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SAINT ETIENNE - So Tough (1993)

Questo disco è un atto d'amore a Londra, armonioso e colmo di romanticismo, un'ode alla notte che brulica di vita e anche di solitudine. Un ibrido di influenze dance e house la cui pellicola stagionata, oggi, commuove. Mai debole né corrompibile perchè... sembra di essere tutti ancora, sempre... lì.
L'attesa-disattesa nelle miniature di "Mario's cafè", il richiamo disperato, l'adorazione di "calico", l'anelito celestiale di "avenue", la perfezione pop nel messaggio solidale di "you're in a bad way" (la "you've got a friend" dei '90, nientemeno) e una dolcissima ballata pianistica come "hobart paving".
"So Tough" è in pratica uno degli album più perfetti della sua epoca, non solo in ambito pop. Un'esperienza imprescindibile. L'inno "Join our club", è una licenza dance-pop fortificata nella cura Saint Etienne. Lì innanzi la grazia trascendente di Sarah alterò qualunque cosa: "Only love can break your heart" (cover dub-house da Neil Young), "archway people", "who do you think you are", "like a motorway", "he's on the phone".
(inverno 2003)

Sao Paulo Underground The Principle Of Intrusive Relationships (2008)

Rob Mazurek è un compositore e artista multimediale dagli infiniti progetti, nonché autentico veterano della scena post-rock di Chicago. In più di dieci anni di carriera ha militato in gruppi come Isotope 217, Chicago Underground Duo, Him, Calexico... sino ai più recenti Exploding Star Orchestra.
Negli ultimi due anni, col moniker Sao Paulo Underground di stanza a San Paolo del Brasile, egli ha svoltato un crossover etno-jazz-rock sincopato e astratto, ricco di manipolazioni musicali sofisticate e vibranti. Un melange inaudito, un condensato magmatico, sovraccarico di forme e composizioni.

Il frutto del nuovo travaglio si chiama “The Principle Of Intrusive Relationships” e offre un’audace fusione sintetica di percezioni e associazioni musicali, di dialoghi improvvisi e stasi surreali.
Un senso caotico e desiderante, possente e gioioso, che rispecchia una società satura di informazioni. Un enigmatico e fibrillante universo sonoro come effetto della tensione nel rapporto tra ordine e progresso, caos e bizzarria; tra figura e astrazione, rumore ed eufonia.
Nel sogno convulso e inconfessato di violare i limiti del corpo, Sao Paulo Underground muove da fisionomie distinguibili e “sensuali”, per poi avventarsi in un cosmo destabilizzante ed estraneo, in uno scenario spaziale di detriti e furia.

Rispetto all’esordio Sao Paulo Underground di due anni fa, “Sauna: Um, Dois, Três” (2006, Submarine), il passo è grande. S’allarga il duo Rob Mazurek (fiati, electronics) - Mauricio Takara (percussioni e batteria) con l’ingresso di altri percussionisti, Guilherme Granado e Richard Ribiero, focalizzando sul drum-set una pratica collettiva di transizioni musicali ibride e maculate, che attinge da culti ancestrali tanto quanto dal quotidiano assillo iper-tecnologico metropolitano.
“The Principle Of Intrusive Relationships” è dunque un’auto-affermazione sbizzarrita e ironica, che spicca un salto mortale in un coacervo di sonorità free dalle cromature astratte e traumatiche, che presentano infiniti punti di fuga e d’apertura.

L’incipit di “Final Feliz”, col suo straniante free-jazz-psych di crescente tonalità e ripiego melodico, si affida all’estro randagio e polimorfo dello strumento a fiato d’ottone: macchie di colore scorrono e panneggiano à-la Arkestra di Sun Ra, fluttuando nella stratosfera, rischiarando una bolgia di percussioni in battaglia.
“Só Por Precaução” e la suite “Barulho de Ponteiro” innescano slanci soul-jazz alter(at)i e bramosi, trip comunicativi e fecondi di suggestioni di Chicago (Tortoise) e afflati carioca.
Un mesmerizzante coacervo antropofago e centrifugo di frammenti free-jazz e jungle, di intrusioni popular ed elementi acusmatici; rumori, riverberi e campionamenti a tessere una fitta, silente e ossessiva trama.
“Entre Um Chão E Outro” è sublime arcano etno-funk elettrico, con filamenti e scie di cometa della tromba cerimoniere di Miles Davis, su un tappeto elettrico di percussioni che è lavorio di clangori industrial, d’effetti modello "Bush Of Ghosts" eno-byrniano. "Pulmões" è tela epilettica di brackbeat e detriti, su cui soffia mitigante una cornetta d’inviolato anelito.
“Cosmogonia” presenta una bolgia di frammenti, rifrazioni, echi lontani e pattern screziati; una chitarra distorta si impunta su un tema, sotto un cielo cupo e nuvolo, mentre la cornetta ricolora ogni cosa.

“The Principle Of Intrusive Relationships” è opera altamente suggestiva in quel percepire e impastare “eventi sonori” in riflusso perpetuo sotto uno stesso tetto, ipotizzando nuovi e plausibili continuum di spazio e tempo.

Sally Smmit (& Her Musicians) - Soundtrack To Hangahar (Groovy Stp 3)

("sai La Bella e La Bestia? E' tutt'è due" - Blade Runner)

Sally Smmit e i suoi musicisti, altrettanto si dimenano, danzano esausti pervenendoci da qualche lontano abisso parallelo. Due lunghe tracce per una voce da sirena trasparente e maliosa ma anche percepibilmente perversa si srotola in tutt'uno nel proprio eco, in un tappeto marino di tastiere grige monochrome o a impulsi, e percussioni orgiastiche- free.
Una specie di miele velenoso, lancia occhiatacce da medusa..Yoko Ono, Grace Slick, Nico, inghiottite in una spirale kraut-psyche-industriale..

 

THE SATURDAY PEOPLE s-t (2002 Slumberland)

Un supergruppo pop, quello dei Saturday People. Il chitarrista e voce Greg Pavlovcak proviene dai Ropers, Terry Banks altra chitarra e voce, ha retroterra in Glo-Worm e Tree Fort Angst.
Il batterista Dan Searing fa parte dei pro-Sarah Castaway Stones, il bassista e produttore Archie Moore, dagli storici Velocity Girl.
A seguito di una collaborazione-split con Clientele del 2001 Saturday People hanno pubblicato l'omonimo debutto qualche mese fa.
Per informazioni sull'Ep di prossima uscita, rimandiamo al sito del gruppo.
Una congiura morbida, quella ordita da questo supergruppo denominato Saturday People.
In questo debutto il quartetto di navigati strumentisti di stanza a Washington D.C. intreccia i reciproci destini confermando l'eccellente temperamento melodico dei gruppi matrice come Velocity Girl e Glo-Worm, attraverso sonorità delicate e scarne.
Un equilibrato aspetto di ingenuità e sofisticazione sentimentale.

