La trama è esigua e semplice:
riprende il solito alterco proprio e della letteratura e della
tradizione popolare, tra nuora e suocera, qui trasformatosi in
un odio così forte da far sì che Mariantonia procuri
la morte alla suocera, avvelenandola come "li surge ".
Sicuramente innocente per la legge e per la morale, la vecchia
ha il solo torto di essere più astuta del figlio Giatteo
e di sospettare la facilità di costumi della nuora: la
suocera condanna Mariantonia non perchè reputa il suo comportamento
moralmente riprovevole, ma perchè di questo comportamento
è a conoscenza tutto il paese e ciò espone allo
scherno e al ludibrio il figlio. Descritta nelle brutture provocate
dalla vecchiezza e non illuminata da un vero senso morale ma solo
dalla volontà di mantenere un decoro di facciata, la suocera,
pur essendo punita ingiustamente, non emerge dal racconto come
personaggio positivo, ma squallido e misero a confronto della
nuora, della sua bellezza prorompente, della giovinezza ornata
dalla prestanza fisica, ammirata ora in paese, poi, con l'evolversi
della storia, in sede di processo. Non solo, come dice Fedro,
"pulchra est, sed cerebrum non habet": non ha neppure
la compassione, la pietà, quello che noi chiamiamo "il
cuore". Mariantonia, donna troppo libera in un paese conservatore
e all'antica, esercita con la sua bellezza ferina e selvaggia
un fascino particolare, un'attrazione irresistibile sugli uomini
del piccolo borgo, anche sui più colti e noti: non a caso
lo speziale non resiste al fascino della donna ed in cambio dei
suoi favori si lascia convincere, dopo una iniziale esitazione,
a darle veleno sufficiente ad uccidere "una mandra di bovi".
La sua avvenenza non richiede ornamenti: il suo modesto abbigliamento
è povero e provocante, il suo porsi è prima timido
e esitante quando attende il turno nel negozio del farmacista,
ma sicuro e sfacciato quando cede alle richieste del medesimo
per un po' di arsenico.
Non conosce limiti morali, non rapporta il premio al merito: si
concede per istinto e per interesse.
Elemento rilevante nello svolgersi di questa vicenda è
il caso: quel caso che era motivo dominante nella commedia greca
di Menandro e ancor più in quella latina di Plauto ove
consentiva lo svolgersi di trame ricche di intrecci sostenendone
le avventure ed i riconoscimenti, è ora componente importante,
se non di una tragedia, di un evento sicuramente triste e luttuoso.
E' il caso che ha donato a questa "bella" la pulchritudo
scevra di ogni altra qualità morale; è il caso che
determina anche lo svolgimento del processo: proprio durante la
requisitoria del procuratore regio si rovescia il sacco di grano
che uno dei giurati aveva con sè ed il rumore scrosciante,
interrompe in modo irrecuperabile il "pathos tragico";
così cade l'inchiostro che il giudice, spinto da cleptomania,
versa nel suo calamaio, e ciò suscita lo stupore generale:
è la sorte che influisce sulla decisione dei giudici e
sul comportamento dei giurati che distratti ed immemori delle
colpe, si soffermano più su ciò che vedono che su
ciò che hanno udito, partecipando alla conclusione del
processo con una sentenza molto benevola verso la donna.
Ecco come appare Mariantonia nell'aula del Tribunale di Chieti:
è il suo avvocato che, da buon psicologo, ben sapendo che
la pena di morte è per lei certa, le consiglia di usare
l'unico strumento con il quale può salvarsi: ostentare
la sua bellezza, ornando la sua persona grande e florida, di tutti
i gioielli e le cose preziose che possiede; nella sua difesa non
si appella a leggi o ad articoli del codice, ma alla morale greca
che teneva in grande considerazione la bellezza collegandola al
bene: il bello e il bene (kalòs kai agathós) erano
per i Greci inseparabili ed un "essere" così
bello non può essere condannato per un crimine. Se un crimine
è stato commesso non è imputabile certo a una volontà
di fare del male, ma ad una mancanza intellettiva e ad una istintualità
quasi ferina: gola, lussuria, accidia, peccati di incontinenza
collocati da Dante nel II - III - V cerchio dell'Inferno, sono
i peccati commessi da Mariantonia e sono i vizi che la inducono
ad offrirsi agli uomini del paese. Vittima dei suoi stessi vizi
è la protagonista: così l'avvocato vuole che appaia
ai giurati, sottolineando i continui rimproveri, che spesso sfociavano
in vere e proprie guerre familiari che la donna doveva subire
da parte della suocera, lei così bella sposata ad un uomo
meschino, brutto e vile: la deposizione di questi accrebbe la
benevolenza e la compassione dei giurati già accondiscendenti
e sedotti dall'aspetto di Mariantonia: l'abito di broccatello
chiaro ed i gioielli la facevano apparire agli occhi dei paesani
splendente come una madonna portata in processione durante le
feste patronali.
