ambizione più viva di élite locali abituate a muoversi agevolmente all'interno di un mondo che ben conoscevano e che forse si illudono di poter ricomporre ora con facilità. In tal senso cercano di convincere gli interlocutori della patria italiana, pronta a vestire i panni della grande potenza vincitrice, anche se del tutto incapace di reggere progetti di conquista ed egemonia economica: i gruppi finanziari ed industriali italiani, del resto non hanno fiato sufficiente per un' ampia impresa, pur tentati di giocare in qualche modo la partita. Di certo, tutti i miti dell'irredentismo sembrano sbattere contro il muro di gomma della realtà: un po' stupisce, ad esempio, il fatto che già nel 1921 l'élite economica triestina, per bocca di alcuni suoi rappresentanti, si interroghi su uno dei cavalli di battaglia dei nazionalisti più vicini agli ambienti economici locali: la naturale attrazione del porto di Trieste verso l'entroterra, sotto qualunque cielo e a qualunque condizione. L'idea-mito attraversa il ventennio inarcandosi nei discorsi di propaganda. Nel sottofondo, tuttavia, i dubbi appaiono fin da subito: saranno poi i più ferventi irredentisti di un tempo (da Fulvio Suvich all'alto funzionario dello Stato, Iginio Brocchi, capo gabinetto del ministro delle Finanze Volpi) a ricucire alle spalle del porto, almeno fin dove ciò sarà possibile, la trama dei rapporti lacerata dalla guerra e non più in grado di funzionare come polmone per la città. Strana ironia della sorte per quei non pochi ferventi patrioti italiani di educazione austriaca: è immediata la trasposizione della vecchia immagine del nemico (l'austro-tedesco) nell'universo dei necessari e stimati collaboratori. Sulla magra realtà di un panorama economico europeo completamente diverso dal passato, in cui la potenza d'Italia può appunto giocare solo una debole (ma non per questo non pericolosa) partita a scacchi, tutti i vecchi miti (della guerra, della vittoria, della romanità) si ripropongono sotto vesti cangianti. Al sogno imperiale di conquista "sulle vie dell'espansione nei Balcani e nel Levante" non si rinuncia, in un'Europa sempre più divisa: è "Trieste la nuova trincea d'Italia per la sua necessaria espansione verso il mondo danubiano, levantino, balcanico". Il bisogno d'ordine e di rapidi riassestamenti economici e sociali diventano a questo punto il grimaldello che può essere usato (con diverse responsabilità e a diversi livelli) per frantumare il contesto dello Stato liberale e di diritto. I nuovi linguaggi della politica puntano ad una continua escalation di fantasmi e di paure: il "nemico" esterno proietta la sua ombra minacciosa e vivida all'interno dello Stato italiano. La paura, di fatto, "annusa" un potenziale pericolo, un continuo turbamento lungo frontiere non ancora definite e fortemente contese. Gli sloveni e croati rimasti all'interno del nuovo confine nazionale in via di definizione non sono gli avversari di sempre, sono le quinte colonne del Regno dei S.H.S. I socialisti a loro volta sono le quinte colonne della rivoluzione sovietica. Le fonti documentarie prodotte dagli Uffici Ito dell'esercito (Informazione truppe operanti) che nel primo dopoguerra hanno anche compiti di sorveglianza sulla popolazione civile offrono a tale proposito l'esempio più significativo di un lessico dell'esclusione e del sospetto, che non annuncia la pace tra i popoli. L'immagine che essi disegnano dell'area di frontiera esce dai circoli locali, per giungere ai centri decisionali dell'autorità governativa. La pace è comunque armata dall'una e dall'altra parte: l'idea del nemico che si va costruendo con spezzoni presi da opposti schieramenti ha la forza di un vortice comune, che attrae tutte le parti politiche, tutte le nazionalità. Anch' essa serve a ricomporre inquiete identità. Un altro tema che va considerato sia per il confronto tra l'empito dei miti di vittoria e di potenza e la "spigolosa ruvidità del