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JENS LEKMAN

Jens Lekman
è uno dei talenti recenti della canzone pop d'autore svedese. Attivo già da qualche tempo, dall'anno 2000, ha pubblicato per quattro anni le proprie canzoni su CD-R, mini cd, ep, raccolte varie e altre soluzioni avventurose. Noto anche col nick Rocky Dennis (chissà perché mi ricorda John Denver), attribuitogli suo malgrado, col recente exploit degli Ep “Rocky Dennis in Heaven” per Service e “Maple Leaves” per Secretly Canadian, Lekman è pronto per il passo in formato album, e lo fa con un gruppo di canzoni del proprio repertorio passato. Lekman possiede un sito web amatoriale (graficamente forse ancor più umile di quello del sottoscritto... tanto più amabile per questo)…
Il suo debutto in CD verrà diffuso da Service in Svezia e da Secretly Canadian nel resto del mondo.

 

Oh You're So Silent Jens (Service, 2005)

L'incontenibile vena di Jens Lekman (da qualche tempo divenuto "The 33rd Sexiest Man In Sweden") dà modo di esibire, in questa nuova raccolta di “editi” a mò di secondo album -compile di Ep, rari o persino invenduti (“Budgie Album”) dal periodo 2000/2005- il proprio capolavoro.

Questo disco già leggendario mostra la vena compositiva di assoluta eccezione del Lekman di primo pelo, una languida espressività, dinamismo soffuso e sognatore promiscuo a spregiudicatezza narcisa; l'estratto è strepito e tripudio per appassionati e seguaci indiepop.
In “Oh You're So Silent Jens“ ripercorriamo i suoi fasti dai tanti Ep ormai sold-out come “Maple Leaves”, “Julie”, “You Are The Light”, “Rocky Dennis in Heaven” (uno degli Ep di genere più perfetti di sempre qui riproposto per intero), oltre a rari vinilici, la languida preziosa "F-word", l'inno straziato "Black Cab" con fatale incipit d'organo; la fanfara a festa di “A sweet summer night's at Hammer Hill”, le interiori macerazioni blues dal nome “Sky Phenomenon”, “A Man Walks Into A Bar”, “At the department of forgotten songs”.
Si animano bellezze impensate, dai colori repentini e accecanti, che sentiamo agire per mano d'una voce sfiorante, balenante, che pure affonda nel petto e nel cervello. Ci lasciamo sopraffare, inermi e stregati da questo ingegno. Una giostra di emozioni irresistibile, saliscendi umorale e fasti armonici come oggi pari non c'è.
Se si pensa a più diretti colleghi di Lekman, per così dire, dovremmo andare a scomodare direttamente gente di primo piano come Stewart Murdoch, Blueboy, Cardinal, Stephen Merritt. O ancora, icone d'altri tempi come Paul Simon, Jimmy Webb, Curt Boettcher. Signori, la classe è quella, la vena che anima la scena è la medesima. Che poi il ragazzo si serva di brevi campionature altrui laddove mancano i mezzi, o d'un minimalismo -fai da te- da camera, lampante ed esclusivo è il lignaggio.
A differenza dell'esordio del 2004 “When I said I wanted to be your dog”, non potremmo più recriminare alcunché: qui i brani non sono reinterpretati, oziosamente ripuliti, sofisticando ove non v'era alcun bisogno. Jens è tornato esattamente a ciò che è stato e a come è stato, a un periodo di travaglio esistenziale e di splendore creativo, istinto e trasparenza. Mò di diario, memoriale per scrutarsi un po' e ripartire. Modo di dire: Lekman è sempre altrove, sospinto da un vento temperato, da una fantasia delicata.Ma ambiguamente: perennemente soddisfatto ma tormentato, aulico ma ordinario, apollineo ma dionisiaco.
Quando parte la frase di pianoforte su “Jens Lekmans' Farewell song To Rocky Dennis” con liriche a seguito, sentiamo nuovamente i nervi cedere, rilasciarsi come da ultimo commiato.