Saturday People offre nella propria singolare arte canora e d'arrangiamento, una sfilata di quindici brillanti bozzetti pop, mimesi di quattro decenni di storia pop rock.
Si ha l'impressione che i ragazzi abbiano in mente l'idea di un album pop-psyche anni sessanta, con gli accenti e i colori appropriati, ma camuffano e personalizzano suonandolo con la frenesia e l'essenzialità di oggi.
La loro creatura assume sembianze classicamente indie, peculiari e piacevolmente incognite assieme .
A trionfare é la pura e semplice arte amatoriale, construction-kit del recente indie pop statunitense più sommerso e “no label”.
Qualche pensiero sparso a Housemartins, primi R.E.M., Db's.
L'aria è sottilissima, lieve, transitoria, si cautela a non oltrepassare la soglia della discrezione. E' la destinazione di sempre, l'insopprimibile istinto armonico, a condurre le feste.
Testimoniano le accattivanti invenzioni melodiche di no matter where you are, i vocalizzi angelici e marini in the castle, vivaci in slipping through your fingertips.
O la tiepida, dolce malinconia allestita in upside-down girl, i miracolosi equilibri vocali in grace (una versione alternativa rispetto allo split con Clientele), i soavi e surreali strimpellii chitarristici di the man without qualities pt.I / II e di twilight story.
Tutti brani eccellenti: arduo, imbarazzante preferire l'uno o l'altro.
A volte l'omaggio riverente prevale sull'inventiva pura: reminiscenze Paisley Underground in sound of yesterday. Il motivo di lullabye in the rain possiede un assortimento di strumenti e falsetti che avrebbe fatto invidia a Spector. Ovunque si peschi, é sempre un incantevole sentire.
(estate, 2003)

 

Seashells - "Remains of Something Sweet" (Quince Records, 2005)

Gli svedesi Seashells provengono dalla città di Umea come Komeda e Honeymoons e rappresentano, assieme a Acid House Kings e Red Sleeping Beauty, una delle realtà più longeve (quantunque nascoste, laconiche) del panorama soft pop scandinavo. Formatisi nel 1990, sono Erik Domellof (tastiere, chitarre, glockenspiel), Mattias Jonsson (basso), Jonas Larsson (voce) e Andreas Nilsson (batteria e percussioni).
Sulla loro musica si è detto: “Each song evolved (…) with the influence from Phil Spector and Beach Boys are songs with brightness. The listening should be done out to people with "guitar pop DNA" in many countries”.

I Seashells sono un gruppo svedese dedito a una forma evoluta di pop soffice come una piuma, twee in senso corrente, che attinge tanto dall'immaginario romantico britannico (Sarah in primis), quanto da metodologie oltreoceano più vivaci e polverizzate ma non meno introspettive.
Il risultato è il terzo album in una carriera che conta ormai tre lustri; album diciamolo, decisamente irresistibile, preziosamente edito dalla sempre opportuna giapponese etichetta Quince Records.

I nomi che affiorano alla memoria, per affinità melodica e per simpatie tematiche sono i connazionali Starlet, i Fairways o i newyorkesi Holiday (esultino gli orfani del gruppo di Gennet e Park): gruppi insomma dalle line-up scarne e dalle immagini dirette, come Polaroid senza ponderose sovrastrutture (ovvero un uso saltuario e non artificioso di french horns, trombone, violini), capaci più d'altri di imprimere qualcosa di durevole e di ispirato, di dolce nel cuore.

Talora è un bisbiglio, un vento tiepido e segreto, svelato sottovoce, dove l'utilizzo sporadico e lieve di orchestrazioni come spuma marina, simula quasi il pathos, le difficoltà di tutti i giorni di uomini qualsiasi, a relazionarsi con nostri simili, con un'amante.

Questa raccolta che leggiamo nelle note esser “dedicata all'ascoltatore”, vanta armonie vocali levigate e leggiadri strumentali; quasi corollario, resoconto artistico in quindici anni e scaltra rinascita dopo almeno un lustro di silenzio e di oscurità.
Esplicitano pudicissimi e solari bozzetti, piccoli capolavori di creatività come “To Be Alone”, “Never Seen Anything Like This”, “Thru With Love”, “No Points To Score”, “No Question Answered?” ad ammantare di luci e risvegli stanze e sensi, occhi e strade.

(agosto, 2005)

Serpentina -Blancamañana (2004, Annika)

I Serpentina sono Paco e Maria Tamarit, fratello e sorella di Valencia, Spagna. Lui è insegnante di chitarra, lei va a conservatorio e all'università.
Paco è un veterano delle scene pop (in Flauters, Doctor Divago, Una sonrisa terrible, Supereté, Señor Mostaza y Caballero Reynaldo), ma è anche un cinefilo convinto e, riguardo la stesura dei brani, dichiara: “Las canciones las escribo yo. Suelo inspirarme en algún personaje de alguna película. Imagino que yo soy él y me pongo a despotricar (…) mi perspectiva convierte las canciones en semi-autobiográficas”…
Dopo il demo pre-esordio del 2003, è giunto l'album di quest'anno.
Blancamañana” si rivela una splendida raccolta di canzoni continuamente sospese in un limen di sottile gioia e sottile mestizia.
Ma è anche qualcosa di più e diverso. Un accordo di meccaniche nascoste, che inizia impressionista per farsi, in corso, impressionato, accentuato, gravido di umanità.
C'è una sorta di frazione nell'insieme, tra interludi e brani dal corpo sviluppato. Impertinenze volute, un po' alla Guided By Voices. Un corso ondulato, “serpentino” appunto, uno sguardo che apparentemente non indulge, che si poggia ma non s'accomoda sul proprio oggetto.
Poi, durante l'ascolto avviene una magia, una compenetrazione tra elementi che mostra una comunione cortese, riconduce alla propria essenza, un'anima ardente.
“Un ratito” inaugura l'album. E' un nostalgico lento di accecante bellezza, lucenti tonalismi di voci e strumenti (tra cui chitarra acustica, pianoforte e xilofono) come solo concepì Curt Boettcher o Margo Guryan (di lei si legga in seguito), che delittuosamente va a arrestarsi al chiarir del primo minuto.
Come araldo intempestivo, impudente, da non svelarsi all'istante. Quel senso di privazione sarà costante dell'album.
Se “El apartamento” e “demasiado azúcar” mostrano un volto allegro e raggiante, vivace, primaverile, “te gustas”, “un paseo por mi cabeza” e “blancamañana”, sono di contro armonie tormentose, trapassi di chiaroscuro che riconducono agli eldoradi gemelli Millennium e Sagittarius; litorali avvolti in bagliori mattutini come mai scorsero i nostri occhi.
Quest'opera vanta un sensibile naturalismo, un impareggiabile gusto antiquario. Un pio misticismo è restituito a noi amatori, premiati per le lunghe attese.
Nei suoi trenta e rotti si rinvengono tracce di quel Mito cui sempre tendiamo, senza posa.
La cover “love songs” della Guryan, aderente e in perfetto agio, non a caso è piazzata a metà album: ne assume il fulcro, è punto di fuga.
In perfetta corrispondenza di sensi, origina emanazioni, sapienti ritratti che letteralmente sbalordiscono, di “dibujos animados”, “soy una muñeca”, “nana sin letra”.
Al termine del viaggio resta dentro, vivamente, lo sguardo devoto di questo incredibile duo di Valencia, la cui parentela scopre forse l'arcano di questa comunione, di questo possibile incantesimo, artefazione.
(primavera 2003)

