3° incontro dei Gruppi Famiglia nel Vicariato di C. di Godego a Vallà
5 Dicembre 2004

Coltivare la speranza, virtù che apre orizzonti a progetti orientati ad un nuovo, migliore futuro.
Sorridiamo alla vita perché la vita ci sorrida

Relatore: Don Egidio Dal Magro
Non sono né sociologo né psicologo, tratto dunque questo argomento con l’esperienza della vita e non come uno studioso che entra nelle problematiche dei comportamenti e della mente.
Pensando a questo tema della speranza, in questi giorni, ho visto che è sì un argomento da trattare, ma soprattutto fa parte della vita. La speranza la scopri vivendola, o la vivi o non la vivi. È insita e da sapore alla vita, oppure manca ed allora la vita diventa assai meno interessante.

Una mia esperienza
Ecco allora che voglio riferirmi ad un episodio della mia vita, della mia esistenza, che parla della speranza. Questo racconto della mia speranza è iniziato il 9 agosto 2004 alla tre e mezzo del mattino. Qualcuno dei presenti era già a Spello e stava dormendo (mi riferisco a coloro che hanno partecipato a quella settimana estiva); ma so che tutti avete fatto questa od altre simili esperienze di vacanza alternativa.
Ero partito a quell’ora per partecipare alla settimana estiva famiglie e la prima preoccupazione era la speranza di arrivarci e di arrivare in tempo. Ci eravamo dati appuntamento con Renato ed Antonella al parcheggio di Spello per poi, assieme, andare nella casa della Povera Gente in Via della Povera Vita, appuntamento che era tutto un programma. È stata proprio la speranza di incontrare queste persone (io conoscevo soltanto Toni e Valeria, mentre Renato e Antonella li avevo visti in un incontro precedente) che mi ha incoraggiato e mi ha dato questa spinta ad intraprendere questo viaggio. Non è che viaggi tutto il giorno e non nascondo di avere una certa difficoltà a districarmi con strade - superstrade – autostrade. Già a Treviso ho sbagliato direzione invece di andare verso la A 27 sono andato in direzione della A 4. Mi sono detto: qua se comincio a sbagliare, chissà come va a finire e addio appuntamenti! Sono stato preso dall’ansia ma poi mi sono affidato al Signore perché mi guidasse ed ho fatto un atto di fede anche nei confronti di chi avevo, in un certo senso, coinvolto in questo affare, ossia quegli amici che erano laggiù e mi aspettavano. Perciò avanti! La strada giusta poi la ho ritrovata. Ma è stato il pensiero di quel gruppo che mi aspettava, che in un certo senso diventava il mio gruppo. Il fatto di essere atteso mi ha dato fiducia e serenità.
A Città di Castello, ormai eravamo già avanti nella mattinata, mi era piombato un gran sonno, mi sono tirato da parte e ho fatto un pisolino, naturalmente prima ho guardato l’orologio ho fatto un po’ di calcoli. Alle porte di Spello ho fatto ancora un po’ di pasticci. Mi era stato detto che c’era una porta da non attraversare, ma io la porta non l’ho vista oppure la ho attraversata senza accorgermi, ma ormai ero vicino. Provvidenza volle che mi capitasse a vista l’indicazione di Collepino. Ci siamo! Poi si doveva andare avanti ancora un pochino. Ritrovare la strada dà un grande senso di sicurezza: non lo dimenticherò più perché, per me, la strada ritrovata significava essere a casa, o meglio avere raggiunto la meta.