"I wish I had a proper reason to cry
A reason not so abstract, more like a broken clause in a contract
"

Probabilmente questo sarà il disco per cui Lekman verrà ricordato sempre, e ad oggi quello più adeguato per conoscerlo.
(settembre 2005)

Maple Leaves (Secretly Canadian, 2004)

Cresce il mio entusiasmo per questo giovane cantastorie svedese, per il suo nuovo Ep, “Maple Leaves” (Secretly Canadian 70).
Quattro brani di multiforme ricchezza espressiva, d'immaginifica varietà timbrica al solito trasognata, che mirano e sognano incantate landscapes Sarah dalle luci dorate.
Memorabili distese di violini, campane, archi ed echi di voci, nell'abbacinante title track, che s'assimilano in primaverili, incontaminate traslucide lande campestri. Colori chiari, suggestioni fantastiche da seguire, perlustrare e in cui perdersi, increduli. “Sky Phenomenon” è un mormorio sottilmente inquieto dell'autore con se stesso. Scoperta interiore, leggera emozione, luminoso biancore infuso riflesso da lineamenti di pianoforte di classica pacatezza. Meraviglia. “Black Cab” è ancora intrigante romanzesca filigrana che ispira infiniti vagabondaggi arcadici, a ridosso di infiniti binari che approdano a stazioni dimenticate, reinghiottite dalla vegetazione. Ritentiva East River Pipe. Il mormorio cristallino “someone to share my life with” possiede una privilegiata aura melanconica, una notturna umidità affine all'edita “those birds who are flying with you”.

Gesti domestici, naturalezza, armonia contaminano ogni cosa, nella durata di questi brani. Lekman appartiene alla sempre più stretta cerchia di persone dalle quali non potremmo mai venir traditi.
(estate, 2004)

 


Junior Boys

Last Exit (2004)

In seguito a due EP, "Birthday" dello scorso anno e "High come down" di questo, ecco "Last Exit", formidabile esordio su lunga distanza di Junior Boys, trio canadese, che va a collocarsi tra le pubblicazioni preferibili dell'anno, in assoluto.
Junior Boys sono dediti a un techno-pop di patterns essenziali mai dimentico d'armonie ed estetiche electro e dance eighties britanniche. I tre mostrano una terrificante abilità sintetico-rielaborativa, come Vive La Fete, ma in più sembrano padroneggiare intellettualmente sensi new-romantic (oltre che "sensualmente").
Esemplare il singolo citato, "birthday": rivoluzione sottilissima, punta di piedi, si precipita tutti, indietro (percezioni, colori, forme)...

Le pulsazioni, le sinuose, ammiccanti, le sotterranee iterazioni ipnotico prospettiche del sorprendente brano d'apertura "more than real", già fatalmente segnano le traiettorie di questa estate 198…2004.
Sensitiva, estatica, disarmante (per alcuni, glaciale) semplicità, che eccita terribilmente i neuroni. Un metodo definitivamente straniante, quasi minimalista ("high come down", "neon rider" "teach me to fight").
Samples, loop house, sgambetti ritmici ("bellona"), slow motions techno, alone drum'n'bass decadente ("last exit", "under the sun", "three words"); fluorescenti-lugubri sembionti di gesti, ad ottenere il massimo effetto emotivo con la pressione di pochi giusti tasti.
Come è stato detto, "Last Exit" sa esser disco indie nonostante la propria marcata ballabilità, come quei rari album frontiera "Screamadelica", "i", "what's that noise?", "Dubnobasswithmyheadman", "Music for the jilted generation".
"Last Exit" è sposalizio retrò-futuro di quelli decisivi.
(estate, 2004)

Begone Dull Care (2009)
Felina e in punta di piedi nel suo sensuale minimalismo “senza macchia” e i distintivi timbri synth-pop anni 80, incede la danza Junior Boys con lo spessore che sempre riconosciamo e che ancora contagia, rinnovandosi entro una lucida magia, in uptempo soul-funk saturo di nitide e felpate pulsazioni electro-rock.

