Jandek

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Introducing to… Jandek
© 2003-2008, Fabio Russo

Proviamo un'introduzione a Jandek, un oscuro e leggendario cantautore folk del Texas che ha istintivamente anticipato tutta la casalinga progenie indie e folk rock.
Jandek é un autore problematico e misterioso, egocentrato nella propria personale epopea artistica senza una precisa identità biografica, che ha preservato nello spirito la stessa identità musicale e uno stile originale. La sua opera consta d'oltre cinquanta album prodotti e venduti da solo, recentemente ristampati (attraverso la label fittizia Corwood Industries, così come è fittizio il numero di catalogo che parte da 0739), vanta oggi un numero sterminato di ammiratori e di seguaci che ripercorrendo le sue arcaiche orme hanno sviluppato modi ed elementi del rock indipendente.
Dal cantautorato folk alle estetiche Post Rock, e d'avanguardia; dal do-it-yourself al low-fi non c'è chi non ammetta un debito a Jandek. Generi a cui lui non sarebbe mai potuto, oggi come allora, appartenere.
Sempre oltre, altrove e in disparte, non pervenuto, non raggiungibile.

Segue un possibile approccio, uno sguardo alle opere di questo imprescindibile outsider.


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Discografia

PRIMO PERIODO

Ready for the House (1978)
Six and Six (1981)
Later On (1981)
Chair Beside a Window (1982)
Living in a Moon So Blue (1982)

Staring at the Cellophane (1982)
Your Turn to Fall (1983)
The Rocks Crumble (1983)
Interstellar Discussion (1984)
Nine-Thirty (1985)
Foreign Keys (1985)
Telegraph Melts (1986)
Follow Your Footsteps (1986)
Modern Dances (1987)
Blue Corpse (1987)
You Walk Alone (1988)
On the Way (1988)
The Living End (1989)
Somebody in the Snow (1990)
One Foot in the North (1991)

PERIODO RECENTE

I Threw You Away (2002)
The Humility of Pain (2002)

The Place (2003)
The Gone Wait (2003)
Shadow Of Leaves (2004)
The End Of It All (2004)

The Door Behind (2004)
A Kingdom He Likes (2004)
When I Took That Train (2005)
Glasgow Sunday (2005); DVD (2006)
Raining Down Diamonds (2005)
Khartoum (2005)
Khartoum Variations (2006)

Newcastle Sunday (2006)
What Else Does The Time Mean (2006)
Glasgow Monday (2006)
Austin Sunday (2006)
The Ruins Of Adventure (2006)
Manhattan Tuesday (2007)
Brooklyn Wednesday (2007)
The Myth of Blue Icicles (2008)
Glasgow Friday (2008)
Glasgow Sunday 2005 (2008)
London Tuesday (2008)
Skirting The Edge (2008)
Hasselt Saturday (2009)
Not Hunting for Meaning (2009)
Portland Thursday (2009)
What was out there disappeared (2009)

 

 

Lost Cause (1992)
Twelfth Apostle (1993)
Graven Image (1994)
Glad to Get Away (1994)

White Box Requiem (1996)
I Woke Up (1997)
New Town (1998)
The Beginning (1999)
Put My Dream on This Planet (2000)
This Narrow Road (2001)
Worthless Recluse (2001)


 

 

 

 

 



"(la vita è fatta di piccole solitudini)"
- Roland Barthes
"It must be in the air in Texas"- Seth Tisue

 

Ready For The House


The man continues to live with the curtains drawn and the phone off the hook
(Irwin Chusid, Jandek the great disconnect)


