Documenti dell'ANED di Milano

Augusto Cambi

Un gappista nel lager - Cronaca di una resistenza

Iniziamo la pubblicazione dei "Quaderni della Fondazione della Memoria della Deportazione - Biblioteca Archivio Aldo Ravelli" con l'intento di rendere noti saggi, documenti e scritti autobiografici che contribuiscono alla più completa conoscenza di uno dei principali crimini del XX secolo: i campi d'annientamento nazisti. Abbiamo voluto dedicare questo primo numero alle memorie inedite di un protagonista poco conosciuto di questa tragedia, Augusto Cambi, recentemente scomparso. Tornato dai lager di Fossoli, Mauthausen e Wiener-Neustadt, Augusto Cambi era diventato uno dei più noti avvocati civilisti di Milano, sempre coerente con gli ideali antifascisti e l'impegno politico della sua giovinezza. Queste memorie ce le ha consegnate Anna Picardi Baldacci, cugina di Augusto Cambi, nel giorno dei suoi funerali, nell'edificio delle cremazioni nel cimitero di Lambrate. L'ex deportato Cambi non ha mai voluto scrivere direttamente la storia della sua sofferta esperienza nei campi nazisti: si limitava a raccontarla a chi lo assisteva durante la lunga malattia che lo ha condotto alla morte. Queste memorie sono state raccolte e rielaborate da Anna Picardi Baldacci, seguendo il filo della sua descrizione. Si tratta di un documento che può apparire frammentario, ma che ci restituisce, nella sua immediatezza e drammaticità, la vita, le sofferenze e le aspirazioni di uno dei deportati nei campi di sterminio nazisti che hanno avuto il privilegio di far ritorno a casa. Da parte nostra, faremo in modo che l'iniziativa di questi "Quaderni", possa contribuire a rendere pubbliche, e consegnare alle future generazioni, altre memorie di ex deportati che altrimenti rischierebbero di scomparire assieme ai loro autori.

Gianfranco Maris

Testimonianza raccolta da Anna Picardi Baldacci

Ogni passo che si compie camminando - rifletteva quel giorno di primavera - allontana da un luogo mentale ed avvicina ad un altro luogo forse vagheggiato o temuto, sconosciuto o indifferente o semplicemente atteso e noto. Il moto alternato delle gambe e l'oscillazione pendolare delle braccia del morbido meccanismo del corpo costruiscono, pazientemente, passo dopo passo, una lenta transizione mentre la scarpa appoggia, per qualche attimo, sul selciato dove qualche filo d'erba, che spunta da una crepa dell'asfalto, ti sorprenderà. «La transizione - scrive Tommaseo - viene dal latino transitionem. È passare da un ragionamento, da un soggetto, da un tono ad un altro. Passaggio da uno stato di cose ad un altro». «Passaggio - lei aggiungeva - dalla tonalità maggiore alla tonalità minore nella partitura segreta della memoria e dell'anima. Si può oscillare tra le due tonalità esattamente come, camminando tra le case, si passa dalla luce del sole all'inquietudine sospesa nell'ombra». «È forse, la provocazione "sonoro-visiva" di questa città a costringere i miei occhi retrattili di lumaca a sparire nel pozzo silenzioso delle mie eterne domande. Ne sono sicura». Stava andando a trovare un amico malato, Augusto Cambi. Percorso il lungo portico, preso, alla terza scala, l'ascensore per il 15° piano, sarebbe approdata, in breve, ad una meta abituale ed attesa. Da alcuni anni, una decina forse, comunicavano continuamente tra loro, ma, in realtà, si conoscevano da più di cinquanta anni. Sapeva perfettamente come sarebbe stato il loro incontro e quale atmosfera lo avrebbe circondato per qualche ora. Disteso sul letto, appoggiato a molti cuscini, diafano, con gli occhi azzurri quasi spenti, fissava con determinazione nel vuoto. La voce sicura ed i gesti delle mani incisivi ed essenziali, costruivano ancora una sua indiscutibile autorevolezza. Del resto era sempre stata colpita dalla concisione del suo discorso e dalla lucida ironia che, a tratti, lo pervadeva. Dopo l'abbraccio rituale si sarebbero disposti alla conversazione, contenti per le due o tre ore che avevano davanti a loro. Ci sarebbe stata, prima, una breve cronaca giornaliera, poi, da parte di Augusto, l'esposizione di qualche piccola contrarietà o la confessione di un gradevole peccato di gola... e sarebbero poi approdati ad altri temi. Viveva così, bene assistito, da più di un anno, da quando, cioè, la sua malattia, non gli aveva dato più tregua. Ma era chiaro che non desiderava questa sopravvivenza. «Cosa ci faccio qui?» - le aveva domandato una volta con amarezza, senza, ovviamente, attendere da lei una risposta. Non aveva ritenuto di doverlo consolare; non era questo che lui voleva. Gli disse solamente che non si può scegliere la propria fin de partie, ed era a questo che si sarebbe, ancora una volta, coraggiosamente uniformato.