“Begone Dull Care”, terzo approdo discografico, omaggia nel nome uno straordinario artista, lo scozzese-canadese Norman McLaren, la cui sconvolgente opera d’animazione in celluloide, apparsa nel primo dopoguerra del Novecento, infiamma e arde in sé, oggi come allora. Visionaria e sovversiva in un mai domo sperimentalismo, nella propria astrazione/aderenza sul quotidiano, è sempre stata considerata fondamentale per la musica elettronica così come è stata concepita e prodotta.
Quest’album celebra e rinnova il connubio forma-canzone elettronica, come un ponte tra nuovo e vecchio mondo, da dove rispettivamente risiedono e comunicano, tra Canada e Germania, i due titolari del progetto, Jeremy Greenspan e Matthew Didemus. A scrutarne i tratti somatici, è arduo conciliare questa musica con la fisiognomica dei due componenti. Guardi le foto di Jeremy, ascolti “Last Exit” (2004) e quasi ti persuadi che il pizzicamento di talune corde sia meravigliosamente incidentale, per lo più dovuto a sporadiche frequentazioni di club alternativi che a reali immersioni in atmosfere d’annata. Passi a “So This Is Goodbye” (2006) e già il convincimento scricchiola: la presa d’atto che non solo gli ascolti di riferimento sono solidi, ma che sono talmente radicati da coniare uno stile prossimo a un attualissimo marchio di fabbrica.

Con “Begone Dull Care” occorre arrendersi all’evidenza. Parliamo dell’assoluta naturalezza con cui un barbuto residente dell’Ontario (che vedresti bene a suonare la chitarra nelle orge strumentali proprie dei Godspeed You! Black Emperor) ostenta le sue sussurrate malinconie, così da dare la paga a molti navigati maestri britannici del mood (ogni riferimento ai Depeche Mode più recenti è puramente voluto). Giacché chiamarla indietronica è fuorviante: una collezione di canzoni che starebbero in piedi anche solo nei loro pochi accordi, ma che si vestono di abiti sintetici nel malcelato intento di prender pudicamente distanza dal loro stesso delicato bagliore.
Sin dalle algide parvenze synth dell’apertura "Parallel Lines" come spiriti sopiti che circumnavigano oasi soul attorno un refrain d’ipnotico nitore, si dettano le coordinate a un concept seriamente iscritto e compromesso nel “passionale”.
Un connubio col digitale in cui l’umano ottiene la propria, costante, riaffermazione. Robotismi implicati, imbevuti liricamente di pura anima, innescano un rapporto torrido e ambiguo, di sintesi e fusione, di cospirazione tra suoni, visioni e corpi. Rituali che frantumano l’illusorio ponendo in essere, viscerale, l’ennesimo inopinato spleen che rende questa musica sempre implacabile, maggiore della semplice addizione tra parti.

Una complicità bruciante, un pressing stretto tra macchina e sentimento procede irreversibile, nel suo fatale slancio vitale. Il vocalizzo che s’assottiglia nel contrappunto melodico che si fa ancor più artificioso, un’antitesi apparente  del funky che, al contrario, inaspettata si palesa.
Compiace il sicuro portamento formale e cromatico di "Work", che rifulge in un levigato esteriore, in una sensualità fortemente voluta e ritagliata da un morbido sequencer ormai esclusivo appannaggio del duo canadese.
“Bids And Pieces” è il disarmante autismo della “Under The Sun” degli esordi che finalmente si esplicita attraverso un sapiente uso di campionamenti davvero ironici nel loro autocitarsi. “Dull To Pause” contiene tutte le istruzioni su come si plasmano i suoni per redigere il perfetto manuale del minimal-pop, mentre “Hazel” salta agile e fatale, nel suo Dna french -touch.

Un album dal solido potere seduttivo romantico, compromesso, persino usurato come appare, su improrogabili cronache sentimentali. Scottanti armonie, indotte (e... tradite?) dal proprio urgente battito umano, sfilano androidi e pulsano sangue, risaltando un intimo trascurato, persino negato, da contesti sociali in cui individuo e sentimento trovano poco spazio; forgiandosi su un luccicante sentimentalismo ("What It's For"), suggestivo al punto da incendiare strumenti e cuori, in autocombustione.

Non ci aspettavamo voli pindarici, plananti fra generi lontanissimi, né chissà quali rivoluzioni sonore che, infatti, non sono avvenute. La sorpresa semmai risiede nella capacità di mantenere, dopo tre album, un così elevato imprinting emotivo, tutto giocato su equilibrismi che divengono col tempo sempre più eterei e personali. E che elevano l’ascolto al rango di nobile conforto, il riferimento che ancorerà all’oggi i nostri ricordi di domani.
(Fabio R. + M.Bercella 01/04/2009)
http://www.ondarock.it/recensioni/2009_juniorboys.htm