Eccentrica opera prima, realizzata al di fuori di ogni compromesso, in assoluta povertà di mezzi e di modi, che esaspera al limite il concetto underground nella musica rock.
Jandek, per alcuni Sterling R. Smith, vive nei pressi di Houston, Texas, e pubblica dischi dal 1978 (prima col nome The Units) sul quale non si è mai saputo nulla di certo, neppure sull'aspetto fisico. Su lui si può solo supporre che sia un introverso visionario.
Da più di venticinque anni costui propone una medesima identità musicale con poche variazioni sostanziali: una sorta di folk blues atmosferico, catatonico, realizzato in maniera grezza e informale per sola voce e chitarra, più qualche altro strumento o effetto occasionale.
Le copertine dei dischi di Jandek sono misteriose fotografie sgranate, a volte in bianco e nero, che ritraggono particolari di interni e esterni di una abitazione o una persona, il musicista stesso.
Sul retro trovano spazio il nome del disco, titoli e durata delle canzoni, senza alcun riferimento ad eventuali collaboratori o all'epoca a cui risalgono gli scatti.
Ready For The House, inosservato alla sua uscita, fu ritenuto inascoltabile, grottesco, perché disponeva (disgregava) elementi noti in maniera del tutto scioccante.
Utilizzato come tappezzeria per auto dai DJ a cui Smith lo spediva, Ready For The House ha costituito forzatamente uno dei punti di non ritorno della cultura indie e underground rock.

La voce dell'interprete mantiene un istinto folk blues ma è desolata e sospesa come in una trance. Recita liriche disagiate e malinconiche, spesso ermetiche, con una quiete stranita e monotona. Una litania cristallizzata in un controllo che non concede sbalzi umorali, compiacimenti, enfasi.
L'inflessione dell'interprete può ricordare Lou Reed o Dylan ma si mantiene rappresa, indipendentemente da ciò che dice, nella stessa chiave. Senza mai deragliare, esporsi troppo, rivelarsi e tradire un segreto occulto. Quanto alla chitarra, il nostro gremisce gli stessi due accordi, senza dinamica, reiterando a volte una sola nota, pizzicando la stessa corda con lievi variazioni di tempo da brano a brano.
La melodia così come la struttura di ogni brano, sono celate al punto da non saperne identificare l'inizio e la fine: è più utile guardare l'opera come tutt'uno. Un tutto che va a comporre una tensione trascendente, perturbante, che aleggia scomposta ed estende a dismisura spazio e tempo, originando oscurità e abissi di isolamento. Non esorcizzabile.

"Ready for the House is indeed one of the most deeply disturbing and oppressive albums ever heard". Queste caratteristiche ripudiate da chiunque in passato, questa percezione di limite, questo abisso di disperazione, in quest'album come nei successivi (da Later On a Chair Beside a Window, da Blue Corpse a I Threw You Away), intrigano e irretiscono qualsiasi curioso per l'underground folk-rock, al punto da originare una dipendenza che porta a ricusare altri tipi di ascolto. Questo oscuro universo richiede infatti una particoalre dedizione per penetrarsi e non favorisce spazio ad altro.
Alla fine degli anni ottanta, con provocazione e lungimiranza si ritenne Jandek tra le personalità musicali più stimolanti di quella decade, nonostante la sua emarginazione artistico-esistenziale.
Entrambe le posizioni -opera esecrabile, artista geniale- all'antitesi l'una dall'altra, mostrano l'imbarazzo di critici e ascoltatori di allora a catalogare un autore che non sembra tuttavia difettare di coerenza.

Six And Six

Secondo capitolo del romanzo blues minimalista e derelitto dell'autore che qui si nomina Jandek per la prima volta.
Six and Six é un imponente cono d'ombra, l'oscurità di una giornata. Un largo potenziale arcano, sinistro, agghiacciante.
Le caratteristiche che distinguevano l'esordio Ready For The House permangono integre, ma l'insieme é più compiuto e maturo.
Six And Six va a comporre il dittico del Jandek esordiente, laddove il terzo Later On mostrerà progressi significativi e irreversibili, o almeno elementi diversi.