risveglio", sia in relazione all'inquieto vivere di queste terre è senza dubbio quello particolarmente contorto della "cittadinanza": il diritto principe da riconoscere alle popolazioni entro i nuovi confini europei, ridisegnati dopo la prima guerra mondiale. Inutile dire che ogni caso presenta la sua peculiarità e che la stessa definizione di "cittadinanza" aprirebbe qui lunghe discussioni. Ma non è su questo terreno che mi voglio addentrare. Per rimanere ancora una volta ancorata ai mille rivoli delle fonti, è molto utile prendere in considerazione un intero fondo denominato "Cittadinanza" esistente proprio presso l'Archivio di Stato di Trieste. Il Trattato di Saint Germain che dipana (o inizia a dipanare), ad esempio, il contenzioso tra nuovo Stato austriaco e potenze dell'Intesa, interessa ovviamente anche l'Italia ed in prima battuta il punctum dolens del confine orientale o quanto meno di una sua parte. Le "clausole relative alla cittadinanza" determinano alcuni punti fermi (Chiunque abbia la pertinenza in un territorio che faceva parte dei territori dell'antica monarchia [...] acquisterà di pieno diritto, ad esclusione della cittadinanza austriaca, la cittadinanza dello stato che esercita la sovranità sul territorio predetto), ma si coronano poi di una serie di sottili "distinguo" quando quel diritto può diventare tale solo per "elezione", per scelta: è allora necessario il vaglio di apposite Commissioni. La ratio delle clausole dei Trattati indubitabilmente punta ad una riconfigurazione dei territori dell' ex Impero austro-ungarico che abbia una sua compattezza etnico-linguistica; già prima della firma dei Trattati (di Saint Germain, e poi quello di Rapano nel novembre del 1920) gli eserciti occupanti, almeno per quel che riguarda proprio l'area al confine orientale, avevano provveduto ad epurazioni-espulsioni di persone "di altra lingua e razza" non politicamente gradite. È anche vero, tuttavia, che l'attività di quelle Commissioni, dopo la carica suonata dagli eserciti, deve procedere con una nuova cautela. E di certo ciò accade non perché persone di "altre razze" risultino ora più ben accette. Innanzitutto molte di quelle Commissioni consultive istituite per circondario e restate in vigore fino al 1927 sono composte, contro ogni altisonante proclama, anche da eminenti personaggi sloveni e croati, scelti tra "i moderati". In secondo luogo la complicata traduzione burocratica delle norme del trattato in questione (e dei trattati successivi) impone numerose deroghe, in senso positivo, rispetto agli elenchi degli inclusi nella cerchia dei cittadini italiani: la lentezza esasperante delle pratiche, l'ignoranza incolpevole degli interessati che non si destreggiano tra codici e codicilli, il numero dei ricorsi diretti a diverse autorità istituzionali, forza le maglie di un ingresso che indubbiamente era stato pensato con maggior rigore selettivo. C'è tuttavia dell'altro: vanno considerati "i vuoti" lasciati da chi si vede rifiutata la domanda di cittadinanza per diritto di pertinenza, elezione o opzione e che possono di certo essere colmati da altre presenze di nazionalità italiana e non sospetti politicamente: vi è comunque un reticolo di professioni (anche minute) che rischia di strapparsi a danno di tutti. I commercianti, ad esempio, che a lungo vagano nell'incertezza (siamo già nel 1926) di un conferimento certo di cittadinanza (necessario per ottenere i passaporti), inevitabilmente interrompono il regolare svolgimento degli affari, che non sono solo affari di carattere privato. Ancora più significativa la vicenda del clero "allogeno": nel 1923 su 63 domande di cittadinanza, ne vengono respinte 41 e la prefettura, col parere delle Commissioni, crede di aver fatto egregiamente il suo dovere, fino a quando non giunge un richiamo dal ministero dell'Interno, sollecitato da alcuni vescovi della Venezia Giulia. È certo già in pieno corso il lungo iter di riavvicinamento