Documenti dell'ANED di Milano

Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano

Nella Lilli Mascagni

Mi dice: "Gestapo". Rispondo: "Lilli"

 

Nella Lilli Mascagni è nata a Villalvernia (Alessandria) il 18 settembre 1921. Si trasferì con la sua famiglia a Bolzano, quando il padre, ferroviere, sottoposto a continue vessazioni da parte dei fascisti a Genova, venne comandato alle ferrovie del capoluogo altoatesino. Si diplomò nel 1940 all’Istituto Magistrale e, nello stesso anno, si iscrisse alla Facoltà di Magistero dell’Università di Torino. La guerra interruppe i suoi studi. Compagna di Andrea Mascagni ("Corsi"), nel periodo 1943-1945 entrò a far parte della Resistenza come staffetta partigiana della formazione che operava in Val di Fiemme. Fu arrestata una prima volta nel novembre 1944 a Cavalese. Rilasciata, venne nuovamente arrestata nel febbraio 1945 ed internata con la matricola n. 10599 nel blocco celle del Lager di Bolzano. Nel dopoguerra ha insegnato nelle scuole medie della provincia di Bolzano e, conseguita l’abilitazione, nelle scuole elementari. È stata per alcuni anni presidente ed animatrice della sezione provinciale dell’ANPI. Testimonianza scritta di Nella Lilli Mascagni; Bolzano, aprile 1999.

 