Six and Six é forse il capolavoro assoluto di Jandek. Oscuro, catatonico, evocativo. Un'opera inestimabile non solo riguardo la discografia di Jandek con cui sembra non avere alcun rapporto.
Questo album scopriva tutto prima. Le lugubri intensità di point Judith, I knew you would leave, Hilltop serenade, delinquent words intuivano le ossessioni e l'angoscia di Spiderland di Slint con grande anticipo.
Si acuiscono gli effetti di penombra e isolamento: c'è un eco che amplifica voci e strumenti, come un senso di foschia che riverbera fino ad avvolgere e permeare l'ambiente circostante, ovattandolo.

Six And Six é dunque accordi liberi mono-tono di chitarra acustica, vuoti panneggi tutt'uno col brancolare del narratore, un semirecitare fermo estremamente impassibile, quasi atonale.
Da feathered drums a delinquent words, é un monolito di voce e acustica (più gli eco), e si è come impietriti. Impossibile ogni fuga.
Improvvisazione, insieme a un senso di lucidità e di precisione chirurgica.
Acuisce il senso di smarrimento una densa solitudine, una distanza cosmica, definitiva. Misure di una inquietudine spirituale e esistenziale.

Now listen gently to the call
Riding on the waves that fall

J. si limita a dire (e a soffrire, forse) in disparte. Il tratto distintivo è in questa invincibile imparzialità. Mostra di adattarsi a questo impressionante clima spettrale e instabile. Nel finale delinquent words, continuazione di point Judith, nega ogni liberazione o redenzione vaticinando versi noti:

dust enters into all being
and man who came from dust
to dust shall he return

Sulla copertina, una foto dell' autore, in età adolescente. Sarà la prima di una serie di perturbanti immagini che manterranno questa persona sempre giovane, malgrado lo scorrere del tempo.

 


Later On

Il secondo lavoro in un anno per Jandek, quello che una volta per tutte dissuade di trovarsi di fronte un'allucinazione, un misterioso abbaglio, un insolito, bizzarro progetto abbandonato.
Da qui l'autore intraprenderà costantemente una carriera tra le più coerenti e rigorose di sempre, sia per forma che per contenuti.
Apre Your condition, il brano che mostra un nuovo corso. Strimpellio di chitarra acustica, abbozzi di ritmo sordo (pizzicando le corde), armonica aspra e stridula, voce sottotono sghemba e biascicante, che cresce d'intensità facendosi disturbata e sadica.
Dunque un modo di esporsi. Esasperando le ambiguità dei vocalismi mimetici dei due lavori precedenti si arriva a tradire, cambiando stile, comunicando "soggettivamente" qualche emozione nella performance.
Per il resto, c'è il solito costitutivo malessere organico dell'universo solipsista di J., sempre magistralmente dissimulato da un autocontrollo che lo preserva da ogni istinto di retorica. The Janitor e Oh Jenny sono due tra le migliori cose del cantautore.
Ai momenti di depressione e di puro sconforto (What did I hear) alternerà sprazzi di buona vitalità e dinamismo (Just whisper, Jessica), che si ergano o che restino a covare.
Si respira un'aria diversa insomma, non per forza più matura, ma più espressiva e partecipe.
Alcuni considerano Later On ideale base d'approccio alla difficile arte di J.: "it's very moody, alternately angsty and driving, then quietly reflective. Perhaps even more pensive in its tone than usual. Also, the guitar tuning is unique" (Chris D Woodward)

Chair Beside a Window

Il non risolvibile enigma della datazione dell'opera omnia jandekkiana costituisce uno dei motivi d'ambiguità e di tenebroso fascino dell'autore.

