<%@LANGUAGE="JAVASCRIPT" CODEPAGE="1252"%> Robert Byrne Blame it on the night

Robert Byrne - “Blame it on the night” (Mercury, 1979)





“Blame it on the night” di Robert Byrne è senza dubbio uno degli album "titani" che può vantare il West coast pop (o “Adult Oriented Rock” che dir si voglia) della “prima ora”, prodotto negli anni ‘70.
Un'epopea. Come Gaucho, The Nightfly, Mannequin, Hard Candy.
Ogni giorno che scorre via, condanna sempre più gli anni settanta all’oblio. Ma perché allora viene ancora da rifugiarsi tra i caldi fianchi di quell’arte, di quel corpo musicale d'epoca, che il tempo ha reso monoverso eccentrico, remoto e imprendibile, sbiadito, irrazionale, colpevolmente spontaneo?

In virtù della propria infezione impeccabilmente soul-pop e squisitamente fine’70, un disco come “Blame it on the night” non potrebbe concepirsi facilmente, con gli strumenti che girano oggi. Alla propria raffinatezza estetica, eccezionale di per sè ma piuttosto comune negli ambienti AOR, quest’album abbina l’assoluta singolarità della propria pasta, la concezione d’una scaletta straordinaria, disarmante. Vien da adorare persino il ‘false start’ di Baby fat, sorta di back door da cui diparte questo viaggio a ritroso: una sciacquetta funky, viatico ironico epidermico, un po’ secondo lo sguardo di Barrere/Payne dei tardi Little Feat.
Ma poi l’album si leva con la mastodontica ballata Blame it on the night prima, e la rapinosa That didn't hurt too bad poi: quelle modulazioni woodwind, i magnifici synt e quei fiati... e quel crooning insinuante, malioso, morbosamente triste e spirituale. Grana finissima, per cui si è immersi ex-novo nelle viscere di quelle notti lontane, tradotte in remote sgranate pellicole VHS, ancora percepibili dai sensi.
Ed è un viaggio doloroso, trascinante, epico, perlustrando fondali profondi, spasimi interiori, sfiorando soavi sogni e fantasmi, inseguendo amanti spietate fuggite via per troppo amore.

Attraversati singulti, spazi aperti, la pasta soul di Pretend he's me e All for love, sarebbe lecito tirare il fiato. E invece si continua a incassare piani-sequenze di sogni indelebili e di abbagli appariscenti, sospirando in No love in the morning, che parte sulle sue per poi esplodere in un chorus violento, di infinita delirante percezione emotiva (che ancor più infittisce il mistero, come possa non vendersi un album che annovera pezzi di questo calibro).
La straziante indulgenza di Tell me it's over one more time e il luminoso congedo She put the sad in all his songs suggellano un eterno capolavoro di “blue pop”.
Musica accesa e invitante per natura, ma, mistero dell’arte, creata per piangere e rimpiangere. Brillante per costituzione ma infelice e segnata nel profondo dell’animo, come un’insegna al neon fuori da un locale deserto, destinata a brillare, a brillare nonostante.

Canzoni come un film a puntate in un cinema appariscente ma disgraziato, solitario nella migliore delle proprie occasioni, nella migliore delle notti possibili.
Quanto a noi, ogni difesa immunitaria crolla innanzi a un tale assoluto privilegio d’ascolto. Scrigno tanto più propizio Blame it on the night, se si pensa che in breve la sua avventura notturna luminosa e appassionata disparve nel nulla, con tutto il suo potenziale, in un lungo prolungato flow, fade-out.
I giapponesi, moderni guerrieri della passione e d’ogni eccesso, sono da sempre stregati dall’arte parossista, persuasiva e insinuante della musica AOR’70’s. Nel 2003 stampano in CD “Blame it on the night”, come anche il seguito “ideale”, a firma “Byrne & Barnes”, “An eye for an eye” (1981, ristampato nel 2001), altro imbarazzante capolavoro realizzato da Byrne assieme agli stessi produttori Clayton Ivey Terry Woodford, che trattiene questa magia di pece per volgerne in rovescio della medaglia, complemento solare, accecante, confermando Robert Byrne gran cerimoniere, principe della ballata west-coast più sopraffina.
I due dischi sono e restano un dittico imbattibile nel loro genere.

(inverno, 2005)