Si erano conosciuti a Milano, nell'estate del 1945. Augusto era appena tornato dal campo di concentramento di Mauthausen. Cugino del suo futuro marito, si sarebbero incontrati, quel giorno, per la prima volta. Li aspettava al Duomo. Appoggiato con le spalle ed una gamba piegata contro il muro della chiesa, attese che lo raggiungessero. L'incontro fu cordiale, la conversazione con altri due amici fu vivace. Passeggiarono poi lentamente, in una Milano segnata pesantemente dalle distruzioni e nella quale circolavano, sferragliando, vecchi tram e pochissime automobili antiquate. Fu colpita subito dalla sua intima energia e dal linguaggio spoglio ed estremamente preciso. Vi affioravano spesso toni francamente beffardi, che la divertirono. Era molto magro ma le sue condizioni fisiche erano buone. Dopo questo primo incontro, altri ne sarebbero seguiti, nel corso degli anni futuri, ma non furono certamente frequenti. Diversi erano i loro interessi, l'ambiente, la vita che parevano non concedere nulla più di un amichevole e sporadico dialogo. Solo la politica li univa.  «Non c'è cultura senza dimensione politica», asserivano entrambi. Del resto quel loro interesse era nato negli stessi anni, nello stesso clima, all'interno di una stessa ribellione e di una stessa totale indignazione che aveva mosso le loro azioni. Dopo il suo ritorno, passato qualche mese di riposo presso degli amici nella campagna toscana, aveva ripreso la sua attività di avvocato civilista. Aveva sistematicamente rifiutato ogni carica politica e parlamentare che gli era stata offerta dal Partito comunista a Milano ed al suo paese di origine, in Toscana. Aveva accettato, solamente, di essere l'avvocato del sindacato Cgil, ed a questo lavoro si era gratuitamente dedicato per vent'anni. La sua vita attiva, ma sapientemente organizzata, si svolgerà, così, con grande attenzione ai suoi spazi privati, gelosamente salvaguardati.

Circa dieci anni prima di quella sua visita primaverile, Augusto aveva cominciato a rivolgersi a lei, per piccoli consigli pratici. La sua salute gli dava ora qualche problema e, benché lavorasse ancora, rimaneva a lungo in casa. Ma nell'inverno '95 i suoi problemi l'avevano talmente tormentato che si era trasferito, per un certo tempo, nella casa di lei. Quando si era ripreso ed era tornato nel suo appartamento i loro contatti erano ormai divenuti quasi quotidiani. Lentamente, nel tempo, la malattia aveva poi preso il sopravvento. Da quando, dunque, non lasciava praticamente più la casa, ed ora anche il letto (se non per qualche ora in poltrona) impercettibilmente qualche cosa sembrava essersi modificata in lui, incrinando la sua impenetrabile segretezza. Sembrava, quasi, che volesse, ora, coinvolgerla di più nei suoi spazi mentali. «Ti dirò, - le aveva detto in una di quelle sue visite - sono ora certi piccoli rituali banali a dare ordine, se non senso, al mio tempo. Il giorno e la notte, ormai, si confondono e non serve più che il sonno e la veglia, abbiano un loro spazio deputato. Dopo tutto, anche questo può diventare una piccola libertà: no?.. Da quando anche gli occhi mi hanno abbandonato, mi è rimasta solo la memoria da consultare... ma a questo, lo confesso, non ero affatto preparato. Mi ero ripromesso, finito di lavorare, di rivisitare tante cose del passato e di fissare anche degli appunti per un piccolo studio su quella che era stata la nostra organizzazione dei Gap, una struttura politica, particolare per efficienza e duttilità, da studiare teoricamente in quel determinato quadro storico». Mai, nel passato, Augusto aveva accennato alla sua vicenda resistenziale, come al lungo anno della deportazione a Mauthausen e lei, naturalmente, non gli aveva mai posto nessuna domanda. Non aveva, però, potuto interpretare quel silenzio impenetrabile come una rimozione, bensì come la collocazione razionale di quegli avvenimenti lontani nell'economia complessiva della sua vita. Una sola volta, infatti, Augusto aveva spontaneamente accennato alla deportazione, dicendole: «Vedi, l'ho sempre considerata un incidente di percorso, addirittura prevedibile, data la mia attività clandestina; ma niente di più. Del resto, non amo nessuna forma di reducismo». Ma, più tardi, con altri piccoli accenni, era sembrato che volesse invitarla nell'Ortus conclusus dei suoi ricordi: uno spazio ombroso dove le sue scelte politiche, i suoi radicati affetti, il governo assoluto della ragione vi costruivano la complessa struttura della sua persona. «Comunque - lei pensava - passare dalla memoria alla parola, prevede sempre una transizione, forse un faticoso itinerario interiore». Per questo lei, molto guardinga, non aveva, per il momento colto l'occasione, attendendo ancora fino a che, un giorno, Augusto le aveva raccontato un episodio della prigionia, francamente surreale, del quale avevano riso insieme. Una volta, dunque, quando era già deportato da alcuni mesi a Wiener-Neustadt, un detenuto polacco aveva trovato, chissà dove, un mazzo di carte. Lo aveva consegnato al prigioniero francese Bernier che, eccitatissimo, aveva convocato lui, quella sera stessa, insieme con un altro compagno, per fare una partita di bridge... L'avevano fatta, fortunosamente, sopra un tavolo improbabile... Non avevano resistito a lungo, naturalmente, e non avrebbero mai più tentato l'impresa, ma descrivere i particolari di quella scena da teatro dell'assurdo lo deliziava... Attratta, ormai, da quel percorso possibile che si stava aprendo davanti a lei, gli aveva detto che avrebbe voluto conoscere quella sua lunga vicenda. Se possibile, avrebbe fissato sulla carta quel percorso, in modo cronologicamente corretto, per poi conservarlo gelosamente, come una "storia" inedita, una cronaca corredata di nomi, date, luoghi: una testimonianza. «Ma tu lo permetteresti?» gli aveva domandato. «Non ho niente in contrario, se questo può esserti utile» le aveva risposto. «Puoi farmi tutte le domande che vuoi: ti risponderò. Il tracciato l'ho ben presente ­ aveva sorriso - ma ripercorrendolo potrei, forse, ricordare dei particolari o delle connessioni dimenticate». Il lungo racconto era allora iniziato. Si