tra il mondo cattolico e il mondo laico e sono già in vista le trattative per il Concordato: ciò che colpisce in una lettera del vescovo di Pola a Mussolini, del gennaio 1923, è l'equivalenza clero/mantenimento dell'ordine, anzi del nuovo ordine nazionale nonché il fiorire degli stereotipi. Le cesure, gli strappi, incidono su un tessuto di autorità riconosciute: senza di esse il pericolo non è solo religioso, ma morale e politico. "Le popolazioni slave e rurali hanno bensì dei difetti, ma nella loro massa sono buone... ed affezionate ai loro pastori spirituali. I difetti di quelle popolazioni sono noti; serpeggiano in diversi punti il concubinato [...], lo spergiuro e soprattutto la vendetta con i rispettivi danni ed assassini [. . .]. Le masse delle popolazioni slave amano l'ordine e la religione [. . .] frequentano la chiesa... ascoltano volentieri la parola di Dio". Il leit-motiv è noto: l'attacco alla rete ecclesiale è respinto dai vescovi giuliani contendendo all'autorità civile una parte del suo stesso vocabolario di legittimazione (ordine, pace, nazionalizzazione). Il ministero degli Interni, almeno per questa volta, chiede cautele alle periferie più riottose ed il prefetto della provincia di Trieste, sebbene a malincuore, è costretto a segnalare che solo uno dei ricorsi presentati dai 41 sacerdoti cui non è stata conferita la cittadinanza italiana è stato accettato. Per il resto si affida allo stesso ministero degli Interni. La categoria della convenienza e non quella della moderazione è quella che si attaglia meglio a definire tali scelte: di fatto il tessuto dei popoli conviventi da secoli sullo stesso territorio non può essere strappato del tutto. Sullo scenario europeo lo sradicamento di intere popolazioni è agli albori: i primi esperimenti gettano (caso greco-turco), forse, il seme per un futuro non lontano. Ad ogni modo, nel lungo e difficile percorso che l'idea di "cittadinanza" stava compiendo nel tempo d'Europa, la pace di guerra degli anni Venti impone pesanti freni e inevitabili retrocessioni (dalla cittadinanza alla sudditanza), scatena radicalismi violenti, si porta dietro la tentazione dell'omologazione di nazione e di "razza". Non sono dettagli che restano chiusi dentro stretti confini. Rispetto alle altre regioni d'Italia, nella Venezia Giulia il fascismo conosce dunque un precoce successo, perché sa innestarsi con indubbia abilità politica nei conflitti sociali e soprattutto nazionali che continuavano ad imperversare da decenni in quest'area e che la guerra rilancia. Soprattutto esso sa fare tesoro del clima di incertezza diffusa, esasperato dalle difficoltà e dai molti fantasmi che una situazione magmatica, come quella appena descritta, suscita. Carattere distintivo del "fascismo di frontiera" è infatti l'epopea della "difesa del confine nazionale", accompagnata dalla forte aggressività contro i nemici esterni ed interni. Le squadre fasciste, guidate dal toscano Francesco Giunta, sanno appunto cogliere questo ribollire della società civile che ben si coniuga con l'acuto senso della "guerra non finita e da non finire" dei poteri militari e con il desiderio di molta parte dei ceti dirigenti che temono l'incandescente intreccio di ribellione sociale e ribellione nazionale. Sono molte le squadre armate, capaci di spostarsi da Trieste da un capo all'altro della regione; raccolgono i disorientati, gli inquieti, masse di persone rifiutate da altri schieramenti. La loro violenza è quella della "devastazione", secondo quanto affermano le stesse fonti dell' epoca. Devastazione è una parola forte, un termine militare che contiene modelli e tipologie organizzative di carattere bellico. La federazione del fascio di Trieste conta già nel 1921 circa 14.000 iscritti: è la più importante d'Italia. Il 13 luglio del 1920, con l'incendio del Narodni Dom - sede delle principali organizzazioni slave della città e collocata nel centro di Trieste - accompagnato