Shack - Waterpistol (Marina Records, 1995)

"Waterpistol" viene registrato nel 1991 al London's Star Street ma, appena mixato, brucia nell'incendio che distrugge lo studio. Per buona (!) sorte il produttore Chris Allison aveva fatto in tempo a farsi una copia in DAT dell'album, ma, inconsapevole dell'incendio, la dimentica sul sedile di una macchina presa a nolo negli Stati Uniti. Recuperato per miracolo il DAT, Michael e John assistono nell'ordine al fallimento dell'etichetta e allo scioglimento del gruppo. Verrà fuori 4 anni dopo presso la Marina Records. Nel 1997 esce il meraviglioso "The magical world of the strands" con il moniker - appunto - Strands, e nel 1999, di nuovo a nome Shack, "HMS Fable". (Alessandro Calzavara)

Shack è il gruppo che Michael Head mise su nel 1988, dopo lo scioglimento di Pale Fountains. Con questo secondo album del 1991, la formazione di Liverpool restaurò quell'ineffabile sofisticatezza linguistica, l'elegiaca koinè britannica che andava smarrendosi allora.
Dunque lo squisito gusto melodico cromatico che distinse Michael Head sin dagli esordi giovanili, approda qui alla più sublime sintesi. Sulle romanzesche vicissitudini di "Waterpistol" abbiamo altrove informato. L'importante è che qualcuno (la patrizia Marina Records) lo abbia recuperato per la gioia degli audiofili. Brani come "neighbours" (" all he want is be a dealer/ all he's got left on the pride "), "stranger", esprimono tutto l'amore possibile per il pop sixties (soprattutto nelle tessiture vocali che definiremmo byrdsiane), sommate ad eleganza espansa , sensi ed atmosfere suadenti e la magnifica interpretazione di Head. Una formidabile pagina di pop britannico scomparsa-poi-ricomparsa, che riformula un attendibile alternativo abbecedario brit-pop. Un Essere particolare : si ascolti ancora, "time machine", la seduzione di corde "London town", e lo strepitoso, romantico delirio "undecided". La riabilitazione di "Waterpistol" avvenne nel 1995, per opportunismo, come simbolica redenzione della nazione pop tout-court. E'destino di Head esser sempre pretesto, equivoco. Lui, che è completamente altro affare, isola nell'isola.
Continuerà a stupire coi due progetti paralleli Shack (“HMS Fable”, 1999) e Strands (“The Magical Worlds of”, 1998). 
(autunno 2004)

 

The Silent League - The orchestra sadly has refused (2004)

The Silent League è il progetto del tastierista dei Mercury Rev, Justin Russo, attorniatosi d'un gran numero di collaboratori, dal batterista Phil Williams, al tastierista Michael Adzich, alla violinista Megan Loomis; sino a Rich Meyer al basso e Shannon Fields alla chitarra. Partecipano anche guest come Sean "Grasshopper" Mackowiack dagli stessi Mercury Rev e Sam Fogarino, di Interpol

un gradito recupero dell'anno conclusosi. Per voler ristabilire un po' le simmetrie, tanto questo bell'album è stato, altrove, sciattamente svalutato.

Languido romanticismo è ciò che offre in sostanza il debutto di Justin Russo, che in Silent League si ritaglia un proprio, meritato spazio personale.
In assenza d'orchestra (solo presunta, in realtà), armonie vocali, tastiere ed archi, gentilmente, pervadono il distretto in calma e quiete sovrannaturali. Sin dall'ingresso title-track, sostando poi in oasi sublimi e fatate come “Goliath”, superba, elegante elegia; schiudendo, per qualche desertico visitatore, un reame sbarrato, in cui tutto è sogno.

Prende vita un gruppo di pregevoli contemplazioni armoniche in punta di penna, ispirate e d'ampia allure, senza -tranquilli!- ridondanti rigurgiti barocchi altrui.
Mimesi pop di quella sconfinata, infinita, senza tempo. Non sconvolgente, certo, ma con fascino consumato e pregio copioso, senza compromesso.

Si animano morbide performances, malinconiche e fataliste, dondolandosi al chiaro di Luna, sgambettando lungo innevate Abbey Road.
“Motion pictures”, assieme con “glass walls”, “new obsession” e la floydiana, soavemente insensibile “conversation”, infondono angeliche melanconie, immaginifiche, fulgide estasi in ninna-nanna.

“..close your eyes and sing this song..”.

La veste è démodé, ma la sensibilità mostra d'adattarsi ai tempi “che corrono” in modo sorprendente.
Svenevoli, opalescenti confini, timbri vocali madreperla, luccicanti corone Mercury Rev, Grandaddy (i fans dei recenti album di queste formazioni prendano nota assolutamente..); no-surprises radioheadiane, più un pizzico dell'immaginario umano della città di Nashville.
Ma ciò che considero definitivamente interessante, è la sottile voluttà in questa sensazione di aura notturna, costantemente suggerita e ispirata dalle canzoni del disco (come un “Sumday”, nel proprio interiore incanto, restituiva fulgore al gelido inverno).