Non serve che Mariantonia pronunzi parola: l'aspetto esteriore
è già eloquente.
Notiamo come lo stesso Scarfoglio non faccia pronunciare alla
protagonista altro che poche battute iniziali: non è l'eloquenza,
l'abilità oratoria, di cui è senz'altro priva che
l'autore vuole mettere in risalto; parla l'avvocato, parlano i
testimoni, gli amanti e il marito: la donna ha invece un'immobilità
statuaria, dove anche la passione è smorzata e resa statica
dall'istintualità e dalla insipienza.
Non sulla ricerca del colpevole - Mariantonia confessa subito
la colpa, prima al marito e poi alle autorità - ma sui
personaggi e sullo svolgersi del processo si incentra quindi la
narrazione.
Edoardo Scarfoglio Scrittore e giornalista.
Studiò presso il Seminario Diocesano in Via Niccolò
Toppi a Chieti e successivamente a Roma dove rivelò precoci
qualità di critico letterario. Fondò diversi giornali
tra i quali La Tribuna e Il Corriere di Roma a Roma; Il Corriere
di Napoli e Il Mattino a Napoli: qui ebbe come collaboratori Di
Giacomo, Russo, Borgese, Serao e D'Annunzio. Avverso ai partiti
radicali e soprattutto ai socialisti, difese Crispi dopo Adua,
combattè Di Rudini e Giolitti. Di temperamento antidemocratico
e nazionalista, vagheggiò per l'Italia un avvenire imperialistico;
ma poiché si rendeva conto delle difficoltà reali
del paese in politica e in economia, spesso la sua polemica si
incrinava di scetticismo e a volte di ironia. Di questa duplice
coesistenza di elementi etico-politici, volontà di potenza
da un lato e scetticismo nella capacità del paese di realizzarla
dall'altro, sono frequentemente intrisi i suoi numerosi scritti.
Nacque a Paganica (L'Aquila) nel 1860. Visse dai tre ai vent'anni
fra Chieti e Guardiagrèle; trascorse lunghi periodi
a Palena nell'alta valle Aventino ospite di una certa famiglia
Vittoria.
In una lettera indirizzata alla scrittrice Matilde Serao, che
divenne poi sua moglie, scriveva: "... per il terzo anno
ho trascorso circa un mese a Palena:
è un paese suggestivo, quasi tutto costruito in pietra...
Lungo la ,strada maestra, prima dei boscbi, ci si può inoltrare
in maccbie di timo, mentuccie e garofani selvatici... Ho visitato
altri paesi viciniori: Lama, Taranta e Fara, molto belli e anch'essi
costruiti in pietra.. " (lettera del 25/07/1880).
In questo periodo, a vent'anni scrisse Il
Processo di Frine la più riuscita delle "novelle
realiste all'ultimo sangue" raccolte pubblicate nel 1884.
E' un racconto di travolgente sensualità: si narra di un
processo intentato a una donna molto bella, accusata di omicidio,
svoltosi prima a Guardiagrele e successivamente nella Corte di
Assise di Chieti.
Da questo Alessandro Blasetti, nel 1952, realizzò l'episodio
culminante del film "ALTRI TEMPI"
in cui Mariantonia è Gina Lollobrigida e l'avvocato
difensore è Vittorio De Sica. Ancora una volta De Sica
e la Lollobrigida sono insieme in un film e .... Palena c'entra
ancora!
Altre sue opere: Le nostre cose in Africa Itinerario verso i paesi
dell'Etiopia - Il Cristiano errante - Compianto di terra perduta
e il celebre Brindisi a Mr. Asquith.
Abbandonato dalla moglie, Matilde Serao, moriva in condizioni
disagevoli a Napoli nel 1917.
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