era articolato, nel tempo, in tappe informali, a volte lunghe, a volte brevi, sempre ben circostanziate dato che la memoria di Augusto era integra. Lei prendeva degli appunti. A volte, naturalmente, altri argomenti attuali si frapponevano per qualche tempo; poi la narrazione riprendeva. Nel 1940 Augusto, cresciuto in una famiglia toscana, rigorosamente antifascista, dove aveva avuto una sua prima formazione politica, era entrato nel Partito comunista clandestino. Sulla tessera, che conservava gelosamente, risultava, infatti, che la sua iscrizione era avvenuta nel 1940 a Milano. La sua cellula si trovava nello studio del dentista Bortolani, in corso del Littorio. Dopo l'8 settembre, il compagno Lorenzetti del Psi, indisse delle riunioni, nello studio Mazzotta, progettando dei gruppi di "Guardia nazionale di resistenza armata". Ma, nel frattempo, erano rientrati dalla Francia, dei compagni fuorusciti che, avendo fatto parte dei "Francs Tireurs", avrebbero contribuito all'organizzazione dei "Gruppi di azione patriottica, Gap". Il 3° Gap sorse a Milano nell'ottobre '43, al comando di Egisto Rubini. I gappisti erano divisi in squadre "blindate" di quattro compagni, che facevano riferimento solo tra loro. In tutta Milano, quella struttura chiusa, agile ed efficiente, comprendeva circa quaranta uomini. Augusto, destinato all'attività militare, aveva il suo collegamento con il compagno Rubini. «Un compagno meraviglioso - le aveva detto ­ per intelligenza e coerenza. Grande organizzatore. Era lui che teneva i rapporti col Cln». Augusto venne arrestato, per una delazione che aveva già coinvolto Rubini, Bardini e Roda, la sera del 21 febbraio 1944. Il delatore, Tenaglia, sarà poi arrestato, portato a Fossoli e lì subito liberato. Il comandante Rubini, poco più che quarantenne, venne rinchiuso in isolamento il giorno 18 febbraio nella cella n. 125 al terzo piano del 6° raggio, nel carcere di San Vittore a Milano. Si impiccherà con un lenzuolo, all'alba del giorno 25, temendo di non potere più resistere alla torture. Il suo nome, nell'organizzazione Gap, era stato Rossi. Questa storia essenziale della clandestinità affiorava semplicemente nel racconto di Augusto quasi la rileggesse, ora, in una sua attenta annotazione. Ma le poche parole dedicate a Rubini sembravano venire da un testo diverso, rivelando una presenza viva dell'amico, una sua ideale attualità. Lei leggeva quel coinvolgimento nell'esposizione attenta di date, cifre, nomi ed in una impercettibile esitazione della voce... Proprio in quel periodo, Augusto era stato incaricato di scrivere un opuscolo di istruzioni per l'organizzazione dei Gap: ma il suo arresto aveva bloccato il progetto e tutto il materiale già pronto aveva dovuto essere distrutto. Era stato, dunque, arrestato il 21 febbraio e portato a San Vittore al 6° raggio, piano terra, cella n. 6. Vi rimase in isolamento per due mesi subendo molti interrogatori, due dei quali, a distanza di sei giorni, con pesanti torture. Come risulterà all'inchiesta sulla caduta del 3° Gap, e come lui accennerà, sarà l'ultimo gappista arrestato. In prigione aveva conosciuto il compagno Bardini. Due guardie carcerarie li tennero sempre in contatto. Davano loro le notizie e, di nascosto, li portavano insieme all'aria. Più tardi fu colpito dalla notizia che anche le due guardie Ceresa e Sapienza erano state deportate a Bolzano. In prigione si era venuti a sapere che il cardinale Schuster elargiva una somma per arricchire segretamente il vitto del carcere ed il geometra dell'istituzione, Battaglia, che si occupava delle manutenzioni all'interno del carcere, portava segretamente ai prigionieri delle lettere e dei pacchetti che i parenti dei detenuti gli consegnavano. Anche l'amico di Augusto, Ravelli, arrestato in quei giorni, era riuscito ad organizzare nel carcere squadre di lavoro di vetrai, lavandai, addetti alle pulizie che, in divisa da galeotto, potevano circolare liberamente portando notizie ai prigionieri in isolamento. Era giunta anche la sconcertante notizia che il cardinale era riuscito a far tornare in Italia Pesenti ed un religioso, suo grande amico, già deportati a Mauthausen. Un avvenimento assolutamente inedito. I due, naturalmente, avevano raccontato la realtà sconosciuta e terribile che avevano visto nel campo. Il 26 aprile un folto gruppo di "politici", tra i quali Augusto, da San Vittore fu portato a Fossoli ed, in parte, alloggiato nella baracca n. 18. Vi resteranno due mesi. Con loro era anche il compagno Manfredo Dal Pozzo. Era stato portato con Augusto a San Vittore al 6° raggio, cella n. 12. Duramente torturato e tenuto digiuno comple­tamente per sei giorni, sarà poi trasferito a Fossoli ed alloggiato nella stessa baracca di Augusto e nello stesso "castello". Ma alla partenza dell'amico per Mauthausen resterà a Fossoli e lì sarà fucilato nell'eccidio dell'11 luglio. Nel frattempo, era arrivato anche il compagno Poldo Gasparotto. Fu incaricato di dirigere il progetto di disegnare la mappa del campo per tentare una fuga collettiva. Lavoravano con lui Olivelli e Comencini... Denunciati, saranno tutti fucilati. A Fossoli poterono sempre ricevere notizie attraverso una buona organizzazione politica e, con l'aiuto dei familiari, anche il vitto fu sufficiente. La madre di Augusto si era, nel frattempo, sistemata presso un contadino della zona, ed ogni giorno andava a salutarlo da lontano. Quando poteva, gli gettava piccoli pacchi oltre la rete del campo. Fu quello di Fossoli, un periodo politicamente molto particolare. Augusto, Guermandi, Scarabelli e Masetti di Bologna organizzarono la sezione del Partito comunista: Bardini fu eletto commissario politico. Si era saputo, intanto, che era rientrato in Italia Palmiro Togliatti e che si progettava l'ingresso del Pci nel governo Badoglio, per partecipare alla lotta insieme a tutte le altre forze antifasciste. Le discussioni con i socialisti, contrari a quella linea politica, infuriarono accanitamente e violentemente in tutti quei giorni. Fossoli sarà definitivamente chiuso in agosto. Gli amici Belgiojoso e Ravelli saranno tra gli ultimi a partire per raggiungere Mauthausen.