Coloro che in prima persona, e pur in condizioni tanto diverse, hanno severamente sofferto l’ultimo conflitto mondiale, non si sottraggono ad una sorta di intimo conflitto: ricordare perché impossibile disperdere i duri eventi subiti o, al contrario, allontanare la memoria, spinti dal riaffiorare di fatti e situazioni sconvolgenti. Un contrasto che si accentua in chi ha avuto la ventura di scendere, comunque, in campo attivo, esposto al pericolo incombente. Mi si chiede di rammentare le vicende che mi hanno riguardato nel periodo della Resistenza. Rispondo con fatica e mi limito a episodi e momenti per me salienti, distinti per forza di cose, dagli stati d’animo di costante insuperabile tensione, angoscia, difficilmente esprimibili. Avevo poco più di vent’anni, per buona sorte sorretta da una decisa opposizione familiare alle condizioni socio-politiche del ventennio. Mi trovai dopo l’8 settembre sfollata a Predazzo assieme all’allora mio fidanzato Andrea Mascagni, con le nostre famiglie. Andrea già alla fine dell’autunno ’43 prese contatto con amici decisi a lottare contro l’oppressione. Ricordo in particolare Ariele Marangoni, sfollato a Cavalese con la famiglia, che ebbe modo di gestire in loco la panetteria di Bolzano, e Mario Leoni, professore di matematica, noto per il suo antifascismo. In breve tempo in pieno accordo con altre persone, trasferite da Bolzano o di Cavalese stessa - di cui in questa pubblicazione ricorrono i nomi - si formò un solidale gruppo disposto alla lotta, che si chiamò Resistenza. Movimento che in breve tempo si dette una struttura politico-militare (Comitato di Liberazione Nazionale) e operò a lungo, superando indicibili traversie. Io non esitai a seguire la scelta di Mascagni (ormai divenuto nel movimento resistenziale "Fausto Corsi"). Il CLN di Cavalese mi affidò l’incarico di staffetta per l’intera valle, per ricorrenti spostamenti a Bolzano e soprattutto a Trento. Intensi i miei contatti anche in Val di Non, dove iniziò per primo ad operare Senio Visentin, professore di lettere, valorosissimo partigiano, nome di battaglia "Bezzi", di base a Spormaggiore, spostatosi anch’egli da Bolzano. Mantenne una costante intesa con "Corsi", coetaneo e strettissimo amico. Seguii convintamente, non senza affanni, le decisioni del CLN nelle diverse fasi del lavoro clandestino per la costituzione, in particolare, della formazione partigiana "Cesare Battisti" in Val Cadino, adiacente a Molina di Fiemme, valle libera e pressoché priva di presenza umana. Di quel gruppo partigiano faceva parte anche Quintino Corradini, "Fagioli", con il quale dopo mesi ci dovevamo ritrovare uniti al Campo di concentramento di Bolzano. Quintino, vivente, è per me un fratello. La formazione, tra incertezze di una popolazione disorientata, sostanzialmente chiusa in sé per manifeste ragioni storiche (quanto pesò il fascismo sull’intera popolazione trentina!), venne gradualmente a costituirsi con l’apporto di valligiani e di giovani provenienti da Bolzano e da Trento, indirizzati dai rispettivi CLN provinciali. Ricordo tra gli altri Marco Zadra e Sandro Bonvicini. Filtrarono le prime "indiscrezioni" e non si poté evitare l’individuazione da parte delle forze di occupazione, durante il complesso periodo preparatorio. Già nel maggio ’44 il gruppo partigiano subì un duro attacco da parte di forze naziste, in Val Cadino e dintorni, che provocò numerose vittime sul campo e catture seguite da condanne capitali. La "Cesare Battisti" inevitabilmente si sbandò, ma sia pure in gruppi sparsi, sempre nella zona di Fiemme, mantenne una decisa presenza, per riprendere l’iniziativa, sia pure tra comprensibili pesanti difficoltà. Dal rastrellamento il CLN di Fiemme, che era riuscito ad ampliare clandestini appoggi esterni nell’intera vallata, risentì fortemente di uno stato di incertezza, di destabilizzazione. Ma tempestivamente fu diffusa dettagliata informazione, la più rapida a tutti i punti nevralgici dell’organizzazione resistenziale a livello regionale. La mia personale opera di collegamento divenne intensa. Per tutti i protagonisti del duro scontro mi soffermo su Manlio Silvestri, nome di battaglia "Giovanni Monteforte", di Saccolongo (Padova), ex combattente antifranchista in Spagna, che aveva iniziato la Resistenza nel Veneto e però era stato inviato in Trentino per curarsi di una seria malattia polmonare all’Ospedale di Trento. L’Ospedale era uno dei centri di cospirazione e di riferimento preziosissimo, che aveva avuto in Manlio Pasi, "Montagna", medico