Come si saprà, non c'è album (o meglio, "raccolta di brani") che indichi la data di preparazione.
Infinite dunque le querelle e speculazioni possibili sulla data del concepimento di ogni disco (o, persino, di ogni brano!); se chi segue sia davvero più recente (o più datato) di chi precede.
Tutte le ipotesi sono lecite, mancando riferimenti di ogni tipo.
Durante i tre anni 1979-81 (definiti i lost years) che distanziano la pubblicazione del debutto Ready For The House da quella massiva delle opere seguenti, Jandek, dichiaratosi Sterling R. Smith all'allora produttore radiofonico Irwin Chusid, oltre ad ammettere imbarazzanti giacenze affermò di aver inciso materiale per altri dieci album. La musica targata Jandek potrebbe dunque essere rimasta celata per anni e solo in seguito, diffusa.

Chair Beside a Window (o parte di esso) mostra talune affinità vocali e musicali con l'esordio, altre volte è invece palese una prossimità col terzo Later On: armonica tagliente, chitarra acustica e voce esaltata, come in You think you know how to score, Unconditional authority, The Times.
Chair Beside a Window è rinomato, tra gli estimatori dell'artista, per contenere Nancy sings, che, assieme all'elettrica No break, compone un dittico inquietante e impalpabile, affidato a voci femminili di arcana, magica seduzione.
Stante un'altra dichiarazione dell'autore a Chusid, le voci apparterrebbero a due sorelle dell'Ohio (Nancy e Pat) a cui é stato chiesto di collaborare a canto e batteria. L'altro brano elettrico dell'album, European Jewel, è un vero caos dissonante alla Mars di "Monopoly", ordito da chitarra elettrica scrosciante e batteria, in contrasto con la quiete immota del resto. Spunta anche un basso. La performance di J. ripercorre invece il tono inerte dell'album, sopprimendo tutte le ambiguità della versione originale del brano, che chiudeva Ready For The House.
Ad ogni modo Chair Beside a Window resta un album assai inquadrato, focalizzato sull'abbandono. In alcuni brani domina una depressione viscerale, altrove una sorta di distacco simulato, per rimarginare le ferite.
Down in a mirror che apre, è una composizione inquieta e emozionale. Acustica, effetti riverbero e battiti di tempo col piede. Il tempo si fa estremamente dilatato.

We can't deny there are spirits in this house
You shut the door, the wind closes two more

La voce di J. è tenera, struggente e sconfortata, implora il ritorno (o il perdono) di qualcuno il cui spirito (vendicativo?) aleggia all'interno dell'abitazione, tormentandolo.
Simile senso di defezione in Mostly all from you (Rain on my head and it's/ mostly all from you) e The times (It took about a month or so/ for you to know what you are after/ (…) You're livin' free and livin' high /You're like some angel in the sky…). Si cerca di uscire dallo sconforto con l'ecumenico messaggio d'amore in di Love, love.
Ancora un senso di umana fragilità si rintraccia nella performance femminile di Nancy sings. Un'inedita e mai più ripresa emozionalità, magica e drammatica; un senso di dolcezza spirituale che sembra immediatamente consolare lo stesso protagonista ritratto in copertina.
Particolare sì, di una foto più grande, ma più che di gruppo, appare l'ennesima immagine -sconfortata- del Poor boy Jandek ritratto in solitudine all'interno della propria dimora.

Living In A Moon So Blue

"Le persone che chiamo dopo mezzanotte sono le persone più importanti!
Quelle delle ore piccole, quelle delle enormi ore piccole!"
(dal film Chi è Harry Kellerman…? di Ulu Grosbard, 1971)

Vivere sulla luna, o pensarla, sognarla da terra da naufrago, in una serie di sedici brevi e al solito, libere, istintive composizioni.
Miniature sciolte, disperse, trovate e suonate senza dubbio durante il lento fluire della notte, immerse nella innaturale, quieta aura notturna (il periodo é probabilmente tarda primavera) che avvolge ogni cosa.
Moon come mood, e un sentimento perennemente blue, ossia blues, mesto.