Non già un inutile remake degli ingombranti campioni del pop neopsichedelico, al cui clamore Russo ha certo contribuito.
Dopo qualche ode fugace al crepuscolo, ecco, in “Hey You Hurray” il tacito, soave fluire delle ore notturne, sensazioni in dormiveglia appuntate e riportate assimilandosi, appropriandosi, un poco, di quella essenza. Tutto scorre in fluidità e naturalezza inquietanti, in un insieme che, se appare “scolorito”, è per il volgere del giorno, lo scolorire del vespro.
(autunno 2004)

 

THE SIMPLE CARNIVAL Girls Aliens Food (2008)

The Simple Carnival è il progetto solista di Jeff Boller, un giovane autore da Pittsburgh, Pennsylvania, con le idee chiare e in assoluta autarchia artistica (a suo dire forzata – non avendo trovato nessuno, curiosamente, con cui spartire la sua ossessione melodica - ma siamo certi, una solitudine anche ambita e necessaria...).
Dopo le prime canzoni, tra 2001 e 2005 (raccolte in mono, su “Sonic Rescue League Vol 1”), è poi la volta di un paio di Ep (“Me and My Arrow” e “Menlo Park”): scremando e limando una cinquantina di pezzi composti, Boller ha modo di affinare la propria, peculiare penna pop. Nel 2008 il progetto salpa su Cd, via Sundrift Records, con “Girls Aliens Food”, che si rivela una sorprendente prova di vitalità e di raro talento melodico.
Non è consueto, infatti, imbattersi in qualcuno in grado di suscitare memorie él Records tanto quanto Burt Bacharach, Beach Boys, Pea Hicks, Sean O’Hagan e Ben Folds senza, in quella mezz'ora, farli rimpiangere munendosi di poca, avveduta, chincaglieria strumentale.
Jeff Boller è un autore che, come spesso accade, pare apparso dal nulla, il cui stile descrittivo dolce e facile, sottile e minuto, coniuga felicemente decorativismo strumentale e songwriting agitato e sensibile. Una forma deliziosa e calibrata, tutta dolci sussulti e toni graduati, che ha fatto breccia in personalità come Margo Guryan e Louis Philippe.

“Really Really Weird”, la formidabile apertura d’album (anche oggetto di un remix contest), è una giostra pop squillante e siderale, che eccita lontane eredità soft-pop con gusto attuale; in un accumulo e sfavillio tale da far regredire Todd Rundgren all’infanzia. Questa delizia spaesata effusa, va oltre, poi, in “Over Coffee and Tea”, tutta apparenti linearità di gesti e contrasti marcati.
Se “Nothing Will Ever Be As Good” è la personale sinfonia di Jeff Boller a Dio, ovvero la sua autografa, minuziosa sintesi di “Smile”, “Caitlin's On the Beach”, “Cocktails” e “Flirt”, semplificano nuovamente il linguaggio, concentrando gorgheggi sensitivi e ritornelli d’impatto in semplici quanto efficaci collage di bossanova, jingle televisivi, carillon, gizmo, kazoo, marimbas e theremin elettrico; trafugati in stato di trance, da estasiate memorie infantili.

Un tuffo al cuore arriva all’improvviso, negli emozionali abbagli figurativi di “Misery” e “Hey Lancaster”; sconcertanti assi nella manica che, rapiti, si tuffano nella West Coast dei Marc Jordan e Nick deCaro.
Infine, la pittoresca “Effortlessly” la dice lunga sul talento che può esprimere il signor Simple Carnival. Posta un attimo prima della chiusura, è una melodia di armoniche a panneggio di cometa, i cui arpeggi spargono un bagno di luce chiara, ammantano in un alveo atmosferico celestiale.


Skygreen Leopards - One Thousand Bird Ceremony (Soft Abuse, 2003)


Glenn Donaldson è presente in innumerevoli progetti svelati da Jewelled Antler, label CD-R di Bay Area di cui è fondatore. Suona in Thuja, Birdtree, Blithe Sons, Mirza, Child Readers, Franciscan Hobbies.
Skygreen Leopards è un duo allestito da Glenn assieme a Donovan Quinn, e trae il nome dalle opere di Kenneth Patchen, scrittore collaboratore di avanguardisti e musicisti (John Cage, Harold Budd, Allyn Ferguson).
Donaldson spiega la propria filosofia musicale: "When we record outdoors, the location has a sonic presence in the music, the wind, the acoustic space, the ever-present crows, the sound of the sea in the distance. But also, standing in the middle of a forest is a humbling experience. I'm awed by it; I think that influences the way I play."

Il duo Skygreen Leopards è la cosa più vicina al pop che il lunatico spiritello Glenn Donaldson abbia concepito.
Intense e stralunate armonie vocali e vivaci strimpellii di corde (“summer alchemy”, “morning of gulls”, “all our plagues were rain”), che stillano amore e passione tanto per gli artefici del popsyche e flower-power sixties (Donovan, Kaleidoscope UK, Millennium, Sagittarius, John's Children), quanto per lo spirito folk primigenio.

Gran parte della strumentazione è analogica e acustica comprendente banjo, bouzouki, 6 e 12 string guitar, tamburi, mandolino, dulcimer.
Le registrazioni sono immerse di consueto entro spazi naturali. S'assiste dunque, assieme agli strumentisti, ad eventi casuali, aderiti nel proprio svolgersi.
Si ricava (si recupera) uno scambio vitale ancestrale: natura immanente, natura comunione, palcoscenico e strumento.
Si colgono pulsazioni e reazioni, soprattutto si svelano armonici accordi e simbiosi (che limpidamente ispirano litanie come “walk with the golden cross”, “hello to all your rain”, “tambourine, play it slow”, “where do songs come from”).

Stilisticamente è possibile rinvenire intagli prossimi a Lilys e Olivia Tremor Control, ma senza intenzioni mimetiche.
Febbre della realtà, atmosferismo dissociato e fuori fuoco: veri e propri vezzi Jewelled Antler, al di là della gabbia di convenzione, d'una prospettiva che in certo senso ritaglia e costringe lo spazio.

Melodie, o meglio, maladies, per dirla con Tom Waits. Abbozzi melodizzati, impressioni ondeggianti en plein air, sfumati indefinibili (“summer pharmacy”), e ancora, allucinazioni, lirismi sconnessi ed euforici, carichi di emotività.
Roba insomma trovata al contempo di suoni d'ambiente, a produrre interazioni senza l'enfasi d'altrove: naturalmente. Un ardore pittorico. Strumenti musicali adoperati come tavolozza di colori.
Un album irresistibilmente fresco, ricco di spiritualità e di sapori estivi.
(primavera 2004)

Life and Love in Sparrow's Meadow (Jagjaguwar, 2005)


In pochi mesi di distanza dal precedente album “One Thousand Bird Ceremony”, Donovan Quinn e Glenn Donaldson in arte Skygreen Leopards, firmano con Jagjaguwar e pubblicano due nuovi: il 12'' vinilico “Child God in the Garden of Idols” e “Life and Love in Sparrow's Meadow”.