ravennate di fede indomabile, il maggiore promotore; catturato come uno dei "capi" più pericolosi nel bellunese venne impiccato nel marzo ’45. Si conserva al Museo Storico di Trento un suo sgualcito messaggio: "compagni, mandatemi del veleno, non resisto più. Montagna". "Monteforte" sfugge al controllo dei medici e degli amici per raggiungere la Val Cadino. Catturato in Valsugana dopo il rastrellamento, condannato a morte dal Sondergericht (Tribunale Speciale ndr) di Bolzano, viene impiccato a Sappada nel luglio del ’44, assieme a Bortolotti e Peruzzo, ambedue partigiani di Fiemme. Di quel periodo mi sovviene soprattutto un mio faticoso spostamento a Spormaggiore, a piedi da Mezzocorona, per ricercare "Corsi", che dopo il rastrellamento aveva raggiunto "Bezzi" per concordare, attraverso contatti con Trento, come reagire al colpo subito. Non avevamo più notizie e temevamo il peggio. No: era all’opera con Visentin per la nascita di una nuova formazione in Val di Non, la "Fabio Filzi", affidata al comando di Luigi Emer, "Avio", troppo noto per descriverne il temerario carattere di combattente per la libertà, nell’azione e nella lunga detenzione. Sempre nell’agosto del ’44 si delinea un arduo problema, nelle condizioni di strettissima sorveglianza nazista in cui ci si trova: collocare in idonea località una radio e il telegrafista paracadutato nel bellunese, dal Sud, per il Trentino. Si sceglie la zona dei primi pendii del Brenta, raggiungibile da Molveno per i necessari collegamenti. Radio e addetto giungono fortunosamente a Trento e vengono nascosti. Come risolvere il problema dello spostamento, senza incappare negli abituali controlli? Mi viene affidato il compito di accompagnare a Molveno il radiotelegrafista (il friulano Matteo Brunetti, "Bruno", tuttora vivente a Udine, rimasto stretto amico). È una domenica. Arriviamo col trenino a Zambana, dove attendiamo "Corsi", che in bicicletta giunge da Trento con prezioso carico sulla specie di portabagagli retrostante, a lente pedalate per la delicatezza dell’apparato. Nello scendere dal trenino, inevitabilmente agitati, dimentichiamo la valigetta di "Bruno" contenente i suoi scarsi indumenti, ma anche le pur anonime istruzioni, che fortunatamente il tecnico ha già fissato in mente. Gli procureremo di lì a qualche giorno un minimo di cose necessarie. Saliamo in teleferica a Fai e di lì ci spostiamo a passo celere verso Molveno, dove ci attende Enrico Pedrotti, "Marco", presso la famiglia sfollata. Incontriamo faccia a faccia una nota collaborazionista, italiana di Bolzano, sospettosa di me, che si accompagna ad un SS. Temiamo, ma i due hanno altro da fare. La mattina di buon’ora la stazione prende la via dei pendii del Brenta, affidata a "Marco", "Corsi" e "Bruno". Durante il trasferimento i tre assistono ad un’incursione di quadrimotori americani su Trento. Uno degli apparecchi viene colpito e va a schiantarsi sulla Paganella. Tra gli aviatori che si gettano in vasto raggio col paracadute, uno tocca terra non distante dai tre, nella boscaglia. "Marco" che conosce un po’ di inglese, lo cerca, lo trova, si qualifica e lo aggrega alla pattuglia partigiana. Segue un’avventurosa ricerca di una grotta, dove riparano "Bruno", "Corsi" e l’americano, un giovane disegnatore di New York, Lee Palser, che rimarrà nel rifugio fino a verso Natale e, dopo una rottura irreparabile della stazione radio, a Molveno, nascosto dai nostri stretti e coraggiosi collaboratori fino alla Liberazione. Al primo messaggio, ovviamente cifrato, inviato da "Corsi", dalla base del Sud si risponde: "Non curatevi di aviatore americano, inviateci notizie". Dopo qualche tempo "Corsi" sarà sostituito al servizio radio da Franco Bonatta di Bolzano, "Delfo". Ritorno a Predazzo e riprendo il mio normale lavoro di staffetta per il CLN locale che, ancora per poco, è in attività. "Corsi", sempre in stretto rapporto con Visentin continua il lavoro di collegamento con le varie zone di attività e riesce a costituire a Trento il secondo CLN provinciale tra PCI, DC e PSI, assieme a Nilo Piccoli e a Guido Pincheri, affrontando, come possibile, serie divergenze di orientamenti. Si susseguono vicende le più imprevedibili: spostamenti continui, sospetti, delazioni, arresti. Io tengo ore di lezione (lettere) al Centro scolastico di Cavalese, impegno che mi consente di mantenere, pur sul filo del rasoio, più estesi rapporti con l’intera valle. Mi muovo col trenino o in bicicletta. Mi è caro riferirmi a due persone che in precedenza erano state per così