Le liriche di partenza (su Six and Six) recitavano: "You’re living in a moon so blue", riferite forse dall'autore a se stesso; non si può sfuggire all'ipotesi auto-analitica.
Tristezza che genera insonnia. Ma è una notte chiara, luminosa, che ispira e suggerisce atmosfere quiete, spoglie e tenui, interventi discreti e informali.
La solita splendida copertina indefinibile, sfocata e monocromatica, assolutamente complice della materia musicale, ritrae in bidimensione una chitarra acustica in primo piano appoggiata a un muro. Chitarra acustica in vero mai ingombrante ma a fianco al performer, alle sue sperdute, meravigliose allucinazioni in fil di voce, all'abituale interpretazione rappresa, misteriosamente raggelata in una quiete apparente.

Staring At The Cellophane


A proposito del precedente Living in a Moon So Blue è stato detto:
"The songs have that swingin' bouncy tempo; Jandek is finger-plucking the strings so hard that the pitch of some notes bends up & down. Some of it is quite aggressive…" (Bradley Be)

Questa definizione é indovinata anche per Staring At The Cellophane che segue dallo stesso anno, ma più che seguito è doppio, identico in tutto e per tutto.
Oltre a riprendere la grafica nell'immagine di copertina di Living In a Moon…, Staring mostra la stessa vaga vegetazione, stesso universo solipsista sereno e addolcito in sé, ma più compassato e catatonico.
Fiochi ectoplasmi si agitano indistintamente senza dolore, in questa ideale raccolta impressionista fatta di allucinazioni stracciacorde e vocalismi sgualciti e smarriti.
Un'anima fragile e contusa, spontanea e sincera…

Curiosa l'affinità lirica tra il brano Michael che apre quest'album con l'omonimo che sigilla Down Colorful Hill dei Red House Painters (1992): ambe lamentano "Michael, where are you now...?"



Your Turn To Fall

Your Turn to Fall va a completare il trittico della notte coi già gemelli Living in a Moon so Blue e Staring at the Cellophane.
Tre album e una stessa pasta, le cui composizioni potrebbero sparpagliarsi in ogni sequenza non smuovendo più di tanto l'espressione dell'insieme.
Strumenti e voce posseggono un senso pudico e misterioso, si avvinghiano alle pareti, si riversano sul tappeto. Una mimesi volta all'annullamento con l'atmosfera, senza forza d'attrazione. Il brano d'apertura liquids flow to the sea sembra appunto lasciar andare, liberar via, fuori, altrove, ogni cosa. In questa immaginifica trilogia dell'opacità, l'interpretazione vocale è tesa, sospirosa, trascinata verso. Una miagolante ansia d'infinito, senza alcun ingombro di mestizia o pathos.
Se altri album possiedono queste caratteristiche (Chair Beside a Window, Interstellar Discussion, Nine-Thirty), ne mostrano solo parte. Questi tre sono invece più contestualizzati ad insieme (unica parziale eccezione john plays drums); asserviti a questo stato d'animo si trainano fra loro, si spargono in un limbo sbiadito, veleggiano in assenza di gravità. Atmosfere e tensioni ambientali senza peso e senza forma, senza soggetto e senza oggetto.

Spesso la voce è un querulo gemito che volge a effetto ambientale (per via di flebili eco aggiunti), ancor più si predilige il vociare dell'acustica (elementary talk, no time, new string).
Aria impalpabile, senso di futilità, marchio velleitario pervadono l'autore, sconfortato e lamentoso (you don't have to entertain me, echo, dance of death, they knew my game).
Le liriche di I'll come back recitano: "if you're ever sad and lonely/ i'll come back and be your only".
If your fortune fails you
richiama in titolo e voce i più remoti esordi artistici.
Se Your Turn To Fall non arriva ad essere un mile marker della discografia di Jandek, resta comunque una prova notevole dal fascino integro e prezioso.
Il venturo Rocks Crumble saggiamente sperimenterà idiomi e getterà altre basi, scongiurando una prematura fossilizzazione.