Si conferma inarrestabile la vena creativa di Donaldson, già prolifico musicista nelle recenti sortite dei progetti Thuja, Blithe Sons, Franciscan Hobbies, Ivytree -oltre a detenere a Bay Area la label Cdr Jewelled Antler-.

Proseguono le serene e randagie cronache campestri di Skygreen Leopards, senza che il passaggio a un'etichetta autorevole come Jagjaguwar comprometta o sortisca mutamenti esemplari alla ricetta: forme e contenuti restano quelli; motivi melanconici e slacciati, molto liberi e avvincenti nel proprio incessante peregrinare.
Nenie di aroma folk psichedelico crepuscolare si espandono, intense e perenni, mai davvero inquadrabili. Sonagli di voci ebbre s'intessono volteggianti e singhiozzanti, sino ad avvolgersi; figure umane s'immergono nel cuore della natura.

Questo stile non cerca mai evoluzioni significative di gusto, mai oltrepassa luoghi antichi, mulattiere e viottoli di campagna. Piuttosto, insiste in divagazioni, ritorni, risvegli.

Come gli estrosi, stravaganti Simon Finn e Michael Hurley di trentacinque anni fa, il duo Donaldson e Quinn oggi, tra arrangiamenti acustici di chitarre, mandolini, armoniche, Jew's harps, i suoni pieni e vivi delle 12 corde, banjos, nell'ennesimo tentativo di “imbellire il mondo” portandolo all'antico, all'eccentrico, con stregata follia e sottile delirio, senza alcuna apocalisse di sorta: riscattando piuttosto una maniera pop surreale, discreta e pudica.
belle of the woodsman's autumn ball”, “egyptian rosemarie” e la mini-suite “careless gardeners (of eden)/ sparrows of eden (eden fading)/ drunken gardeners dance (paradise lost sweetly)” sono i brani più memorabili in questo senso, respiri di creatività d'assoluta eccezione…  
(inverno, 2005)

 

 

SLINT - Spiderland (Touch & Go, 1991)

Oltre ad esser apparso perfetto alieno nell'epoca in cui fu concepito (estate-autunno 1990), Spiderland fu anche il primo album strutturato come concept in quel genere da tundra artica definito in seguito post-rock.

In questo particolarissimo legame tra le tracce, che paiono emanarsi da un tenebroso film espressionista di Murnau o Dreyer, può risiedere parte della grandezza terminale, del fascino irripetibile del disco.

Le partiture sono infatti molto legate tra loro, un flusso continuo, accordato e iscindibile di pulsioni profonde, mimate da strumenti "poveri" protesi e bruciati oltre ogni proprio limite.
L'inquietudine serpeggia, la narrazione è puro dramma condensato, raggrumato e falcia il respiro, davvero ogni attimo si carica di angoscia.

"Don stepped outside".

Le emozioni le suscita lo stato di incrollabile angoscia, che risucchia in questo viaggio allucinante, che inizia e conclude (perchè Spiderand è un concept più che evidente), tra stranezze, macerie, nemici invisibili, fantasmi di tenebra, distorsioni e disordine.

Tutto questo clima, questo viaggio d'espiazione si prepara con estrema cura ("for dinner " cosa trova il ragno stasera? l'ascoltatore..), in vista della catarsi, concessa come in ogni tragedia che si rispetti, al termine del deragliamento, dello zolfo, del suicidio in coda a "Good Morning Captain".
(2004)


The Sneetches - Sometimes That's All We Have (Alias, 1988)

The Sneetches si formarono a San Francisco, a metà anni '80, per volere di Mike Levy e Matt Carges, le due voci e chitarre, assieme con il batterista Daniel Swan (già nei Cortinas) e Alejandro Palao. Dopo una serie di demos nel 1988 arriva l'esordio.
Dopo altri tre album, nel 1996 arriva lo scioglimento, e di lì a poco, una nuova carriera solista per Levy.

Questo gruppo californiano e questo loro esordio di raggiante bellezza ha sempre raccolto meno del dovuto.
Se ne sono ricordati in pochi; sfiorò la top 20 nei "Best 100 Rock albums 1986-1996" di Les Inrockuptibles, lasciando sotto gente come Housemartins, Chills, Auteurs, Boo Radleys, Oasis. E quantunque tardivo, questo fu un tributo meritato per "Sometimes That's All We Have".

Questa manciata di guitar&vocal pop tunes rappresenta una dolce e irresistibile ebbrezza, sommessa vertigine, insinuazione. Un tesoro inestimabile, per chi colse.
Potenziale greatest hits senza delle raccolte quel fardello, quella pesante sensazione di imbandita, forzosa ricucitura.
Una potenziale educazione sentimentale per tanti gruppi a venire. Desiderio semplice e incalzante, "don't turn back" iscena sembianze di Harry Nilsson, "Mrs. Markle", paradisiaci pendii di Curt Boettcher.
Non distante, "It's Looking Like Me" snocciola i Beatles più crepuscolari.

Un lucente, librato afflato melodico è trainato dalle intense e assorte armonie vocali dei leader Mike Levy e Matt Carges. Costante il riferimento allo sgargiante pop psichedelico o power anni '60 e '70; le jangle-chitarre si coniugano in un gorgo con liriche introspettive e ambigue, a volte inquiete o depresse.
Il sollievo può giungere con amori idealizzati in "In a Perfect Place" ("would you be mine") o proibiti, in "Mrs. Markle".

Mostrare al mondo siffatte oblique, deliziose essenze ("in a perfect place" e "You're Gonna Need Her"), deve aver confuso Levy e Carges per semidei.
Brividi e senso catchy estesi ovunque, dalla straniante fanfara d'apertura "Unusual Sounds", alla soave scontrosità di "Another Shitty Day", un brano che ha in pratica scritto la carriera agli Eels.
La title track, situata a metà strada, fa poi sobbalzare dalla sedia. Sarebbe stata la miglior canzone di Noel Gallagher, scrittore pop di lì a poco. Classico ribaltone opera del ritornello spodestante il resto, di quelli impossibili da cancellare una volta uditi.
Scorrendo poi le pudicissime, inesprimibili romanticherie di "Don't Turn Back" e "Mrs. Markle" ("sometimes I wonder if she will be with me someday") ci s'immerge in trasparenti luci, arabeschi di voci e di chitarre, alternate alle più sostenute e vibranti "Empty Sea", "Nowhere at All".
"Sometimes That's All We Have" è un'esemplare, irripetibile raccolta di smaglianti madrigali, polifoniche gemme pop azzurro cielo infuse di stranianti liriche catilinaria.
(estate, 2004)

 

Sonny Sharrock - Monkey Pockie Boo (Byg Actuel 37)

Altra straordinaria opera realizzata dai coniugi Sharrock nel 1969.
Neppure ancora trentenni, Sonny, chitarrista d'avanguardia dei più fertili e Linda alla voce, assieme al batterista Jacques Thollot (presente in questa lista anche in proprio) e Ben Guerin al basso, ‘concepiscono' queste incendiarie, torbide improvvisazioni 'parigine', sconvolgenti creazioni vocali e strumentali, torridamente sensuali e inesplicabilmente maliose.