Nella seconda metà di giugno, improvvisamente, vennero estratti a sorte 700 prigionieri, che sarebbero dovuti subito partire, per destinazione ignota. Anche Augusto fu selezionato e fu questo uno degli infiniti interventi del Caso che avrebbe poi segnato, segretamente, tutte le loro vicende future. Il giorno 20 furono trasportati a Carpi e caricati, con tutti i loro bagagli, su dei carri merci. Si diffuse, in quelle ore, la voce che ci sarebbe stato un attacco partigiano, per tentare la loro liberazione. Alcuni ferrovieri lasciarono aper­to, di nascosto, un vagone: Bonfantini ed altri due o tre prigionieri, poterono così dileguarsi, facendo perdere le loro tracce. Il viaggio, iniziato il 21 di giugno, sarebbe durato quattro giorni. Attesero otto ore, fermi nella stazione prima di partire; poi il loro convoglio si mosse, ma durante il tragitto fecero ancora lunghe soste in luoghi sconosciuti, abbandonati per ore ed ore sui binari morti. Avvenne nella penombra e nell'immobilità, quella transizione verso nulla che fosse loro noto. «Si dovrà ora aprire un nuovo capitolo, se vorrai proseguire - le aveva detto Augusto con un sorriso - perché, da ora, nulla assomiglierà più a nulla». «Siamo dunque arrivati a destinazione nel pomeriggio del 25 di giugno. Alla stazione,  quando furono aperti stridendo i portelloni, leggemmo, per la prima volta, il nome di Mauthausen» .

In una lunga colonna si erano poi mossi, sulla strada che saliva verso il campo, trascinando i loro bagagli. Ma appena giunti furono loro subito confiscati. Poté conservare solo i suoi occhiali. Nella lunga fila dietro di lui in quel percorso, c'era il suo amico Mino Steiner che, sopraffatto dallo squallore del paesaggio, gli bisbigliò sgomento: «Da qui nessuno di noi uscirà vivo». Augusto ricorda di averlo subito tacitato violentemente per quel cedimento. Steiner morirà alcuni mesi dopo, ad Ebensee. Passarono tutta quella prima notte all'addiaccio, spogliati nudi, in attesa di passare, l'indomani, al bagno. Il giorno dopo, fatto dunque il bagno e completamente depilati, inizieranno la "quarantena" volta, con ogni evidenza, alla loro totale spersonalizzazione. Si applicherà loro un braccialetto col numero di matricola di sei cifre: 875... saranno i suoi primi tre numeri. Gli altri tre sono stati completamente dimenticati. Ognuno doveva essere in grado di ripetere il proprio numero, in tedesco e ad ogni richiesta, ma quella pronuncia impervia doveva avergli completamente cancellato il suo dalla memoria. Dormirono in baracche su dei pagliericci posati sul pavimento. Rivestiti con stracci indefinibili, passarono le loro giornate in piedi nel grande spazio chiuso tra due baracche che aveva il selciato fittamente ricoperto di sagome appuntite, in modo che non fosse possibile a nessuno sedersi, neppure per un istante. Per Augusto ed il suo gruppo, questa tortura durerà undici giorni. Quando poi era venuta la richiesta di mano d'opera da Wiener-Neustadt, venne consegnato a tutti loro il vestito a righe dei deportati, il berretto e gli zoccoli di legno. Si prepararono alla partenza. «Mi ricordo - le aveva poi detto - di aver incontrato, in quel poco tempo di soggiorno a Mauthausen, piccoli gruppi di ebrei e di aver pensato, allora, analizzando la nostra nuova condizione, che la mia forza ed il mio privilegio, sarebbe stato l'essere completamente solo: la mia famiglia era lontana, al sicuro, in Italia e ignara...». Furono subito ufficialmente avvertiti che loro italiani (in quanto traditori badogliani) ed i prigionieri russi non avrebbero mai ricevuto posta, né alcun pacco della Croce Rossa. E così fu. Si resero conto, del resto, che i detenuti comuni avevano qualche piccolo vantaggio, rispetto ai politici. In quei giorni il compagno Bardini, membro del direttivo del Partito a Fossoli, sarebbe dovuto partire con Augusto, che era stato selezionato con altri 700 prigionieri, per andare a lavorare a Wiener-Neustadt. Ma all'ultimo momento un gruppo di compagni spagnoli, combattenti come lui sul fronte antifranchista in Spagna e suoi amici personali, riuscirono a trattenerlo. Nell'ultima notte, allora, correndo un grande rischio, era andato a dormire di nascosto accanto ad Augusto, per potergli dare tutte le istruzioni necessarie ed affidargli l'organizzazione del Partito, in attesa che la loro cellula potesse preparare le elezioni interne. Augusto sarà allora confermato segretario. Il loro modello politico sarebbe stata l'organizzazione che aveva retto il Partito nel carcere di Portolongone e Turi di Bari per tanti anni, rigidamente, con inflessibile disciplina. Vittorio Bardini, tornato in Italia diverrà segretario della federazione di Siena, ed, in seguito, segretario regionale della Toscana.