The Rocks Crumble

La strepitosa, sfocata fotografia in bianco e nero di copertina ritrae una densa oscurità in un interno di abitazione.
La luce penetra una finestra, al solito con tenda tirata, rischiarando spettralmente una batteria e una porta.
L'ottavo album di Jandek in sei anni è anche il primo interamente elettrico.
L'autore aveva già attaccato la spina nel primo album, esattamente nel brano che chiudeva, European jewel (incomplete).
Forse il brano più ambiguo e disturbante della sua discografia. L'ingresso di un livido, affilato riff di chitarra elettrica; rauco, sinistro.
E una voce biascicava ostile, perversa, indisponente, descrivendo una situazione tormentata, terminale:

You sure are cool.. A European jewel.. I dig you most
A letter came.. It's not the same.. The ink was blue


una Transilvania, echi intorno, clima lugubre, opprimente, inospitale.

There's bugs in my brain
I can't feel any pain
Just a shaking shake

E quella interruzione, uno strapiombo per il nulla. In Rocks Crumble Jandek effettua ben tre variazioni di quella situazione raccapricciante: European Jewel 613, European Jewel II, European Jewel 501. Consecutive, dunque ossessive, estenuanti.
La prima è la più fedele all'originale, ma la performance è più ipocrita. Nella seconda interviene una batteria caotica completamente libera di seguire un tempo proprio o di girare a vuoto. A volte è puro strepito. La terza versione è la più libera. Il riff portante è lontano, come annegato dal frastuono della grancassa. La voce è più ubriaca e ansiosa. Forse questa ripetizione agendo sul subconscio può far adattare al clima spettrale, una sorta di cura omeopatica. Oppure, semplicemente, continua a infierire.
Riguardo l'album, The Rocks Crumble, realizzato da solo (come dichiarato nell'85 nella celebre intervista telefonica al giornalista J. Trubee) è opera dai tanti volti, spartiacque tra passato e futuro artistico. Snodo fondamentale, nonché anticamera per la nave spaziale alla deriva di Interstellar Discussion.
Rocks Crumble si inaugura con due brani riflessivi e notturni sul modello degli album che l'anticipavano. L'inquieto Faceless e il languido, sconfortato Birthday. La voce è compassata e remissiva. Il secondo è un altro rifacimento del brano intitolato Nancy sings su Chair Beside a Window.
La novità dell'album è nell'uso di suoni elettrici anziché acustici. Ma c'è anche una svolta contenutistica: l'autore propone per la prima volta una miscela free noise rock con cui inaugura un nuovo corso artistico; la base di parecchi suoi album degli anni ottanta. In particolare Foreign Keys del 1985.
Il dittico di Message to the clerk è un sulfureo blues rock fatto di improvvisazioni deliranti e scalmanate. Un clima burrascoso allestito da chitarra elettrica e batteria e vocalismi asettici.
"Take a message to the clerk. Tell him not to work". Jandek riprenderà il brano su On The Way dell'88, dirottando verso un elettro blues ancestrale.
Branded on a telephone
e Breathtaker sono appendici della sessione precedente. Lonesome company e Same road rimestano più regolarmente il tema blues rock, stemperando (sterilizzando) un poco il clima orgiastico.

Interstellar Discussion

Il titolo esprime il proposito di sentirsi libero il più possibile e percorrere discorrendo e delirando, spaziando percezioni e sensi al di là di condizionamenti.
Jandek
avvicina i generi folk-blues, etno, psichedelia e avanguardia fino a deviare e a collassare le gabbie della convenzione.
Questo album é pura concupiscenza onirica, volo inestimabile attraverso sessioni improvvisate in una magione prigione che in pochi si sarebbero aspettati dall'autore di Ready For The House. Un monologo egotico e psicotico, dalla sembianza corale e invece solipsista, monoverso.
Nel trittico di partenza, Starless, Hey, Why did I change a word in the last song le voci e gli strumenti raggiungono una perturbante alchimia, auto combustione.
Si inerpica un'insolita vertigine, una claustrofobica tensione; Gli sciagurati assemblaggi cacofonici, le ritmiche spezzate e i riff scordati, vocalismi gettati e liriche costantemente sospese come in paralisi si accompagnano a un senso drammatico, mimano con grande efficacia sembianze d' apocalisse e decomposizione psichedelica, aggiungendo col proprio istinto amatoriale, un'essenza pionieristica.