La vigorosa espressione di Linda, primadonna in gran parte dell'album, si slancia e si abbandona liberandosi pindarica, completamente, spontaneamente, in miraggi appassionati tra desiderio sconvolto e panico atavico. La partecipazione da parte chi ascolta questa giovane donna può farsi intrepida e smaniante, come lei.
Certo è che nella forza di questo magma e di queste gesta il tempo e gli anni vedono annullare il loro potere, il distacco, quasi diffondendo ancora gli interpreti in carne ed ossa, tra di noi, tra una cassa e l'altra.

  'Sharrock was the first guitarist to really embrace fire music. He wanted his playing to mirror the emotional scream of the tenor saxophone' (Thurston Moore and Byron Coley).

Sperm
Shh! Heinasirkat (O-Records Orlp


"Helsinki underground supergroup Sperm (Pekka Airaksinen, Mattijuhani Koponen, P.Y. Hiltunen, Antero Helander, J.O. Mallander, Markus Heikkero) released Shh! (1970, O; r: 1997, ORFB), a powerful ambient album of guitar and tape effects".

Nella prima parte, sorta di M.B. ante litteram per le perturbanti bordate di noise/ambient (effetti tastiera) prevalentemente strumentali e le immagini di claustrofobia e paranoia che è in grado di evocare (senza però terrorizzare come farà l'italiano); le uniche voci addotte sono cut-up, e ancora inserti concreti. Più in là, ormai addentrati in questa tundra inospitale, folate di sax schiariscono via via gli orizzonti e giochi free-jazz.

 



Splitsville - Complete Pet Soul (Houston Party Records, 2001)

Splitsville è un trio di Baltimora che incide una musica densa di riferimenti ai maggiori artisti e gruppi poprock anni sessanta. Kinks, Who, Rolling Stones, Phil Spector, Beatles, Beach Boys. Come i colleghi Lilys, Minders, Cotton Mather, Outrageous Cherry, Oranger e via elencando.
Splitsville nasce nel 1996 come progetto garage pop demenziale, dai gemelli Matt e Brandt Huseman assieme a Paul Krysiak, da alternare al power-pop dei Greenberry Woods ove militavano.

Beach Boys e Beatles onorati (loro i "Pet Sounds" e "Robber Soul" del titolo) e "spiritualmente" divulgati nella personale maniera Splitsville. Splitsville è un trio di Baltimora che esordisce con un garage pop spontaneo e irresistibile, che conserverà i propri crismi durante la carriera.
"Complete Pet Soul" non rappresenta pertanto quella imprevista sterzata verso la melodia pura che vogliono alcuni: sembra più una logica deduzione, un plausibile sviluppo. Quantunque gli autori abbiano definito questo progetto "collaterale" (come Xtc che si mascherarono Dukes Of Stratosphear), nato fortuitamente attorno a una manciata di canzoni pop da offrire al festival "International Pop Overthrow". Fortunatamente, come a volte accade, venne poi costruito un intero Lp. "…Pet Soul" è indubbiamente un atto d'amore a Lennon, Brian Wilson, Phil Spector, ma non dissimula affatto le abituali scie della band, un po' Big Star, Move e Who.
I fans di Teenage Fanclub prendano dunque nota, se già non sanno: "forever", "tuesday to saturday" e "you ought to know", impreziosirebbero i loro album migliori. E anche quelli di Wondermints: "aliceanna" e "sunshiny daydream" riportano ai fasti dolcissimi, alle insinuanti e sapienti modulazioni vocali delle loro tapes pre-esordio.
Poi con "pretty people" emerge di prepotenza l'idioma power pop in cui Splitsville eccellono. Riff affilati che nel venturo "Incorporated" (Houston Party Records, 2003) torneranno a costituire il maggiore riferimento.
"The popular" è un altro inaudito instant classic. Pittoresco compromesso, sanguigno capolavorone di wall of sound spectoriano. "Caroline knows" porta Splitsville a tu per tu coi ragazzi di spiaggia, rifiniture orchestrali e falsetti estatici fanno di questo brano una trascinante, ammirata satira.
Fasto inenarrabile di germoglianti armonie è poi "the love songs of B. Douglas Wilson". Un'angelica romantica ballata da far innamorare Ben Folds (never learned to say no... never learned to say no...); ma anche la conclusiva bonus "I'll never fall in love again", cover di Burt Bacharach reinterpretata con lusso.
(estate 2004)

STARLING ELECTRIC - Clouded Staircase (2005, 2006, 2008 Bar/None)

Starling Electric è un quartetto dal Michigan fondato da Caleb Dillon, compositore, cantante e tastierista. “Clouded Staircase”, esordio del gruppo, è stato registrato interamente nell’appartamento di Dillon (in origine unico detentore del progetto) e pubblicato in poche copie un paio d’anni fa.
Il disco è oggi, per la prima volta, edito e diffuso capillarmente sul mercato da Bar/None, esempio di indie-label per eccellenza che ne ha lodevolmente intuito il valore polarizzante, rilanciandolo.

Starling Electric si dichiarano “approvvigionatori orgogliosi” di ogni forma melodica “..dal 1965 al 1977..”, tanto che segua codici onirici in ibridi psichedelici, orchestrali e art-rock, quanto che transiti in folkeggianti e caduche sortite acustiche.
“Clouded Staircase” miscela suggestivamente queste forme cromatiche-compositive, come tele su cavalletti che si producono e confluiscono nella riflessiva, radiosa creatività di Dillon, tutta pudici ammiccamenti nostalgici, pathos umile e soffici inganni illusionistici.

Questo esordio svela un gruppo con sorprendenti ispirazioni e fantasie. Si pensi, oltre ai Beach Boys, a dei Clientele d’oltreoceano, immersi nello stesso vaporoso abbandono esotico, in quel trasognato iperrealismo descrittivo, ma appena più risoluto e evidenziato. Un’eterogeneità armonica immediata e limpida in una sorta di insondabile e idealizzante tensione, sospesa nello stupore e prospera nell’innamoramento.
Comporre e suonare come sognare a occhi aperti, in una luce che avvolge come una seconda pelle.