da paralleli atti di violenza a Pola e Pisino rappresenta una data simbolica di svolta. Quelle fiamme ritornano nei discorsi di propaganda degli anni successivi e sono da subito un'immagine emblematica diffusa dalla stampa nazionale. Le fiamme che si elevano dagli edifici, e tutte le operazioni d'assalto che ne causarono le distruzione, aprono con tutta evidenza lo scenario dell'alleanza in corso tra i nuovi portatori di violenza e parti importati dello Stato, non più disposte a rispettare le tradizionali regole della convivenza sociale e politica. "Dalla Venezia Giulia deve muovere la riscossa. È un Piave perfetto la nostra regione": è Francesco Giunta che richiama un mito nazionale forte e insiste ancora: "La Venezia Giulia ha il posto che nel Medioevo ebbero le marche di confine, contro l'invasione straniera". Valenza nazionale, valenza simbolica, linguaggio guerresco: le squadre organizzate da Giunta giocano così le loro carte, interpretano così il loro ruolo su una scena locale che vuol essere laboratorio e insieme modello per tutta l'Italia. Il loro progetto è un coacervo d'idee, ma non è senza idee: sono ideologie composite che chiedono insieme ordine e ribellione, gerarchia ed eversione per una nuova idea di nazione e di patria. La dittatura necessaria come "imperio della parte più sana della nazione sui partiti degenerati, come imposizione necessaria e violenta dell'ordine": con queste parole, invece, non uno squadrista, ma un esponente molto vicino alla borghesia agraria e industriale friulana, Piero Pisenti, futuro ministro di Salò, sembra sancire la confluenza tra il vecchio ed il nuovo, tentando di tenere a bada la corda pazza della violenza. Lo Stato forte è la sirena che ormai incanta anche le seconde file. Sono poi queste a gestire la fase successiva dell'assalto, spesso attraverso percorsi complicati che puntano ad avere nella vecchia guardia nazionalista, più colta e preparata, il riferimento privilegiato. Sono proprio questi uomini coloro che contribuiscono a rendere solide le basi dello stesso Stato fascista (basti ricordare la figura di Alberto Asquini, allievo di Alfredo Rocco) e a rappresentare, nel con tempo, l'avanguardia della presenza fascista nella stessa Austria e nei Balcani: la meta di una penetrazione economica e di un controllo politico in quell'area non è mai abbandonata, nemmeno negli anni in cui l'alleanza italo-tedesca trionfa. I ceti medi, intanto, gli avvocati, i medici, gli impiegati, gli insegnanti trovano un varco aperto per rivendicare impieghi e carriere, nella politica "contra barbaros", che il primo fascismo sta propalando ai quattro venti per ottenere spazi e "visibilità". Il primo fascismo, tra l'altro, sa accodarsi molto bene alla frantumazione di quelle sicurezze sociali che l'Impero aveva saputo dare ad una parte della popolazione: esso riesce così a solleticare in molti casi le ambizioni di alcune categorie professionali (i medici, ad esempio). Dopo la conquista del potere, l'eversione fascista si fa violenza di Stato, che ha tra i suoi obiettivi prioritari, volendo incarnare l'idea di forza e di potenza, quello di distruggere l'identità nazionale delle popolazioni slovene e croate, ormai parte della patria italiana: tutto ciò in memoria di antichi contrasti, e quindi con un forte senso di rivincita, ma anche in odio verso qualsiasi forma di "diversità" possibile all'interno di uno Stato gerarchico e dittatoriale, uscito da una guerra "vittoriosa". L'omologazione delle "minoranze" avanza, con diversi sistemi, in tutti gli Stati europei: in Italia, la dittatura dà una particolare coloritura a tale meta, che forse rappresenta un progetto imperfetto, ma è pur sempre rivelatore di una mentalità, di un'ideologia. Su questo obiettivo converge sia la legislazione repressiva applicata contro gli oppositori del fascismo sia una serie di misure specificatamente mirate alla "bonifica" etnica della regione, fra le quali si