In Call you the sun riverberi, effetti picchiati e rintocchi incantati tutt'intorno. Un'armonica sognante lambisce il bassopiano, approda poi una voce povera ed esasperata.

I ain't got none é un classico del modo dell'autore. Esprime come meglio non potrebbe, dove si può arrivare in questo senso.

Richiami al passato, vocalismi disturbati, morbosi, percussioni cupe, brumose, stordenti e orgiastiche rimbalzano con echi ancestrali in lontananza e si protendono all'infinito. L'esito é terrificante, e infettivo. Con The spirit si desta l'istinto isolazionista del nostro, volge in catatonia; chitarra e voce desolata.
In Rifle in the closet ("is just the name of the song"...). ha ha, customary, kick, regna demotivazione ovunque. Come trapasso onirico, la stessa aura di sogno e di ossessione che pervadeva l'album Living In a Moon So Blue.

Nine-Thirty

Un lavoro che torna alla rudimentale chitarra acustica atonale e scordata dopo due Lp (The Rocks Crumble e Interstellar Discussion) prevalentemente elettrici. Durante i soliti quaranta e rotti regna un salmodiare blues, storpiato e afflitto.
Formalmente può sembrare un passo indietro, ma non un'involuzione. Sviluppa la nevrosi degli ultimi lavori, una sorta di maturità rispetto alle prove più giovanili. E un disperato romanticismo confidenziale nella narrazione, nella splendida this is a death dream.
Dunque, un album tra i migliori del periodo, da valutare con attenzione.
Nine-Thirty somiglia a Later On e a Staring At The Cellophane. Dell'uno riprende il brano Oh Jenny, ma anche l'omogeneità di registro, dell'altro si appropria dell'ego lunatico, tra isterico (wrong time) e malinconico colloquiale (left the beach last sunday).
Una disillusione occlusiva, come un'apocalisse implosa che livella tutto su uno stato di quiete immota. Voce e strumento si appiattiscono e si inchiodano al medesimo stato comatoso.
C'è sempre qualcosa che sfugge, che scivola via. Nella natura di questo cantore c'è la saggezza di ripudiare ogni consolatorio istinto melodico che ha coinvolto tutti i precursori e gli epigoni del cosiddetto genere cantautorato. Anziché ricongiungere, trovare un compromesso, un accordo (in tutti i sensi si voglia intenderlo!), J. si ostina a sparpagliare in terra, a far futile, occasionale, e disperdere ai quattro venti.
La cura proposta dall'autore (per se stesso anzitutto…) è custodire un rigore, una costanza metodologica che è per prima cosa se stessa e preserva l'integrità dell'essere artista, sconfigge ogni illusione, ogni frustrazione.