Invece di aspettare giù nel piazzale mi venne una gran voglia di raggiungere gli amici proprio su nella casa. Mentre salivo pensavo anche alla vicenda dei Re Magi che ritrovarono la stella, ritrovarono la gioia che li condusse a Betlemme. Ora che siamo vicini al Natale queste considerazioni sarebbero state più appropriate, ma allora era agosto! Collepino non è Betlemme, comunque la stella è talora sinonimo di un’indicazione chiara e sicura. La mia speranza era diventata certezza, ma dopo Collepino non è che ci fosse subito S. Giovanni e la compagnia delle famiglie. Quella strada era deserta, desolata. Ancora una volta il dubbio di aver sbagliato…sono ritornato indietro. Per mia fortuna incontrai un signore con il cane, l’unica persona in tutto quel tragitto: "Deve tornare indietro e dopo il bivio altri 4 chilometri!". La paura mi aveva fatto sbagliare. La paura è un sentimento che, quando ti lasci prendere, non ti aiuta. Quella persona che mi ha dato le indicazioni mi ha aiutato a togliere la paura. Finalmente San Giovanni di Spello.
Qui ormai tutti erano in movimento, c’era anche una signora in carrozzina con una gamba ingessata. La ho guardata con un po’ di curiosità! Chissà dove sono capitato, mi dissi! Ordini e contrordini in un bel po’ di disordine. Ma lì mi sentivo tra amici che lasciavano trasparire un’accoglienza sincera e cordiale.
Era già tempo di scendere a valle per l’incontro con Ester. Pur nella fretta mi sono accorto di non essere trascurato, c’era sempre qualche sguardo, qualche attenzione. E poi mi hanno messo sotto la protezione di un giovanotto, Alessandro. È chiaro che sotto la sua protezione d’un tal pezzo di ragazzone non c’è più niente da aver paura! Non è molto importante questa mia avventura ma ci può aiutare nella riflessione.
In questi giorni, riflettendo sull’argomento della speranza, ho cercato qualche pubblicazione, ho rivisto il Catechismo degli Adulti, poi mi è venuta in mente questa mia esperienza e mi ha illuminato: ecco che cos’è la speranza, essa nasce innanzitutto dalla fede. Quale fede?
La fede innanzitutto in Dio certamente, ma anche la fede in qualcuno che può essere la voce di Dio, ossia coloro che mi avevano coinvolto. Quando me ne parlarono e mi fu chiesto un certo tipo di presenza rimasi subito affascinato. Ho avuto fiducia in quelle persone perché non mi avevano fatto proposte da nulla, ma proposte valide per qualcosa di importante.
Una volta che è impiantato sulla fede un progetto può partire e andare avanti, la speranza dunque non basta da sola, bisogna armarla di altre componenti.
Il tempo dell’Avvento, visto che la preghiera che avete fatto è improntata all’Avvento, all’attesa, al Natale ci parla soprattutto di vigilanza e di attesa: la speranza ha bisogno di queste due sentinelle, queste due realtà che l’accompagnano, non soltanto ma ha bisogno anche di persone, di incontri, di qualcuno che ti s’accosta lungo la strada. Per cui è importante incontrare le persone, non sfidarle, non lasciarle passare senza accorgersene, ma accorgersi della loro presenza: possono diventare la tua stella come per i Magi.
Tutte le persone hanno un ruolo importantissimo e tante volte noi ci sentiamo soli, tristi, forse perché non ci accorgiamo che vicino a noi qualcuno potrebbe colmare la nostra solitudine e aiutarci a portare la nostra tristezza.
La speranza ad un certo punto termina il suo compito, come diceva prima Renato, perché fede e speranza sono le due ancelle della carità. Ad un certo punto dunque esse si tireranno indietro, non accorrerà più credere, non occorrerà più sperare perché la realtà è posseduta: ecco la carità! Carità è arrivare proprio a colui che ti accoglie.
Ritornando alla mia parabola, quando mi sono trovato, a San Giovanni, a fianco quel giovanotto non ero più io a cercare nel dubbio ma qualcuno mi guidava. Ecco dove conducono speranza e fede: verso l’amore. E l’amore è Dio. Quando arrivi lì hai tutto l’amore concreto di chi ti vive accanto, infatti Dio opera attraverso l’altro, qualsiasi altro di statura piccola o grande, ma sono gli altri che ti aiutano a fare esperienza di questo amore. La fede e la speranza finiscono, lo dice anche San Paolo, resta la carità, l’amore e resta Dio.