distinguono i provvedimenti diretti ad impedire l'uso pubblico della lingua slovena e croata (abolizione della stampa slava, soppressione dell'insegnamento in lingua slovena e croata, chiusura dei circoli culturali) ritenuti premessa indispensabile per l'assimilazione degli "allogeni". Unica cultura, unica lingua: la lingua e la cultura della "civiltà superiore". Tutto ciò - nella complessa articolazione della politica antislava - è spesso presentato come un dono, o, se provoca sofferenza, come una sofferenza necessaria. Sofferenza necessaria è certo quella dell'italianizzazione dei nomi e dei cognomi. Una significativa differenza viene introdotta dalla legislazione proprio a tale riguardo. La legge del 10 gennaio 1926 prevede che si debbano "restituire" i cognomi in forma italiana (cancellando i segni di linguaggi appartenenti ad una civiltà "inferiore"), ma che la loro "riduzione" (e riscrittura) in italiano sia facoltativa: in realtà è questo un piccolo esempio che aiuta a capire come agiscano in accordo le organizzazioni fasciste e l'apparato dello Stato, ancora vincolato al vecchio Statuto Albertino, pur rivisto e "forzato" in più punti. Le autorità istituzionali provvedono alla "restituzione di fatto e d'autorità" ed esplicitamente si affidano al Pnf per "la riduzione" (ed il ricatto verso gli incerti o i ribelli). A tali provvedimenti si accompagna la persecuzione degli elementi ritenuti capaci di fungere da coagulo per le comunità nazionali slovene e croate, in primo luogo i preti, i maestri, i capi-villaggio. Infine, la liquidazione del tessuto cooperativo e creditizio slavo, già in prepotente ascesa in epoca asburgica, frena bruscamente le vive speranze di affermazione sociale degli sloveni e dei croati. La borghesia slava della Venezia Giulia (o quello che ne era rimasto, dopo i molti provvedimenti di espulsione e le molte fughe avvenute già alla fine della guerra) viene drasticamente ridimensionata e di fatto sostituita, negli uffici pubblici, nelle professioni e nell' economia privata, da "homines novi" di provata fede italiana, in tutti i casi in cui tale operazione è possibile e vantaggiosa. Bisognava infatti rendere appetibili, ad esempio, a italiani delle vecchie province le cariche di podestà senza compenso in territori isolati e scomodi. Bisognava giocare sul filo del rasoio della repressione violenta e del mito della civiltà superiore, tra un modello di esclusione ed uno di inclusione condizionata. Nelle campagne e nei piccoli borghi, era più difficile tale operazione di sostituzione e, spesso, l'espulsione del ceto dirigente o dei ceti medi sloveni e croati ivi esistenti si rivelava solo un ostacolo pesante per il funzionamento delle stesse istituzioni. Non mancano del resto tentativi di corruzione, di adescamento da parte dello Stato fascista; né le comunità slovene e croate (urbane e contadine) danno tutte compattamente la stessa risposta di ripulsa al regime dittatoriale. Cedimenti e compromessi, adattamenti e consensi non sono rari. L'opposizione non sempre veste i panni dell'antifascismo "consapevole" (ma quanti sono gli antifascismi?). Non va comunque mai dimenticato che i sistemi di polizia hanno, lungo il corso del ventennio, un' azione deterrente di grande rilievo (i moltissimi provvedimenti di ammonizione e di confino, le carcerazioni e le condanne a morte comminate dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato), mentre vengono creati ad hoc proprio sul finire degli anni Venti altri istituti, come l'Ispettorato speciale del Carso, guidato dal capo fascista Emilio Grazioli, con fini di controllo capillare dell'area periferica urbana: essi riescono a funzionare molto meglio di tutti gli altri tentativi compiuti, per mezzo delle organizzazioni del Pnf e delle istituzioni statali, con particolare riferimento sia alle trasformazioni economiche indispensabili per il retro terra carsico e per l'Istria poverissima sia all' assistenza