Documenti dell'ANED di Milano

Gianfranco Maris

Presidente dell'Aned e della Fondazione Memoria della Deportazione

Nel suo XIII Congresso nazionale, tenuto a Trieste nel settembre del 2004 all'interno del campo di sterminio della Risiera di San Sabba, l'Associazione nazionale degli ex deportati politici italiani ha voluto, innanzitutto, rievocare la lotta epocale che le donne e gli uomini di Europa furono chiamati a combattere dal 1939 al 1945 per impedire che il folle e criminale disegno della guerra fascista facesse retrocedere i popoli in un "ordine nuovo" di schiavitù. La presenza dell'Aned in San Sabba è emblematica della capacità che uomini diversi ebbero di camminare uniti quando le mete della libertà e della giustizia lo richiesero. Ma la nostra presenza in questo sacrario dello sterminio nazi­fascista ha voluto essere anche il ricordo del costo della libertà pagato da questa terra di confine nella temperie di particolare repressione e di violenza durante e sotto il fascismo, nel quadro dell'occupazione militare italiana della Slovenia e della Croazia e dell'occupazione tedesca dell' Adriatisches Kuestenland. Questa terra fu poi travolta nella tragedia che portò alle foibe del 1943 e del 1945 e all'esodo lacerante dall'Istria della popolazione italiana colà residente da secoli. I deportati politici italiani intendono rievocare e condannare tutti i massacri e capire tutte le vittime, perché mai, come oggi, è necessario impegnarsi per far capire che violenza, repressione, guerra sono sempre distruzione di pensiero, di civiltà, di lavoro di tutte le donne e di tutti gli uomini che comunque vivono e convivono sotto lo stesso cielo. La comunità della Venezia Giulia, nei 20 mesi dell'Adriatisches Kustenland, conobbe la più feroce repressione che i nazisti abbiano mai imposto alla popolazione dei paesi occupati. La comunità della Venezia Giulia rispose unita, con una lotta eroica di resistenza che non fu seconda a nessuna altra resistenza europea, superando le divisioni che le derivavano dalle memorie disunite delle violenze del fascismo prima e dell'occupazione militare italiana poi. Questa terra, che era stata divisa dalla violenza fascista e dalla violenza dell'occupazione militare italiana, ritrovò l'unità nella resistenza contro i tedeschi. Nelle strutture di questa vecchia Risiera ha operato un apparato coercitivo feroce, omogeneo a tutti gli apparati coercitivi di morte disseminati dal nazismo sul suo territorio e in tutti i paesi occupati, da Mauthausen a Dachau, da Buchenwald a Ravensbrück e ad Auschwitz. La Risiera è soltanto una della tante stazioni di morte aperte in tutta Europa per annientare gli uomini e spegnere le luci della civiltà e delle culture dei popoli: strutture che hanno dato undici milioni di morti solo nei campi di annientamento e di sterminio dei politici e degli ebrei. Per organizzare questa struttura il grande Reich inviò a Trieste il gruppo più esperto della sua polizia di sicurezza, che si era formato nell'operazione eutanasia nel 1941 in Germania, sopprimendo 77.000 cittadini tedeschi perché inabili, "rami secchi" che pesavano con le loro bocche inutili sulla comunità tedesca in armi, privi, quindi, di ogni diritto alla vita; che si era formato a Chelmo, a Belzec, a Sobibor, a Treblinka nello stermino degli ebrei polacchi: uomini come Otalio Globoknik, Oberhausen, Allers. Qui i partigiani italiani, sloveni e croati, non furono "assassinati" perché, se assassinio definissimo la loro morte qui, useremmo una semantica eufemistica minimizzante. Nella Risiera i partigiani italiani, sloveni e croati furono sgozzati, furono finiti con mazze di ferro, furono gasati in camion ermeticamente chiusi. E quelli non sgozzati e non finiti con le mazze di ferro furono deportati per essere eliminati, con il lavoro e con il gas, a Dachau a Mauthausen, a Buckenwald, ad Auschwitz. Un quarto dei deportati politici italiani è caduto qui o da qui è partito per il suo viaggio verso la morte. Tutti sono nel nostro cuore e nella nostra memoria, che è un valore solo se diventa una coordinata etica che ci guida e ci muove all'azione e non resta soltanto un ricordo sterile: una coordinata che ci guida nel nostro presente e nel nostro futuro e nel nostro agire politico quotidiano. Nel suo XII Congresso nazionale, che si tenne nel 2000 nel campo di sterminio di Mauthausen, l'Aned, volendo trarre dalla memoria del passato l'indicazione dei valori guida per il nostro tempo, affrontò in quel suo congresso i temi dei cambiamenti in atto nella società umana e nel mondo e delle tensioni connesse a questi cambiamenti. Ritenne necessaria una riflessione per capire quale fosse, nell'anno 2000, l'agire politico da