Un'unica volta, Augusto, abbandonando il suo atteggiamento distaccato, le aveva detto con severità che tutto quel racconto non avrebbe dovuto mai, in nessun momento, configurarsi come il "racconto dell'orrore"; ma chiarire solamente come la resistenza del loro gruppo comunista si fosse organizzata e si fosse poi incessantemente elaborata dentro quell'universo aberrante e totalmente stravolto. L'imperativo sarebbe stato opporre la sopravvivenza all'annientamento. Il Partito li avrebbe proiettati ancora nel futuro, ma, soprattutto, li avrebbe ideologicamente impegnati in quel loro difficile presente. Era giunta in quei giorni fortunosamente, la notizia terribile che l'11 luglio, poco dopo la loro partenza da Fossoli, 67 prigionieri politici, senza alcuna imputazione, erano stati improvvisamente fucilati: «Ma a quel tempo - le aveva detto - volevamo essere ancora pieni di speranza. In giugno c'era stato lo sfondamento a Cassino, era avvenuto lo sbarco in Normandia ed era in atto l'offensiva russa a Stalingrado...». Il gruppo dei settecento detenuti selezionati a Mauthausen per Wiener- Neustadt, vi giungerà nella prima metà di luglio. Avrebbero dovuto lavorare alla "Rax Werke", una fabbrica di parti meccaniche per trasporti terrestri e marittimi che loro, però, non saranno mai in grado di identificare nel loro uso. Avrebbero costituito, dunque, per quell'impresa, manodopera a costo zero. Schiavi, in altri termini, insieme ad altri schiavi prigionieri di guerra russi, polacchi, cecoslovacchi e francesi. Quella grande fabbrica aveva subito vari bombardamenti americani. Una squadra di operai al comando di un prigioniero russo, l'ingegnere Sarkin, era stata incaricata di rimuovere le macerie, restaurare i muri e le macchine stesse, e creare nuovi spazi di lavoro. Resteranno a Wiener-Neustadt per otto mesi, fino al marzo 1945 ed è lì che organizzeranno la loro resistenza, con determinazione inflessibile. Discuteranno quotidianamente le notizie politiche e militari, il futuro del loro paese e le personali difficili condizioni attuali, dandosi regole di solidarietà ferrea. «Durante l'autunno - Augusto le dirà, proseguendo il suo racconto - la situazione bellica si stava evolvendo con troppa lentezza per l'entità dei nostri problemi. Inizierà un duro inverno ed io, questo devo pur dirlo dato che è essenziale, perderò i miei occhiali: un colpo irreparabile». Degli italiani trasferiti da Mauthausen, ventidue faranno parte della cellula del Partito che, con gli altri compagni del collettivo allargato, (Boldrini, Brunati, De Caro) arriveranno a venticinque. Buldrini, anarchico, era stato per ventidue anni rinchiuso a Portolongone, in isolamento. Per resistere alla terribile solitudine aveva imparato ad allevare dei canarini, ma soprattutto, studiando, aveva approfondito la propria cultura politica che aveva fatto di lui, per tutti loro, un punto di sicuro riferimento. Morirà a Modling, alla fine dell'inverno. Calatroni, ex studente di medicina, socialista, condannato a dodici anni di Portolongone, ne aveva scontati otto. Lì, a contatto con gli altri prigionieri, era diventato comunista. Un temperamento forte e sereno che accompagnerà costantemente Augusto in tutto quel loro percorso, fino alla fine. Un problema particolare sarà posto dall'arrivo del giovane fiorentino Piccagli, di sedici anni, figlio di Italo, membro di "Radio Cora", fucilato a Firenze con Bocci, Enriques, Ghergo, Panerai e Romagnoli. ("Radio Cora" aveva trasmesso, per mesi, notizie militari agli Alleati, fino alla sua distruzione). Tutti loro sorveglieranno il ragazzo, ma sarà particolarmente affidato a Focacci, membro anche lui di "Radio Cora" e deportato dal giugno. Lo seguiranno costantemente per impedirgli di cadere nella corruzione del comando tedesco come già avveniva, tristemente, ad alcuni giovani polacchi. Piccagli e Focacci si salveranno. Ogni giorno leggevano il giornale Die Wiener kriegstageblatt. Erano riusciti a procurarselo da un volontario francese della "Jeunesse de Pétain", che lavorava in un altro settore dello stabilimento. Calatroni, conoscendo il tedesco, leggeva il giornale e la discussione politica avveniva poi la sera, davanti alla "zuppa". Per poter diffondere le notizie, Augusto aveva ottenuto di occuparsi della disinfezione della grande fossa biologica: "Ispettore alla m...", ironizzava con gli altri. Questo incarico gli permetteva di fare due volte al giorno il giro completo del loro campo con il suo secchio di disinfettante ed incontrare così tutti i compagni ai quali dare, e ricevere, rapidamente, le principali notizie. Lavoravano dieci ore al giorno: dalle 7 alle 9 e 30; facevano poi un piccolo intervallo che si ripeteva alle 12 per la "zuppa" e poi lavoravano ancora dalle 13 alle 18. Cercavano, ovviamente, di produrre il meno possibile, ma il sabotaggio era del tutto escluso. La mattina e la sera c'era la lunghissima cerimonia dell'appello, che avveniva in piedi, sul piazzale del campo, con qualunque tempo. Qualcuno stramazzava, non era raro; ma non si poteva soccorrerlo, non si doveva guardarlo... Dopo l'appello serale si aveva la distribuzione del cibo: una fetta di pane con margarina ed una ciotola di pseudo tè... A questo proposito avevano discusso a lungo scherzosamente, ma non troppo, tra di loro, se fosse più produttivo mangiare quell'unica fetta di pane sezionandola in fettine sottili e prolungando, così, i tempi dell'ingestione, o ingurgitarla in pochi grandi bocconi. Le "scuole di pensiero" erano due, ed inconciliabili - aveva sorriso - ma lui aveva seguito sempre, rigidamente, la seconda… Consumavano il pasto discutendo, inseguendo