ed al soccorso dei più miseri. L'esempio di rapporti inusuali tra Stato e società diventa oggetto di consapevole esibizione. E per molti versi tali modelli di comportamento incarnano proprio la modernità di uno stato dittatoriale. La carenza di mezzi finanziari blocca poi la maggior parte dei progetti, mentre la costruzione di miti propagandistici (il mito di Roma, la potenza salvifica della civiltà latina, ad esempio) non riesce a trasformarsi in modelli di vita da proporre "ai diversi": nemmeno l'esaltazione della modernità e della ruralità, spesso indicate come schemi culturali che possano convivere senza difficoltà, raggiunge risultati duraturi; il disprezzo verso gli "allogeni" e le misure repressive smascherano facilmente il volto suadente del "fascismo benefico". Del resto è interessante notare come il discorso della snazionalizzazione assuma dentro di sé coloriture razziste che dilatano i confini dei vecchi stereotipi con nuove tipologie di linguaggio supportate da una propaganda via via più violenta soprattutto nel momento in cui cominciano a soffiare i venti di guerra. Allora il fascismo "bonificatore" non è solo quello che deve migliorare le condizioni economiche e morali delle popolazioni allogene ma, appunto, alla fine degli anni Trenta è quello che deve "bonificare" il territorio al confine e "saturare" quelle terre con "la presenza della nostra razza". Quel lessico politico si avvia a di­menticare la distinzione paternalistica tra il buon popolo con­tadino ed i suoi capi perversi; lo stigma razziale è inscritto nell'immagine di truculenta malvagità e bruttura che la stampa rimanda, soprattutto in determinate occasioni (nel momento delle plateali celebrazioni dei processi del Tribunale speciale a Trieste, nel 1930 e nel 1941, ad esempio); il determinismo razziale parla, in questi casi, attraverso i corpi dei ribelli condannati. Si può ipotizzare una sorta di "razzismo coloniale" nel caso dei rapporti tra italiani, da una parte, e sloveni e croati, dall' altra: una civiltà superiore contro una "non civiltà", per connotare la quale emergono dalla tradizione sedimentata del razzismo di inizio secolo (in Italia e altrove) gli strumenti ne­cessari. Razza e difesa nazionale, razza e modernità, nel contesto del confine orientale così prossimo allo scenario dell'Europa orientale: su questi temi, a proposito dei quali ha giustamente insistito Enzo Collotti, molto ancora c'è da indagare e sarebbe bene venissero valorizzate pienamente, accanto alle fonti orali, anche le fonti minori per un arco di tempo lungo (dall'opuscolame propagandistico, alle riviste di varia natura, ai quaderni di scuola, ai giornaletti per ragazzi fino alle prediche in chiesa), stabilendo un saldo confronto con la storiografia slovena e croata e ricostruendo nel dettaglio l'incrocio tra composizione sociale ed etnia nella Venezia Giulia negli anni del fascismo. E ancora: quanto pesano tutti questi "razzismi" su un regime generalmente considerato più mite e magnanime rispetto ad altri modelli? In ogni caso, quand'anche si scopra che il corpus ideologico fascista, in relazione al razzismo antislavo, rappresenta solo un coacervo di idee disorganiche e che le teorie furono spesso contraddette da una realtà ben più complicata, la sua devastante efficacia è indubbia sul piano dei rapporti tra popoli conviventi. La permanenza dell'intolleranza e dell'odio ne sono indiretta testimonianza: i linguaggi aspri della politica, le scelte di violenza, i processi di denigrazione e di delegittimazione reciproca scavano un' offesa profonda, frutto di una incomprensione cresciuta a dismisura nell' arco di un secolo, in cui il fascismo gioca un ruolo decisivo. Si può ben dire a questo punto che la Venezia Giulia si configura come un luogo, in cui sono messi alla prova peculiarità diverse e contrastanti dello Stato fascista: la ricerca del consenso spesso veste i panni della magnanimità del più forte, mentre