Dopo la parabola della speranza farò alcune considerazioni che questa storia non ha potuto tenere in considerazione.

Che cos’è la speranza?
Sono andato a cercare il vecchio catechismo di Pio X° e anche quello della Chiesa Cattolica. Dice il catechismo: la speranza è una virtù teologale (cioè un atteggiamento, diciamo anche, una forza; teologale vuol dire che parte da Dio e porta a Lui, indirizza a Lui) per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo.
La lettera agli Ebrei dice: "Manteniamo senza vacillare la profezia della nostra speranza perché è fedele colui che ha promesso". Ancora, la virtù della speranza corrisponde all’aspirazione che tutti noi abbiamo verso la felicità, a essere contenti in barba anche a questa giornata uggiosa. Dio la ha posta nel cuore di ogni uomo, essa non è campata in aria, assume le attese che ispirano le attività degli uomini, le purifica per farne il regno dei cieli, salvaguarda dallo scoraggiamento, sostiene nei momenti di abbandono, dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. Questa speranza non scarta le speranze umane, le nostre speranze.
Vedremo dopo come proprio le speranze umane hanno costruito questa nostra società dopo la guerra; la speranza la ha trasformata, anche quella veneta, fatta di poveracci, in gente piena di iniziativa, di attività, di vita. Erano allora speranze contingenti per costruirsi la casa, avere un pezzo di terra, ecc. È stato un periodo di vita molto ricco proprio perché sostenuto da queste speranze. La speranza teologale non scarta, anzi valorizza le speranze umane, e sono queste speranze messe insieme che essa vuole illuminare, purificare per costruire "il regno".
Che cos’è il regno di Dio? È anche quello che stiamo facendo ogni giorno, sono anche questi piccoli progetti che stai pensando, che stai per portare a termine. Con il suo aiuto lo slancio della speranza teologale ci aiuta proprio ad uscire dal nostro guscio, dai nostri piccoli e grandi egoismi, che sempre ci accompagnano, e ci conduce alla gioia della carità.
Tutti conosciamo la storia di Abramo, modello di speranza, egli è per fede, sperando contro ogni speranza, padre di molti popoli.
In questo tempo di Avvento la speranza è la parola d’ordine, il lieto motivo che accompagna come quello che accompagna un’opera musicale. Lieti nella speranza, forti nella tribolazione, la speranza non delude le attese della nostra vita.
Qualche volta ci viene da chiederci: ma c’è ancora speranza? Proprio giovedì scorso, nell’incontro che facciamo noi sacerdoti dei vari vicariati, abbiamo incontrato Don Giuseppe Moschetta che è un missionario della nostra terra. Lo conoscevo ancora da studente, è venuto a passare con noi una mattinata e gli abbiamo chiesto un pensiero intonato a quanto sto dicendo. Ci diceva che è impressionate l’impatto con questo nostro mondo dopo 40 anni di Messico, Costa Rica, America Centrale. Diceva ancora questo missionario: "Ricordo la gioia l’entusiasmo che, dopo la guerra, aveva contagiato tutti nella fase della ricostruzione. Ora invece non c’è speranza, non c’è entusiasmo perché si ha tutto, non c’è più nulla da attendere, non si spera, si vive alla giornata cercando emozioni di ogni genere, magari trasgressive. Ecco, il fatto di aver tutto, toglie il posto ad altre attese, alle speranze. Non ci sta più nulla dentro un vaso pieno. Di là dell’oceano invece, nei paesi dell’america latina, non c’è più speranza perché non si ha nulla, si vive non nella povertà ma nella miseria, privi e privati da ogni dignità, delusi da promesse sempre eluse. Il mondo, per un motivo o per l’altro, ha perso la speranza. Noi però dobbiamo essere i testardi della speranza, come Dio è testardo nella fedeltà.