la loro identità, cercando di esistere... Era allora che Augusto, dopo un poco, ogni sera, si allontanava per visitare l'infermeria, dare a tutti le notizie e rendersi conto delle condizioni dei compagni malati e degli altri ricoverati italiani. Una volta vi aveva incontrato Allodoli, un uomo ormai vinto, che teneva a tutti lunghi discorsi disperati sulla loro sorte. Ricorda di averlo così duramente minacciato da costringerlo al silenzio. Allodoli si è salvato. Augusto, con altri tre detenuti, era stato assegnato al magazzino situato in una grande costruzione in parte crollata. Lavoravano in un edificio collegato al capannone dove, su rotaia, arrivavano i vagoni che loro dovevano caricare e scaricare. Il detenuto Carrara fungeva da caposquadra. Si è salvato. Nel magazzino, con le casse di legno distrutte, qualche truciolo ed un poco di vernice poterono, a volte, accendere un fuoco e fu questo, ricorda, un loro grande privilegio. La sera raggiungevano la loro baracca, annessa alla fabbrica. Al piano terra c'era un grande deposito, al primo piano il dormitorio ed il refettorio, sede dei loro incontri. Ricevevano quattro sigarette la settimana. Una potevano fumarla, ma le altre tre le consegnavano al compagno Nardi, di Bologna, che ne diveniva il custode. Aveva costruito una scatolina dove le sigarette entravano di misura, in modo da non perdere tabacco. Servivano per comprare, da un capoblocco, una minestra in più da destinare, per una settimana, ad un compagno convalescente o a qualcuno in particolare difficoltà. L'aiuto veniva dato, con decisione comune, secondo il bisogno. Ma una "zuppa" in più od una fetta di pane venivano assegnate, quando era possibile, a tutti, in ordine alfabetico. Se un compagno nel turno di notte riceveva in regalo dagli operai liberi francesi una scodella di "zuppa", la restituiva la mattina dopo, ormai gelata, in modo che si potesse assegnarla secondo il turno. Gli acquisti che venivano fatti erano distribuiti, sempre, in modo rigidamente paritetico. Le sottolineò, a questo proposito, che un vecchio compagno di La Spezia, pur non essendo fumatore, non aveva voluto consegnare a Nardi le sue sigarette. Fu immediatamente espulso dal Partito per questo rifiuto. Morirà a Modling molti mesi dopo. Alcuni prigionieri furono attratti da questo spirito di resistenza e di coesione e si avvicinarono molto alloro gruppo, come Brunati, come il giovane musicista De Caro, del Partito liberale milanese, che chiese di far parte del collettivo allargato. «Posso affermare - Augusto le dichiarerà in uno di quei loro colloqui - che per questa nostra rigida organizzazione, abbiamo avuto, nel nostro gruppo, il 30% di morti, contro il 92% della media terribile del campo. Secondo i dati del ministero dell'Interno, su 28.000 deportati a Mauthausen, siamo tornati in 2.500. Su ventidue compagni, noi ne abbiamo perduti cinque. Mi rendo conto - aveva proseguito ­ che nei "gironi infernali" di Gusen o di Mauthausen non sarebbe stato forse possibile organizzare una frazione separata e basata ideologicamente. L'azione politica di un piccolo gruppo segreto ed autonomo non si sarebbe, forse, radicata. Ma pure, in quella nostra assurda condizione di schiavi, abbiamo potuto realizzarla a Wiener-Neustadt, un luogo feroce, ma indubbiamente, meno disperso e più appartato. Soprattutto, io credo, che l'esperienza formativa che avevamo fatta nei Gap prima e nel carcere di San Vittore e a Fossoli poi, e il confronto con la profonda esperienza dei compagni che avevano avuto a Portolongone la loro scuola formidabile, siano stati determinanti. È per questo che abbiamo potuto continuare a lottare fino alla fine. Possiamo dire che la nostra azione abbia, in qualche modo, prodotto un risultato politico inedito che si è poi concretamente tradotto, a Wiener-Neustadt, in una minore percentuale di perdite».

Erano tormentati terribilmente dai pidocchi. Ogni sera si facevano un'inutile disperata ispezione. Il cambio della biancheria era un eterno miraggio ed una volta la settimana potevano fare un bagno. Anche la barba veniva rasata una volta la settimana da un detenuto che aveva a disposizione un unico rasoio per circa 300 persone... Ogni due mesi si raderà loro anche i capelli. Alla fine di ottobre la neve ricopriva tutto e, ormai gelata, scricchiolava, accompagnando ogni passo dei loro zoccoli di legno. Dormivano in due grandi blocchi. Il gruppo dei comunisti era alloggiato nel 1° blocco. Avevano letti a castello di legno, coperti con un pagliericcio e due copertine. Per questo divenne indispensabile, dal tardo autunno, dormire in due per letto, per usufruire di più coperte, dato che il freddo era diventato insopportabile. «Rompeva le ossa - commentava Augusto ­ ben più della fame, che era ormai il sordo tormento di una inarrestabile debilitazione». (Ed il freddo, con la mancanza del pane e delle sigarette, diventerà, per tutti gli anni futuri, una sottile inquietudine. Il freddo verrà continuamente esorcizzato, mentre la scorta del pane e delle sigarette non dovrà mai mancare nella sua casa e sarà sorvegliata con preoccupata attenzione). «Poteva anche capitare - Augusto aveva proseguito esemplificando - che per una qualunque punizione tenessero digiuni, ma soprattutto, tenessero a dormire al gelo per quattro notti alcuni di noi. È stato allora che ho creduto veramente di non sopravvivere. Tieni presente - le disse ancora - che se una sera, ad un controllo, si accorgevano che un prigioniero aveva i piedi sporchi ci costringevano tutti, accompagnandoci con le sferzate, ad andarci a lavare con acqua fredda all'aperto (sempre il freddo come