dire "arruolate" da "Corsi" a Predazzo; il maresciallo dei Carabinieri Schena (i nazisti avevano mantenuto in servizio subordinato l’Arma) che per lungo tempo continuò a proprio rischio a fornirci notizie ed anche armi, e il Parroco Don Luigi Zorzi, uomo di forte temperamento umano, che ci sollecitava a fornirgli materiale patriottico di chiarificazione. "Alla prima Messa, presto, quando vado in Chiesa, trovo il modo di lasciare volantini e opuscoli in vari punti, senza farmi accorgere", ci diceva; quale rischio correva! Ma giunge inesorabile il 27 novembre: tra Cavalese e altri paesi viene catturata dalle SS, di stanza a Predazzo, e dalla Gestapo l’intera organizzazione del CLN. Cito solo alcuni nomi tra i più esposti: Anna Bosin, Aldo Pantozzi, il capitano Tosca, il farmacista Franzelin, tre frati francescani del Convento di Cavalese: Casimiro Jobstreibizer, Costantino Amort, Giuseppe Degasperi, il giovanissimo Mario Zorzi, Luigi e Maria Clauser, le sorelle Braito. Vengono tutti trasportati alle carceri di Trento. Marangoni, il primo "bruciato", ha cambiato zona d’azione. "Corsi", che per un breve periodo è tornato in Fiemme, riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In bicicletta raggiunge di notte Bolzano, avverte Luciano Bonvicini (che diverrà primo Sindaco della Liberazione) e la mattina dopo Manlio Longon, che abita con la famiglia vicino ad Appiano. Lo convince a fatica a prendere il largo (è conosciuto troppo in Fiemme, purtroppo col suo nome). Va a Milano, dove si ferma per un paio di settimane. Ritorna a Bolzano (la famiglia!). Viene rapidamente catturato. Torturato per giorni nelle cantine del Corpo d’Armata (sede della Gestapo, comandata dal famigerato maggiore delle SS August Schiffer), viene impiccato nella sua cella il 31 dicembre. Lascia moglie e quattro figlie. Il 29 novembre vengo arrestata simultaneamente al professor Leoni. Nel pomeriggio sono al Centro scolastico di Cavalese. Il bidello mi avverte di un signore che desidera parlarmi. Entra nella mia stanza una persona appropriatamente vestita in borghese. Mi dice: "Gestapo". Rispondo: "Lilli", con un sobbalzo immediato certamente visibile. In italiano colui mi dice: "Lei deve seguirmi". Non posso che ubbidire. Mi conduce alla Gendarmeria, dove subito mi chiede, assieme ad altri figuri, dov’è Mascagni. "Non lo so - rispondo - da tempo ha lasciato Predazzo". é l’inizio di un’insistente requisitoria, accompagnata da robusti ceffoni, non da torture. Insisto: "Non so nulla. Non mi ha detto nulla. So solo che, quando era in Val di Fiemme, ogni tanto si spostava per sue necessità di lavoro". Le contestazioni non hanno fine. Comprendo però che di me, del mio furtivo lavoro non sanno granché. Ma non credono alle risposte che do. Di notte mi conducono al carcere di Trento, assieme a Leoni, che a parte hanno sottoposto a duri interrogatori. Da Trento Leoni sarà trasferito nel gennaio ’45 a Bolzano al Campo di concentramento, assieme a Pantozzi e ad altri carcerati della Val di Fiemme. Pantozzi, due frati, Amort e Jobstreibizer, il giovane Zorzi, il dottor Pedinelli di Trento in giorni diversi e, naturalmente assieme a centinaia di partigiani catturati in Veneto, Lombardia, Liguria, sono trasferiti al Campo di sterminio di Mauthausen, tutti stipati in condizioni indicibili in vagoni merci, senza parvenza di cibo, senza acqua, costretti alle normali funzioni vitali in un canto del "soggiorno". Pantozzi, con Pedinelli, sopravvisse. I due frati e Zorzi non tornarono. Va ricordata una lunga e dettagliata testimonianza di Pantozzi, redatta dopo il suo rientro a Bolzano, alla Liberazione: Sotto gli occhi della morte, Bolzano 1946; una narrazione della drammatica odissea, condotta in uno stile toccante, quanto sorprendentemente distaccato. Per quanto mi riguarda, in carcere subisco insistenti, pesanti interrogatori non più da gendarmi, ma dalla Gestapo. Ricordo un aguzzino di indicibile perversione, il tristemente noto Stimpfl di Merano, SS. Da me non sanno (in certo senso non possono sapere) nulla, anche perché la mia funzione di staffetta mi ha per così dire preservato dal conoscere fatti e circostanze riservate. "Conosce il tale, il talaltro bandito?". "No, sì, insisto, ma come conosco in valle tante altre persone". Le botte che si alternano riesco a sopportarle. "Di Mascagni non so più nulla, non ho più notizie". Dunque me la cavo, relativamente a buon prezzo, in quelle condizioni. Poco prima di Natale mi rilasciano. Esco dal carcere di via Pilati verso le due di notte (evidente cattiveria!) con la pellicciotta che sono riuscita a conservare. Verso la strada del Brennero riesco a fermare un camion (evidentemente il conducente si è impietosito di una ragazza sola a quell’ora). Il camion va proprio a Predazzo. Sale anche un SS. Perché non dirlo? Non solo mi rispetta, ma ha cura di me e cerca di ripararmi alla meglio dal freddo. Imprevisti di una situazione che nella sua logica spietata può conservare sprazzi di umanità. Ritorno alla mia famiglia, che rinasce dal tormento. Con l’indispensabile cautela riprendo qualche contatto. Del mio fidanzato non so più nulla. Ne soffro e spero. Passano le Feste e tutto gennaio tra ansie e pesanti incertezze. Gli arresti, le sofferenze, le torture a Bolzano, a Trento sono state implacabili. Il mio nome non so dove, né come, si ripresenta ormai apertamente alle inesorabili ricerche dei nazisti. Faccio appena in tempo a ricevere da parte di Don Luigi (il cognome?), cappellano di Don Zorzi, una rudimentale, ma utile stamperia, che devo consegnare a Trento. E giunge improvviso e ormai sicuro il mio secondo arresto nella casa d’affitto a Predazzo, mentre i miei genitori sono casualmente a Bolzano. Ancora SS. Mi trovano la piccola stamperia, che faccio fatica a giustificare e, queste del tutto "ingiustificabili", cartelle di prestito del PCI per la lotta di Liberazione, mal nascoste in un vaso di fiori. La mia nuova situazione è inequivocabile. In un camion, assieme ad altre persone che non conosco, mi conducono direttamente al Campo di concentramento di Bolzano e mi rinchiudono in una cella di rigore - poco più di due metri per circa uno e mezzo - con un giaciglio a castello per due persone e un secchio per le normali necessità; una stretta feritoia procura un po’ di luce. Le celle sono una cinquantina, abitate per una buona parte da numerosi patrioti di Bolzano e di Trento, sottoposti a continui interrogatori per conoscere e intervenire, sapere e colpire. La resistenza ai diversi tipi di violenza è fortissima. Ho parlato e scritto più volte sulla mia detenzione al Campo, sulla vita subumana, sulle uccisioni, sulla violenza del vicecomandante Haage e dei due ultranoti criminali ucraini, Misha e Otto, spietate SS, sulla "Tigre", già sperimentata "favorevolmente" ad Auschwitz. Non mi voglio ripetere. Dopo l’annientamento del gruppo resistenziale del CLN in Fiemme, ai primi di dicembre, per inevitabile conseguenza, segue la totale liquidazione del CLN di Bolzano assieme a tutti i suoi diretti collaboratori. Nella prima quindicina di dicembre cade Longon, che non ho potuto incontrare, perché ucciso prima del mio internamento. Successivamente vengono catturati i maggiori responsabili dell’organizzazione clandestina ed i sette noti capi gruppi armati della zona industriale, uccisi a Mauthausen e a Gusen. Sento il dovere di ricordare alcuni nomi, maggiormente impressi nella mia mente, compagni delle celle di rigore, per sentimento di fraternità umana, che gli anni non hanno potuto cancellare: Dal Fabbro, Gilardi, Don Longhi (scomparso pochi mesi addietro, a pochi giorni dal nostro ultimo incontro), Enrico Pedrotti, Leoni, Senio e Franco Visentin, Caminiti, Laraspata, ed insieme i trentini Tazzari, Quintino Corradini, Rossi, e quanti altri che purtroppo non mi sovvengono. Ma ancora "Avio" (Luigi Emer): mi è d’obbligo morale ricordarlo, peggio che chiuso in cella, relegato in una sorta di lugubre presunta infermeria, con il corpo interamente piagato per la bomba esplosagli a due passi nel corso di un’azione. Mi sia consentito infine di correre con la mente alla figura di Mario Mascagni, padre dell’allora mio promesso sposo, arrestato durante lo sfollamento in Lombardia dai fascisti, internato a S. Vittore e quindi trasferito, sempre dai fascisti, in un camion zeppo, in cella al Campo di Bolzano. Un "fortunato" ennesimo interrogatorio da parte di Schiffer mi consentì di raffreddare la sua soddisfazione di aver finalmente catturato il mio fidanzato ("Come mai così vecchio?"), chiarendo che la persona in causa non era chi da tempo era insistentemente perseguito e ricercato, ma il di lui padre. Per risposta dure bastonate con lesione inguaribile ad un timpano d’orecchio. Il 30 aprile ’45, contestata prima, quindi inevitabilmente concessa: Liberazione. Si vorrà comprendere la mia convulsa narrazione. Quella mia stremante esperienza, se mi ha limitato una più esauriente memoria, non mi ha mai negato una dedizione morale.

da www.deportati.it

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