lascia sempre in mostra l'arma della repressione più capillare; la modernità nasconde l'inconsistenza finanziaria del paese; il valore pregnante dei miti mostra la sua forza e le sue belle vesti cangianti, pur restando spesso sulla soglia di una casa contadina, fuori dalle relazioni e dalle logiche dei mondi di paese; "l'uomo nuovo" stenta a crescere; l'arroganza e l'orgoglio nazionalista e imperiali sta su cui il regime punta molte delle sue carte non si sciolgono tuttavia come neve al sole soprattutto per la formazione dei giovani italiani, cresciuti durante il ventennio. Che il regime crei qui, con tale politica, compatti schieramenti contrapposti è poi un assunto che va discusso: perché l'antislavismo non è appunto l'unico strumento di esclusione e di marginalizzazione che esso assume e impone. La disarticolazione della società civile passa ancora attraverso molti canali ed è trasversale, spesso, alla contrapposizione nazionale: dopo il 1938 tale processo diventa molto evidente. Per avviarmi alle conclusioni, va detto comunque che le comunità slovene e croate, prova tangibile di "diversità" non omologate, continuano ad apparire come realtà che hanno punti di riferimento significativi, che fungono da protezione di un'identità comunitaria peculiare: si tratta soprattutto dei sacerdoti, coloro che già in epoca austriaca avevano svolto un ruolo non da poco nel processo di costruzione dell'identità nazionale slovena e croata e che, nelle mutate condizioni del ventennio, cercavano in ogni modo di difenderne princìpi e valori, preservando così anche il legame che li univa alloro popolo di credenti. La Chiesa cattolica si trova fortemente esposta alle pressioni del regime, soprattutto dopo la firma del Concordato che poneva su un piano ben diverso, rispetto al passato, i rapporti tra Chiesa e Stato. Come detto, sono numerosi i sacerdoti sloveni e croati mandati al confino, anche prima del 1929; molti altri vengono intimiditi o sottoposti a violenze. Senza dubbio, l'allontanamento dell'arcivescovo di Gorizia, e poi quello del vescovo di Trieste sta ad indicare che il clima è mutato: quei presuli, che con tenacia avevano difeso il diritto naturale degli sloveni e dei croati all'uso della loro lingua, per lo meno nella sfera religiosa, erano osteggiati da una buona parte dello stesso clero italiano, poiché venivano percepiti come un potente elemento di contraddizione nelle nuove relazioni di pacificazione tra Chiesa e regime. Non è difficile su queste basi un accordo ai vertici delle gerarchie ecclesiastica e politica per espungere personalità incapaci di un'obbedienza supina. La rete ecclesiastica, pur strattonata e lesa in più punti, è tuttavia tenacemente presente sul territorio, nelle aree rurali marginali e povere: gli ambigui risvolti dell'alleanza tra Chiesa e fascismo toccano anche queste terre, dove la rivalità tra i due poteri comunque preme sotto la coltre delle molte convergenze ideali e dei molti compromessi. Quei nuclei comunitari sloveni e croati sono invece scompaginati dalle forti spinte emigratorie, che vanno ben oltre la fase del primo dopoguerra, verso la Jugoslavia e verso i paesi transoceanici (la quantificazione è tuttora di difficile definizione, nonostante l'importanza degli studi prodotti), per motivi politici e/o economici: partono indubbiamente molti giovani, alla ricerca di migliori condizioni di vita, ma spesso - si può certo immaginare - con rabbia e rancori difficili da sopire. Quel confine orientale esaltato come barriera inespugnabile, diventa, soprattutto negli anni della grande crisi, un "confine poroso". I dati del censimento etnico fatto compiere in maniera riservata dal governo fascista nel 1939 e basato sulla lingua d'uso, sembrerebbero dimostrare che alla vigilia della seconda guerra mondiale la consistenza della popolazione slava presente entro i confini del Regno d'Italia fosse in calo, sia pur in termini contenuti e diversificati