Se ne avete la possibilità vi consiglio di leggere quei passaggi della liturgia delle ore di questo tempo, ma anche le letture stesse delle domeniche, perché sono una continua provocazione da parte di Dio, della sua fedeltà, dei suoi sogni. Dio non smette mai di sognare: "Verrà un giorno, verrà…" Se Dio è così noi dobbiamo essere i testardi della speranza.
Come vive la speranza? La speranza si fa accompagnare dalla vigilanza e dall’attesa, e si nutre di preghiera. La seconda lettura di dome-nica scorsa (1a di Avvento) diceva: "Svegliatevi, è ora che vi svegliate dal sonno!" Tutta la liturgia dell’Avvento è un inno alla speranza, alla vigilanza, all’attesa. Anche la prima lettura di oggi, del profeta Isaia, era dello stesso tono. Dice: "Quel giorno un germoglio spunterà dal tronco di Jesse" e poi dice più avanti "verranno tempi in cui il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, mangeranno insieme" e poi ancora cose più grandi "perché la saggezza del Signore riempirà il paese".
Sono cose che ora non ci sono: non c’è saggezza negli uomini d’oggi, in noi; c’è molto poca saggezza e qualche volta c’è anche pazzia vera e propria. Eppure il Signore sogna delle cose che sembra impossibile che si realizzino, sono sogni di Dio; noi dobbiamo credere ai sogni, abbiamo ancora bisogno di sognare la parola di Gesù.
Ancora dalla liturgia della scorsa domenica: "Il Signore viene come un ladro!". Nel paese in cui abito, nelle notti scorse, sono state visitate molte case dai ladri e tutti ne parlavano. Com’è che nessuno si è accorto di questi ladri entrati negli appartamenti? Gesù dice: "Verrà come un ladro" , occorre perciò essere vigilanti! La vigilanza non è un optional ma un impegno serio ed è quanto ci viene chiesto in questo tempo di avvento, non solo, ma è quanto il Signore ci chiede sempre. "Vigilate perché non sapete quando sarete visitati."

La speranza di Maria
Voglio proporvi ora una pagina di don Tonino Bello. Don Tonino, morto da qualche anno, ha delle pagine meravigliose riguardo proprio all’argomento che stiamo trattando. Parlando di Maria, che è il personaggio tipico del tempo di Avvento, parla di una donna sempre in attesa, vigile, attenta. Lui dice che la vera tristezza non è quando alla sera non sei atteso da nessuno, (il che è già una grande tristezza), nessuno ti aspetta, nessuno ti accende il fuoco.
Quando io faccio catechismo chiedo ai bambini: "Se quando tornate a casa trovaste sulla porta un biglietto con scritto: la mamma e il papà sono andati via, che cosa provate?" Dapprima rispondono con qualche battuta, poi cominciano a diventar seri se pensano che nessuno attente, nessuno apre, nessuno ha acceso il fuoco per loro. Tonino Bello dice che non è questa la tristezza più grande ma quando tu non attendi più niente dalla vita. "Non vi nascondo che mi rattrista un po’ non essere atteso, potermi ritirare la sera a qualsiasi ora perché tanto non c’è nessuno che mi aspetta, non dover telefonare per un ritardo in autostrada, ecc. È un po’ triste tutto questo tuttavia la tristezza vera è quando tu non attendi più nessuno, tu non attendi più nulla dalla vita. La solitudine vera non è quando trovi il focolare spento ma quando non lo vuoi più accendere. C’è vera tristezza se nessuna anima viva verrà a bussare alla tua porta, se non ci saranno più soprassalti di gioia per una buona notizia né trasalimenti di stupore per una improvvisata. Per molta gente la vita è così, ed è pesante perché è vuota."