pedagogia...). Dopo ci veniva distribuito un litro a testa di birra gelata, che eravamo obbligati ad ingurgitare... Intanto un prigioniero comune, Romano, doveva suonare il mandolino per augurarci la buonanotte. Una stralunata invenzione della follia, come vedi... Bastava, del resto, non togliersi correttamente il berretto, davanti ad un Kapò, per essere spediti, ancora una volta, al gelo». Le volle poi raccontare, ridendo, e sempre a proposito del freddo, che un giorno in quell'inverno alcune guardie avevano lanciato ai detenuti degli indumenti. Boldrini aveva afferrato al volo un corpetto di lana celeste da bambina. Non si sa come abbia fatto, ma riuscì ad indossarlo, sotto la giacca a righe. Quasi non poteva più respirare, ma non lo avrebbe più tolto. «Nell'organizzazione nazista del campo ­ Augusto aveva fatto questa analisi per lei - ­ l'uso della tortura era dominante, quasi una sua intima dimensione. Non ho mai assistito, in quel mondo totalmente separato, ad una morte inflitta senza sadismo, quasi fosse questo il sintomo della segreta patologia che minava tutto il sistema arrivato, ormai, alla sua totale disgregazione etica». Le era sembrato di capire da quelle parole che, per Augusto, quel regime, corroso ormai dall'immane sterminio che stava perpetrando, non sarebbe stato mai più in grado di darsi un futuro e che stesse tragicamente implodendo… devastata, in dodici anni, l'Europa intera... «Per poco o nulla - aveva poi proseguito - ci venivano comminate pubblicamente, fustigazioni sul corpo denudato, con grossi tubi di gomma. Era fondamentale, allora, non lasciarsi sfuggire nessun lamento e contare correttamente, a voce alta ed in tedesco, i colpi ricevuti. Poteva, altrimenti, innescarsi una reazione di accanimento che aveva spesso portato alla morte. Una volta che avevo tenuto in tasca, per un compagno, delle piccole rondelle di rame ed ero stato scoperto, fui punito con le rituali venti nerbate, ma in un'altra occasione quando, pare, fossero mancate delle derrate dal magazzino, la mia punizione fu di tipo "esemplare" e più dura giacché doveva essere un monito per tutti». «Del resto c'era molta corruzione nell'amministrazione del campo - le disse - e si sapeva bene, che le provviste venivano regolarmente rubate». Nel corso dell'inverno, infatti, un detenuto aveva protestato col direttore civile della fabbrica, denunciando la terribile insufficienza del cibo. «Ma noi - gli era stato risposto - diamo molto di più di quanto voi dite di ricevere, perché abbiamo bisogno che voi lavoriate». Fu fatta, allora, una severa inchiesta da parte del direttore della fabbrica, ma il solo risultato fu un grande pestaggio indiscriminato dei prigionieri, ordinato dal comandante del campo. Su quel mondo, dunque, dominava l'arbitrio ed il caso. Non era sufficiente - le aveva chiarito ­ vivere 24 ore su 24, cercando di non commettere errori e di proteggersi reciprocamente, con solidale attenzione. "Kairos" - il Caso, l'Occasione - dominava ovunque incontrastato. Questa breve parola, affiorata una notte, nella mente insonne, si ripresentava nei momenti più improbabili, come spinta da uno spiritello beffardo. «Era il segno - le aveva detto sorridendo - della sua conclamata follia, che serpeggiava ormai parallela a tanto sforzo di razionalità e di vigilanza». «Ma - lei si domandava - non poteva essere, invece, il messaggio di un passato non del tutto perduto?». Poco prima di Natale fu fatto un appello e duecento deportati furono chiamati, per andare a Modling, a 40 chilometri da Vienna, dove una fabbrica di aerei, Messerschmitt, richiedeva mano d'opera. Augusto riuscì a farsi esentare, ma sette od otto degli italiani dovettero partire. Tenevano ora contatti regolari di collaborazio­ne con il francese Bernier ed il russo Sarkin ed i loro connazionali. Tutti mostravano interesse per l'organizzazione, la compattezza ed il "funzionamento" del loro gruppo e ci furono anche delle discussioni ma, alla fine dell'inverno, quando già la neve cominciava a sciogliersi, fu chiaro che le risorse fisiche di tutti, indistintamente, stavano ormai esaurendosi. Era necessario, da parte loro, aumentare ancora la sorveglianza reciproca e risparmiare energie nel tentativo di superare quegli ultimi mesi di freddo. «È rimasta una debole traccia nella memoria, di questo tempo residuo a Wiener-Neustadt, fino a marzo - le disse. - Un tempo puramente metronomico... La nostra storia stava consumandosi, ma volevamo impegnarci ancora, sulla nostra linea inflessibile anche se ormai come automi...». Il 29 marzo 1945, all'improvviso, poiché il fronte russo stava ora, impetuosamente, avanzando da oriente, fu ordinato il trasferimento, a piedi, di tutti i detenuti verso Steyr che si trovava a sud-ovest. Un esodo disastroso. Furono dieci giorni di cammino, dei quali otto, percorsi sotto la pioggia battente. Augusto ed altri due compagni sosterranno a turno, per tutta la lunga marcia, Tommasi e Montuoro ormai sfiniti. Riuscirono a portarli fino a Steyr, ma poco dopo, trasferiti di nuovo a Mauthausen, vi moriranno. Durante la marcia il compagno Guenno, ormai moribondo, verrà ricoverato per la notte in un fienile, ma non arriverà all'alba ed al buio, sotto la pioggia, scaveranno, a turno, una fossa per lui. Anche il giovane De Caro morirà poco dopo quel trasferimento. Lo aveva visto, con pena, trascinarsi da solo in fondo alla lunga fila che proveniva da Modling, quando le loro due colonne si erano incontrate. «Un momento desolato, - le disse - una dura sconfitta». Quegli spostamenti surreali, quel vagare di larve, concludevano perfettamente tutta l'as­surdità, che era stata