tra città e campagna. L'emigrazione e le politiche dell'odio e dell'esclusione avevano dunque avuto il loro peso; il fatto poi che la stessa fonte rimarcasse, nonostante tutto, la presenza di circa quattrocentomila alloglotti alla vigilia della guerra al confine orientale suonava come una precisa minaccia per il regime e, nello stesso tempo, come la non compiuta snazionalizzazione delle popolazioni slave. Alle soglie della guerra, quando il problema delle minoranze nazionali diviene l'esca propagandistica che fa scattare la trappola della guerra in Europa, la paura dei dirigenti e dei "consiglieri" del Pnf è molta: "fusione e unificazione della razza [...] nei territori di frontiera", è la proposta di un ex mazziniano passato ormai da tempo nelle file fasciste. Ci vogliono tuttavia politiche di forte impatto, investimenti finanziari significativi per raggiungere l'obiettivo, di un confine che sia anche un "confine razziale": in questo nuovo modello razziale fascista, contaminato dalle spinte antisemite ormai in atto sul territorio nazionale, c'è ancora posto per un'idea di assimilazione, stravagante solo in apparenza. Si può ancora pensare, sottolinea l'estensore della relazione appena citata, ai matrimoni misti, tra donne slave dell'Istria e del Carso, con militari italiani o uomini della Milizia: le donne slave, potenzialmente pericolose per la capacità di trasmettere la lingua nazionale ai figli, sono poste in realtà in questa gerarchia sociale al gradino più basso, secondo una concezione di puro disprezzo e secondo i canoni di una tradizione del "do­minio maschile" corroborata dall'idea della forza virile dell'uomo militarizzato. Il frutto avvelenato di vent'anni di lacerazioni ed insipienze viene così lasciato in pasto alle nuove violenze che solo la guerra è in grado di alimentare: una nuova ondata di intolle­ranza che accomuna questa volta slavi ed ebrei scuote fin dal 1941 (e dall'invasione della Jugoslavia in particolare) la città di Trieste. "Squadroni della morte" si aggirano nello spazio urbano, portando con sé una violenza aggiuntiva rispetto a quella dello Stato, esibita anch' essa secondo i canoni del terrore, il terrore di uno Stato tirannico che ha ormai scoperto le formule proprie dello Stato totalitario. Alcuni anni fa ricerche condotte sulla base delle testimonianze orali, riportavano le espressioni di gioia di uno sloveno che guardava dalla periferia i bombardamenti su Trieste: un'immagine icastica e simbolica insieme. Dalla periferia, tenuta lontana e divisa dalla città quasi ad occupare uno spazio simbolico di estraneità e di "non esistenza" si profilava lo spettro della vendetta. Gli slavi, i vicini sconosciuti o denegati dei piccoli centri interni dell'Istria e di tutta l'area del goriziano, si preparavano a voltare pagina. Basta tuttavia questa osservazione che delinea un contesto preciso a spiegare quanto accadde nel secondo dopoguerra, con il dramma delle foibe e dell' esodo? Secondo me un forte elemento di discontinuità si apre nel 1945: la tragedia della guerra e dell'occupazione fascista in Jugoslavia, ricordata qui dagli altri relatori, va confrontata con altri progetti di violenza e con altri abissi d'odio che nessuno volle o fu in grado di controllare. "La vendetta" fu spesso solo un pretesto, mentre la violazione dei diritti dell'uomo fu una realtà che nessuna promessa di un mondo migliore, in futuro più o meno lontano, poteva giustificare o rendere degna. La necessità di creare dei contesti che spieghino il perché degli accadimenti non deve togliere nulla alla rilevanza di questi ultimi, alle nuove fratture e lacerazioni che tali eventi drammatici aprivano in modo tale che il passato veniva capovolto ma con le stesse logiche di disumanità. Spiegare non serve, se non c'è questa presa di coscienza che è anche smarrimento.

da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004

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