Attendere significa esperimentare il gusto di vivere. Qualcuno dice addirittura che la santità di una persona si misura dallo spessore delle sue attese e qui parla ancora di Maria che attende e dice: "Maria ha sempre vissuto in attesa!". Sottolinea di Maria, la Vergine in attesa di Giuseppe, in ascolto del bruciare dei suoi anni quando sul far della sera profumato di legno e di vernici sarebbe venuto a parlarle dei suoi sogni. Giuseppe, l’uomo dei suoi sogni, Maria è in attesa di lui. Maria è in attesa ma anche persona sempre in movimento. Maria in attesa dello Spirito, in compagnia dei discepoli, nell’ultimo quadro degli Atti degli Apostoli che parlano di Maria la rappresentano così: in attesa dello Spirito Santo e fra la prima e l’ultima attesa centinaia di altre attese. Anche l’attesa dell’ultimo rantolo del Figlio inchiodato sul legno, l’attesa del terzo giorno vissuta in un clima solitario davanti alla roccia della speranza. Attendere, nel vocabolario di Maria, è amare.
Noi non attendiamo più nulla e abbiamo voglia di metterci da parte, invece non possiamo farlo. Ma se noi non provochiamo l’aurora con gli occhi rivolti al futuro come sentinelle che scrutano l’aurora per annunciare che il sole sta per sorgere, la gente cosa può aspettarsi da noi? Il mondo ha bisogno di sognatori, se oggi non sappiamo attendere più è perché siamo a corto di speranza, di vigilanza, di attesa, realtà che camminano sempre a braccetto. Queste qualità si sono disseccate, le nostre sorgenti non danno più acqua viva, soffriamo di una profonda crisi del desiderio. Ormai paghi di mille surrogati rischiamo di non aspettarci più nulla neppure dalle promesse ultraterrene che sono firmate col sangue del Dio dell’alleanza. Don Tonino termina questa bellissima pagina con una preghiera a Maria, Vergine dell’attesa: "Donaci un’anima vigile. Facci capire che non basta accogliere, bisogna attendere. Accogliere talvolta è segno di rassegnazione; attendere è sempre segno di speranza. Rendici perciò ministri dell’attesa. E il Signore che viene, Vergine dell’Avvento ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con le lampade in mano."

Un'ultima immagine
Ultimo pensiero breve. Il fondamento ultimo della speranza è l’amore di Dio, non il nostro amore per lui ma il suo amore per noi. Il nostro è sempre povero, il suo è più grande. Ricordando qualche passaggio dei profeti: "Ho scritto il tuo nome sul palmo della mano", quasi per non dimenticare, per averlo sempre davanti. Ma ancora di più questo nome nostro è stampato nel suo cuore. "Può una madre dimenticarsi del figlio, del proprio sangue? Se anche ci fossero queste donne io non ti dimenticherò mai!" Non è forse qui tutto il mistero del Natale? C’è nel Vangelo l’episodio della tempesta che mette in pericolo l’imbarcazione degli apostoli. Ad un certo punto quella apparizione: "Coraggio! Sono io, non temete!". La strada della speranza è Gesù Cristo, incarnato morto e risorto.
Si potrebbe parlare tutta la sera sulla speranza ma può bastare l’ultima frase: "Coraggio, sono io!" Quante volte diciamo: non ce la faccio più! E non ci accorgiamo che lui ci è a fianco. Il bellissimo aneddoto che tutti conoscete di quel tale che, arrivato in paradiso, si lamenta con il Signore: "Tu, Signore, ci hai promesso di essere sempre con noi, però, guardando la mia vita, mi sono accorto che ho avuto tanti momenti di solitudine; ero solo perché ho visto sulla sabbia prima due impronte e poi ne ho visto una sola." E il Signore di rimando: "Ero io che ti portavo in braccio!"
È sempre bella questa immagine, specialmente per voi che siete papà e mamme, del portare in braccio perché ricorda anche che siamo stati portati in braccio.