Strumenti come la chitarra ritmica e le tastiere assumono contorni definiti nell’insieme, in un gioco di forze tuttavia equilibrato e vivace. Le ispirate armonie vocali, discrete e sfuggenti, non cadono nei tipici entusiasti ammiccamenti di nuove leve, troppo prese di sè.
“The St. Valentine's Day Massacre”, “Prince of the Puff of Smoke” e “To Flunker, With Love” sfoggiano un power-pop naif, degno dei migliori Guided By Voices tirati a lucido, quasi che Caleb Dillon e soci prendessero parte alle sessions compositive del gruppo di Pollard e Sprout, a Dayton.
“Camp-Fire” apre con trapunti d’organo alla High Llamas e rimanda, per varietà e bizzarria, allo Smile Wilsoniano. L’accensione melodica tutta arpeggi delicati e armoniche in “Two Dreams” e “Clouded Staircase (Part Three)” accende pittoresche memorie progressive-folk; la suadente, atmosferica novelty strumentale di “I got scared” conquisterebbe i seguaci dei Mercury Rev più romantici.
La title-track “Clouded Staircase”, sorta di risveglio in un’Abbey Road rifiorita a primavera, è divisa in parti e ricorre, come un raggiante leit-motiv, nel corso dell’album. Evidenti tracce beatlesiane anche in “Black Ghost / Black Girl”.

 

STEELY DAN

The Royal Scam (1976)

Uno di quegli ascolti, uno di quegli amori mai sbocciati davvero, per cui ho provato a venire a patti ultimamente, in macchina: la storia del mio rapporto travagliato con The Royal Scam degli adorati Steely Dan.

Per me, da sempre, The Royal Scam significa preparativo, antipasto, per quanto sapido, di uno zenit assoluto del pop quale Aja, il cui sublime, utopico salto nel vuoto svela la chiave di volta “pop-jazz”. Creatura di lancinante avvenenza, sorta di ‘swing’ finemente concepito, dalla formula inedita, di cui è folgorante, quanto imprevedibile, ogni passo, ogni atto.

Eppure c’è chi ha ritenuto già “The Royal Scam” l’opera più rappresentativa del duo nuyorkese: scelta bizzarra :-) davvero eccentrica, a prescindere dai gusti. Eppure, è stata il pretesto per riascoltarlo a dovere, tentar di venirne a capo una volta per tutte, dopo...se era il ’93.. quattordici anni di spallucce, di “si, si ma..”.
La scelta di un ascolto in auto non è casuale: posso così privare le mie pupille di poggiarsi su quella copertina oscena, motivo non secondario della mia titubanza, del mio pregiudizio. Che se può correlarsi ad alcuni temi cupi dipinti nel disco, rimane parimenti di deplorevole, ingiustificabile bruttezza, una tragedia estetica.
“kid charlemagne”, da sola basterebbe a fare grande un gruppo pop, non scopro l’acqua calda. Frutto del consueto, straordinario lavoro d’equipe del duo con session-men come Larry Carlton (prima del proprio debutto solista); in un sopraffino oscuro melange, solare e scabroso, un ambiguo mosaico neominimalista da ricomporre e in cui scervellarsi per ottenere un quadro ancora parziale, relativo, sinistro.
“The caves of Altamira” ne bissa il clamore, preparando il terreno a un chorus acceso, trascinante: “Before the fall when they wrote it on the wall/ When there wasn't even any Hollywood…”, segue un gioco tra fiati e corde dai viluppi mai automatici o già scritti e che ti emoziona.
“Green earrings” prefigura, nelle sue venature arabeschi e accattivanti pindarismi di corde pre-‘fusion’, poi in Aja-title track o “Josie” di cui ‘Green’ è un po’ battistrada.
Stesso dicasi di “haitian divorce”, dall’andatura piacevolmente reggaeggiante (l’assist decisivo per “dreadlock holiday” dei 10cc?), stesso rimescolio tetro, salvo luci improvvise all’orizzonte.
Geniale l’uso del talk-box a infondere trepidazione a una narrazione puntualmente avvincente, mordace. E coda meravigliosa: le chiusure dei brani di questo disco sono tra le più belle ed elaborate dagli Steely Dan.

“everything you did” è un torrido veleno che descrive una lite di coppia. Esempio di melodia defilata, serpeggiante, essenziale, d’oscura avvenenza, clamoroso in quell’insistere fissato, ove batte il chiodo del sospetto: “now wanna hear about everything… you did baby”.

Musicalmente il resto dell’album si mostra interessante, ma meno chiassoso e piuttosto ordinario per due fuoriclasse come Fagen e Becker; certo paga l’esubero, la grazia di simili miracoli ‘pop’ di cui sopra.
“don’t take me alive” dopo un promettente incipit assolo va a poggiarsi senza gran mordente, “sign in stranger” è già migliore divertissement (“You zombie! /Be born again my friend
/Wont you sign in stranger”) la cui coda strumentale sax-chitarra assicura una bella virata verso la stratosfera.
“The Fez” col suo incedere inquieto e la sua foce nell’Eldorado, prefigura gli Steely Dan che verranno, indubbiamente i più memorabili per sintesi e avvenenza. Ma è caparbia e invadente, non me ne piacciono le tastiere e mi va di traverso.

La title track a suggello dell’album, è incalzante, solenne e beffarda nel mimare le difficoltà esistenziali raccontate dal testo. Ma non desta tanta attenzione se non nel cuore-ritornello, urgentemente gospel, e nello svolazzare di sax, allegoria di pensieri infetti, agitati.

 

Gaucho Outtakes (Unauthorized Bootleg)

Non capita tutti i giorni di imbattersi in cinque brani inediti firmati Steely Dan, “late period” per giunta.
Queste “Gaucho Outtakes” circolano da anni su internet e sono essenzialmente prove in studio che Fagen e Becker hanno bocciato per un motivo o per un altro. Eppure sono un'autentica delizia per la mente; una sorta di Sacro Graal per ogni seguace Steely Dan che si rispetti.

Questi brani furono oggetto di revisioni, ripensamenti (complice il leggendario perfezionismo in studio), danneggiamenti: si pensi alla punta di diamante "The Second Arrangement", capolavoro più volte riarrangiato e delittuosamente omesso da “Gaucho”  (a causa di un'involontaria cancellazione da parte di un tecnico di studio), abbandonato piuttosto che reinciso.
Se questo brano non riducibile ad altri già editi e impareggiabile anche per il testo fosse stato inserito nella scaletta di quel disco, avrebbe condizionato modo determinante l’atmosfera generale.