porre in essere, eticamente filtrato alla luce della nostra memoria, per affrontare, nella giustizia e nella solidarietà, i problemi delle immigrazioni, delle società pluraliste, dei mercati globalizzati, dei diritti fondamentali e di cittadinanza di ogni persona. Ancora oggi questi sono problemi vivi e doloranti nei paesi di un Mediterraneo che conosce la morte per annegamento di donne e di uomini e di bambini, che lasciano le loro terre per la fame e che qui non trovano accoglienza. Ma a questi problemi, vivi e doloranti, oggi un altro se ne aggiunge ancora più lacerante. Il mondo è pieno di lampi e di angoscia per la guerra e per il terrorismo. Un'angoscia che è andata crescendo dopo l'11 settembre 2001, dall'Afghanistan all'Iraq: un'angoscia che attanaglia il cuore degli uomini e sembra paralizzare le intelligenze ed ottundere le coscienze, incapaci di imboccare il sentiero della ragione, nonostante l'esperienza e la memoria del massacro della seconda guerra mondiale. Noi ci siamo illusi che quella fosse stata la lezione indimenti­cabile del mai più guerre e non abbiamo saputo impedire lo stillicidio di una ininterrotta serie di guerre regionali, di violenze locali, che hanno reso la seconda metà del secolo scorso non dissimile dalla sua prima metà. Ma l'angoscia di oggi non è quella di prima dell'11 settembre. Oggi l'angoscia ci deriva da una guerra che ben può definirsi il primo conflitto dell'Era globale. Una guerra che ha relegato nella marginalità tutte le violenze regionali precedenti, che ha ricadute su tutti i popoli tramite una strategia mediatica lugubre, di cui il terrorismo, che la guerra globale esprime, si avvale oltre qualsiasi limite di crudeltà umana, oltre i limiti di tutte le barbarie conosciute. L'origine e lo sviluppo del terrorismo di oggi ripetono esattamente i processi di sviluppo della guerra e del terrorismo nazi­fascista. La guerra e le violazioni contro l'umanità, la guerra e il terrorismo, la guerra e le stragi di Marzabotto e di Sant' Anna di Stazzema, la guerra e la Risiera di San Sabba e Mauthausen, la guerra e la scuola di Beslan, la guerra e il metrò di Mosca, il teatro di Mosca, gli aerei di Mosca, la guerra e i cortili dell'Iraq, gli ostaggi sgozzati, la guerra e le strade di Israele e la stazione di Madrid e la metropolitana di Londra. Non c'è dubbio, il terrorismo è la guerra. Il terrorismo è una sfida mortale che minaccia tutto il mondo. Nella lotta contro questa minaccia è indispensabile essere uniti, non c'è dubbio. Ma tutti debbono avere l'umiltà, prima, e il coraggio, poi, di confrontarsi e di dialogare e di percepire dove matura, dove avviene l'incubazione che precede l'esplosione del terrorismo. Se le stragi del terrorismo servissero solo per una chiamata alle armi, significherebbe soltanto che gli uomini retrocedono nel buio dei secoli, che si degradano al livello tribale, che non hanno capito nulla della storia della carneficina della prima guerra mondiale, della carneficina della seconda guerra mondiale, del terrorismo del nazismo e del fascismo. Le lacrime dell'anima non debbono appannare la capacità di capire, di scegliere, di agire tutti insieme. È, questa, la condizione perché l'efficacia contro il male comune sia massima. L'Europa con gli Stati Uniti, l'Europa e gli Stati Uniti insieme con le Nazioni Unite, l'Europa e gli Stati Uniti e le Nazioni Unite insieme con i popoli arabi e con l'Islam, per convincere i popoli arabi e l'Islam che hanno un avvenire diverso da quello del fanatismo, per convincerli che l'occidente non vuole imporre a nessuno i suoi modelli con i bombardamenti, che non ha in animo nessun colonialismo di tipo nuovo per impadronirsi delle risorse degli altri popoli. Gli ex deportati politici ritengono che sulla comunità italiana incomba da sempre il nodo delle memorie divise, politicamente strumentalizzato a fini mistificatori e di delegittimazione della Resistenza. Una sorta di anomalia della storia, per cui la Resistenza, la Liberazione, la Repubblica, la Costituzione, tutti i momenti fondanti di tutta la comunità nazionale, avrebbero prodotto soltanto memorie divise, confliggenti, antagoniste, che impediscono il formarsi di un sistema di valori condivisi, i quali soltanto sono il motore del sistema politico democratico. Le memorie divise non sono un male marginale che possa essere ignorato. Sono un male che affonda le sue radici nella storia, nella repressione violenta della libertà per venti anni da parte del fascismo, nelle responsabilità del fascismo per gli orrori della guerra scatenata, per la sua collaborazione con l'esercito occu­pante che mise a ferro e fuoco il Paese nel corso dell' occupa­zione militare tedesca dal '43 al '45. Le memorie divise sono un male che non può essere esorciz­zato come molti pacificatori d'accatto vorrebbero fare, con assurde equazioni di eguaglianza. I partigiani da una parte e i fascisti dall'altra - dicono - hanno occupato due trincee contrapposte ma simmetriche, gli uni di qui e gli altri di là, tutti uguali comunque. Ed oggi, dopo aver negato che la Resistenza possa essere ricordata e celebrata come liberazione per tutti, si vuole addirittura, con una legge dello Stato, equiparare i collaborazionisti fascisti ai militari degli eserciti nella seconda guerra mondiale belligeranti contro il fascismo e contro il nazismo. Non c'è dubbio che queste memorie divise non possono essere unite per legge, che non possono mai calpestare la storia, il diritto, l'etica della responsabilità. Ma non c'è dubbio anche che queste memorie divise perpetuano contrapposizioni che si riflettono negativamente sull'agire politico e sulla vita democratica del Paese. Per questo, proprio qui a Trieste, dove il passato continua a pesare più che altrove, abbiamo voluto affrontare questo nodo delle memorie divise, che hanno radici lontane e ragioni forti che perpetuano antagonismi laceranti. Per questo abbiamo avviato, per noi innanzitutto, una rivisitazione non ideologica di tutti i fatti della storia di questa tormentata regione, nella consapevolezza che in tutte le memorie vi sono enfasi e silenzi che rendono ciascuna memoria più rigida, più tagliente, più antagonista. Non c'è dubbio che la Venezia Giulia ha conosciuto e sofferto, nei primi anni venti del suo nuovo assetto territoriale, dopo la prima guerra mondiale, la repressione di un fascismo di confine intriso di nazionalismo violento; più violento che in qualsiasi altra parte del Paese, che lacerò, negandole addirittura, le minoranze slovena e croata, le quali, nei secoli, hanno sempre costituito, con quella italiana, le componenti essenziali di un'unica comunità plurilinguistica che fu sempre, e che avrebbe dovuto sempre essere, considerata come la ricchezza di un intero territorio. Questo nazionalismo violento e aggressivo usò tutti i mezzi per emarginare le minoranze giungendo persino a veri e propri crimini di Stato, alle condanne a morte da parte del Tribunale speciale fascista ed alla esecuzione dei condannati nel 1930 a Basovizza e nel 1941 ad Opicina. Questa violenza, derivante anche dall'occupazione militare italiana della Slovenia e della Croazia nel 1941, raggiunse poi dimensione di diffuso annientamento della popolazione civile anche sul territorio italiano, con rastrellamenti, esecuzioni sommarie e deportazioni. Noi tutti, deportati dal resto d'Italia, che dal 1943 al 1945 siamo stati lacerati dai lutti, dalle lacrime, dal sangue delle vittime dei fascisti e dei tedeschi, noi che abbiamo preso le armi per combattere i tedeschi e i collaborazionisti fascisti, noi che abbiamo conosciuto la guerra di annientamento dei civili delle terre dove siamo nati, non possiamo non condannare ciò che l'esercito italiano fu comandato a fare e che ha fatto su altre terre. È lacerante pronunciare la condanna di ciò che ha fatto il tuo esercito, ma è più lacerante tacerlo. Il silenzio non sarebbe solo menzogna. Il silenzio ti priverebbe del diritto di condannare quelli che hanno offeso te e del diritto di essere orgogliosi di aver preso le armi contro di loro. Per rispettare la verità storica, debbono essere rivisitate anche le foibe del 1943 e del 1945, per quanto in esse non è riconducibile a nessuna misura di ritorsione umanamente spiegabile con le tante violenze patite in precedenza, per quanto in esse vi fu espressione non di ritorsione per antiche offese ma violenza nazionalista di Stato. Nessun uomo potrebbe mai, senza mortificare la sua stessa dignità di uomo, sdoppiare la propria coscienza per condannare il nazionalismo violento dell'altro e per assolvere il proprio. È solo nella verità che tutte le memorie si purificano e possono sublimarsi; quindi, anche senza mai confondersi, senza mai unirsi, possono incontrarsi nella storia senza più odio in un fecondo sistema di valori condivisi. Proprio questi temi abbiamo voluto affrontare, a conclusione del XIII Congresso dell'Aned, con le relazioni di studiosi affermati in un Convegno che si è tenuto nel Teatro Miela e che è stato concluso dal Presidente Oscar Luigi Scàlfaro. Raccogliendo in questo volume le relazioni di questo Convegno gli ex deportati politici intendono portare il loro contributo, rivolto soprattutto alle giovani generazioni, alla conoscenza di un periodo tragico della storia del nostro Paese.

da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004

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