vissuta in quei lunghi mesi. Era stata solamente la lettura politica della loro intera vicenda - le aveva spiegato - e l'impegno incessante ad avere salvaguardato il loro equilibrio interiore aggredito da tanta follia. Alla fine della marcia Augusto si ammalerà, ma poiché a Steyr la fabbrica era stata chiusa e non c'era più il lavoro massacrante di sempre, poté riposarsi e lentamente guarire. In quegli ultimi giorni anomali, quando già in lontananza, si sentiva il rombo dei cannoni del fronte, un gruppetto di detenuti fu mandato a rimuovere delle macerie a circa un chilometro dal campo. Attraversando un grande prato, dove erano spuntati dei fiori gialli, tutti si gettarono in terra per mangiarli. «Avevano un sapore acidulo - ricorda ancora Augusto - e non del tutto sgradevole». Alcuni civili, che passavano in bicicletta sulla strada, nel vedere quel gruppetto spettrale inginocchiato per terra gridarono, per incoraggiarli, che i carri armati alleati erano ormai in marcia su Steyr... che la guerra sarebbe finita presto... Il giorno seguente, quando attraversarono di nuovo il prato, raccolsero i fiori in una pentolina che avevano portato con loro e, giunti a destinazione, provarono a cuocerli in acqua su un fuoco improvvisato. Ma, cotti, risultarono assolutamente disgustosi. Quel mese stava passando in giorni sfilacciati, in condizione di totale incertezza, senza riferimenti. Vennero portati, di nuovo, fuori dal campo per rimuovere dei covoni di paglia che coprivano grandi fosse, piene di patate che venivano così conservate per l'inverno. Il loro compito era farne la cernita e, con un coltellino, risanare quelle andate a male. Lavorando, tutti i prigionieri mangiarono pericolose quantità di tuberino crudi, ma Augusto, tristemente, non riuscirà ad inghiottirne, per il disgusto, un solo boccone. La guerra sarebbe, dunque, finita presto. Sul pennone del campo, il 5 di maggio, alle ore 12, era stata finalmente issata la bandiera bianca. Il comandante del lager - che faceva parte dell'esercito e non delle SS - aveva preso accordi con i rappresentanti dei prigionieri, e si teneva pronto, se fossero arrivati i russi che temeva particolarmente, a scappare in abiti borghesi. In quel breve interregno, si ebbe un unico episodio di violenza, contro un guardiano. Quello stesso 5 di maggio, nell'attesa delle truppe alleate, e nella grande confusione emotiva, il cibo non verrà consegnato. («Ma benedetti figlioli - commentarono - non potevano aspettare ancora qualche ora? Proprio al momento della "zuppa", dovevano presentarsi ai cancelli?»). Quando, molto più tardi, il cibo sarà finalmente distribuito, Calatroni ed Augusto, non riuscendo a controllarsi, ne ingurgiteranno tre scodelle, ma dovranno essere soccorsi. Alcuni prigionieri russi, approfittando di tanta disorganizzazione, erano andati con un carretto, trovato nei dintorni, a razziare cibo ovunque avevano potuto. Scoperti anche dei contenitori di alcool a 90 gradi, al ritorno organizzarono, con tutti quei tesori, un loro festino, che si protrasse a lungo. Sei, purtroppo, ne morirono poco dopo ed altri, furono ricoverati in condizioni gravissime. Indecifrabili saranno gli sguardi che quei soldati americani, ispezionando silenziosamente il campo, poseranno su di loro. «Comincerà ora l'ultimo capitolo della storia - le aveva detto Augusto scherzando - ma di una storia già finita». «Sarà un capitolo indefinibile - lei pensò tra sé - intimamente contraddittorio, come un ritorno a casa...». Insieme a Calatroni che, appena avvenuta la liberazione, aveva avuto un grave tracollo psichico, si recarono per due giorni nella zona americana per tornare, poi, in zona russa dove, muovendosi casualmente, tra i vari "campi di raccolta", rimasero circa tre mesi, facendo un breve soggiorno anche a Sopron, in Ungheria. Alla fine, quel loro vagare inquieto, finì e furono consegnati agli americani, che dovevano fornire i convogli per il loro ritorno in patria. Irrorati di Ddt, ormai disinfestati e riacquistate ragionevolmente le forze, fu possibile organizzare la loro partenza. Era il 15 agosto. Fecero ancora una sosta di sette giorni a Saint Polten, e poi ripartirono per Milano, dove arriveranno nel pomeriggio del giorno 25. «Non sarà stato facile per il suo amico - lei si era detta, ancora una volta - passare dalla memoria alla parola». Ma sembrava avere fatto con semplicità quella traduzione certamente complessa. Vinta l'inerzia iniziale, era sembrato che avesse voluto limitarsi a tracciare le linee della resistenza inflessibile, umana e politica che tutti loro avevano opposto. Era questo l'aspetto che lui privilegiava su ogni altro. Precipitato nell'ingranaggio di una micidiale macchina di annientamento, l'imperativo - questo è stato già detto - era divenuto la sopravvivenza dell'intero gruppo come unico, possibile gesto di dignità di un uomo. Tutto, della intima transizione che Augusto aveva dovuto compiere in quei mesi, era stato sequestrato dalla sua totale adesione a quell'impegno, cancellando così ogni possibile dimensione narrativa. La struttura segreta del personaggio non aveva fatto filtrare che qualche rara esitazione o qualche silenzio... «Quando muore un vecchio uomo - recita un detto della cultura orale Bantù - è come se andasse a fuoco una intera biblioteca». Certamente era stata la densità di quell'immagine a sospingere lei lungo quel percorso coinvolgente. Le aveva suggerito che ogni pensiero, ogni evento, ogni moto interiore perduto scolpirà di segreta nostalgia tutto il vivere futuro.

Supplemento a Triangolo Rosso, n. 1 gennaio 2002

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