Dato non secondario, la qualità acustica è decisamente buona, superiore alla media dei ‘bootleg’ artistici che circolano (e decisamente superiori ai ritrovamenti di “Katy Lied”). Si viene a scoprire fortuitamente il lato più ‘indie’ di Fagen e Becker, qualche debolezza da esseri umani, in questo sacrilego sbirciare tra scartoffie regali (e in quanto ‘fans’ c’è da sentirsi in colpa, ma tant’è..). Se d’altronde gli interessati hanno fatto il possibile per arginare la circolazione di questo miracoloso documento, loro intenzione era non diffonderlo.

Otto brani ‘demos’, per metà inediti tra i quali spicca la citata The Second Arrangement, la splendida Kulee Baba dagli accenti swing in levare (un Hi-hat alla Weather Report); le sospensioni piano-basso di Talkin’ About My Home, The Bear –che sembra sottratta da Royal Scam- e Kind spirit.
Abbiamo poi versioni strumentali (Gaucho), e abbozzi vari: Were You Blind That Day -poi Third World Man-; Time out of mind senza ancora l’assolo che costò un esaurimento di nervi a Mark Knopfler. Altre purtroppo sono rimaste nel cassetto e c’è poco da sperare in questo senso (tale “Heartbreak Souvenir”, per la deludente esecuzione).
Su tutto, ancora e sempre è sparso il sortilegio, quell'equilibrio strutturale che fa inossidabili, sempiterni, i pezzi Steely Dan. (Fabio R., 2005, 2008, 2009)

 

SUGAR PLANT After After Hours (1997 World Domination Recordings)

Il progetto Sugar Plant prende vita per volere di due amici di università, Chinatsu e Shin'ichi, nel 1993.
Le direzioni musicali intraprese dal duo si appressano a quelle dei Velvet Underground più assorti, ed ai relativi santini Yo La Tengo e Luna, ma anche ai gruppi degli anni dell'ondata shoegaze.

Nel 1995 il duo Sugar Plant esordisce col promettente Hiding Place, ma a seguito dei due Ep e del seguente Lp After After Hours del '97 che si delinea appieno ed emerge una poetica individuale di serena e pura emozionalità, che si manifesta sommamente in tutta la propria languida e stregante passionalità, turbante onirica radiosità.

Arrangiamenti atmosferici folgoranti sprofondano in un abisso psichedelico madreperla ("licorice", "here rain comes", "drifting", "freezy"), il lento dipanarsi di avvolgenti e morbide trame strumentali per farsi poi solenni e ieratici in entusiasmanti e caotici crescendo di distorsioni chitarristiche e di tastiere elettriche ("behind the door", "brazil").

Riverberi, tremoli, feedback e wah-wah esprimono vertigini emotive spalancate da intime e invisibili direttive, mimate da caliginose parvenze, sottili e argentee, bisbigliate da voci inquiete ed estatiche.
Tiepide e fluttuanti voci femminili recitano eterei madrigali, premurose cantilene, malinconiche e assieme idealmente euforiche, rilassate da apparire sotto morfina, si assistono e si stringono vicendevolmente come fari che illuminano una densa oscurità; coagulando si fondono in un caldo, misterioso respiro primigenio ("I hate morning", autentica liturgia).
Atmosfere incantate e palustri esprimono un'ansia di dolcezza, imminente anelito romantico. Nebbie fatte di rimpianto. Lentamente si scorgono bagliori, si intravedono fondali immersi, sentieri perduti.
(autunno 2001)

 

SUPERGRASS

Band formata dagli oxfordiani Gaz Combs, M.Quinn e Danny Goffey, classica linea chitarra basso batteria, autori di uno dei più interessanti esordi power pop britannici che la storia ricordi: I Should Coco (1995), frenetico, teso, divertente, spensierato, sarcastico, Irriverente nella sua
forsennata rilettura del repertorio rock britannico degli anni 60 e 70, definito 'revival mod'.
Quel disco è una magia a partire dalla prima all'ultima, I'd like to know, passando per le inaudite mansize rooster e alright (l'incipit in wurlitzer é un inequivocabile omaggio ai Supertramp). Pop incredibilmente melodico e fracassone allo stesso tempo. Una prova che appartiene all'estate per natura. Nel paoprio genere, l'esordio di Supergrass é superiore, eccezionale, forse irripetibile. La cosa migliore per il power pop nel post-Doolittle, magari assieme a Copper Blue di Sugar, Decline and Fall di Heavenly e pochi altri.
Scalette mozzafiato, vitalità, teenage culture, umorismo. Tutto lo spirito del rock delle origini le copertine di Elvis, Crew Cuts, Hen Gates, Cadets, Contours.

Il secondo In it for the money (1997) mostra uno spettro ancora più vasto e una maggiore cura per arrangiamenti. La riflessione ha preso il posto all'incoscienza e all'acerbità. Forse è questa scelta a risultare non azzeccata, a non rendere il lavoro altrettanto convincente, incredibilmente scorrevole e gustoso quanto l'esordio: titolo del disco (zappiano) e title track a parte, restano tonight e going out a farsi ricordare, e poco più.
Dopo altre prove, negli anni, restano ancora giovanissimi ma è difficile sperare ancora la freschezza, l'incoscienza, la qualità coesiva di I should coco.
(2003)

 

Supersister
Spiral Staircase (Polydor 2441 048)



Nel 1973 il quartetto olandese Supersister volta inopinatamente faccia alle leccornie rock di ascendenze canterburiane che aveva offerto in opere sensuali come “To the Highest Bidder” e "Pudding en Gisteren" (1972), per intraprendere una missione dagli esiti imprevedibili, coraggiosa e praticamente suicida, da cui se improbabile è un ritorno nel mondo reale, certo è l'ingresso tra i sovversivi leggendari, i genialoidi anarchici.

Questo Spiral Staircase del'74 è esempio calzante sin dal titolo, infinita sinusoide protesa verso il cielo (con diamanti), che se mantiene certi accenti armonici marchio di fabbrica, capricciosamente aggiunge mille ambiguità e disordini Allen-Zappiani, dilatando forme, aumentando nel gioco le possibilità, tra ostinati, moti perpetui, detriti cut-up, strumenti del folk, cabaret e deliri vocali in salse calypso.
Insomma è di vero desiderio “art-rock” che si cospira nella periferia olandese, laddove al centro dell'impero imperversava Sua Nefandezza il Mellotron.