Foreign Keys

Raccolta forse priva della risonanza di altri album di Jandek, Foreign Keys è comunque album di fondamentale apprendistato, di verifiche e crescite.
Contiene tracce ed affinamenti che porteranno a Telegraph Melts e Modern Dances (i cui embrioni risalgono a Rocks Crumble), nei quali la particolare ricerca musicale del periodo verrà espressa al massimo di tensione e incisività.
Fatalità, sarcasmo, aria indisponente, desiderio di annullarsi: nelle liriche e nella interpretazione di Spanish in me, qui nella prima originale versione, e in un altro classico, Lost cause, summa trascinata della filosofia jandekkiana che darà il titolo a un album futuro.
Foreign Keys vede esibire per la prima volta con continuità la "Jandek band", composta da voce, chitarra, batteria e voce femminile aggiunta. Arduo, se non impossibile, riuscire a definire "chi suona cosa".
L'unica certezza è che gli strumenti, chitarra e percussioni vanno ciascuno, intenzionalmente, per conto proprio, ciascuno improvvisato e in una propria non direzione. Raramente e casualmente si incontrano. Si direbbe che tendono ad evitarsi.
Si iscenano ambienti folk rock, rudi, spartani, arroventati, percorsi da vocalismi consumati, biascicanti e sottotono.
Ci si è domandati spesso del ruolo dell'over-dub nella musica di J. Se occasionale oppure frequente. L'impressione, forte, che si ha è quella dell'esibizione corale in presa diretta. In tal caso si tratterebbe appunto di tre elementi distinti, altrimenti sarebbe l'autore unico responsabile dei suoni -voce, chitarra e batteria- con qualche apparizione della vocalista.
A volte la voce femminile sostituisce l'interprete. Più emozionale, volitiva e risoluta la sua esibizione, per esempio, in Some of your peace. L 'interpretazione può farsi passionale e violenta, per esempio in Ballad of Robert e River to madrid.


Telegraph Melts

"Jandek, Nature Boy. He crouches shirtless in a vegetable garden behind a house that's mostly obscured by a profusion of tree foliage. He's got one hand under his chin as if contemplating something profound, or perhaps just trying to figure out what to do about the bugs eating holes in his lettuce". (Seth Tisue)


Apertura simpatica che c'è parso interessante riprendere. Si scherza sul nerdismo apparente dell'immagine dell'autore sulla copertina
, prevale insomma la speculazione, la curiosità di sondare la mente di Smith, la cui costante impenetrabilità interferisce, disturba e si sovrappone e non consente un ascolto senza inquietudine. Ci si domanda se siano pose artistiche studiate oppure fredde, glaciali rabbie vissute. Non si può non legittimare, ad ogni modo, grandi intuizioni.
Telegraph Melts, il disco, è memorabile. Intenso e impressionante senza mezzi termini, tra i cult del texano. E' spartito in una parte sospesa, impaziente, composta da percussioni marziali, armonica e vocalismi ansiosi e un'altra attraversata da un vortice libero e inarrestabile di sensi, deliri rituali.

Visioni e coscienze shakespeariane, metafisiche e religiose. L'ambiente relegato, rurale, da sempre ha prodotto significati simbolici, forme mitiche e rivolte immaginarie. L'oppressione dall'angoscia ha originato tentativi di capovolgimento sociale ma anche oscurantismi irrazionali, sabba e stregonerie. Qui il naturale non si distingue dal soprannaturale.

Telegraph Melts è dunque il Macbeth di Jandek, empio, onnipotente, sacrilego. Un magma puro, un solenne atto sacrificale, una celebrazione del blues che sembra concepita e realizzata negli inferi.
"Let us celebrate our love…our magic". Le pareti della house di Jandek si surriscaldano, vanno in fiamme, crollano giù tra rimbombi, fumi e vapore, ma lui non se ne cura affatto, celebra la magia, esasperato, nel mezzo, nel buio.
Ace of diamonds, Star up in the sky, You painted your teeth, The fly, House up on the hill, posseggono un'ostilità e una forza profana inaudite. Voci maschili e femminili sconvolte e distorte, gemono straziate, convulse, possedute, declamano invasate tra abissi oscuri, crescono di potenza assieme a percussioni da battaglia, a echi e clangori, a rumori industriali di fondo, deflagrazioni che vorticano in un ciclone.
L'autore é intervenuto aggiungendosi overdub in alcuni brani, sovrincidendo vocalismi liberi, disturbati (The Fly, House up on the hill) o farseschi (Mothers day card) alle performances corali.

Follow Your Footsteps

Lo sguardo allucinato del baby Jandek in copertina introduce come meglio non si potrebbe Follow Your Footsteps, opera tredici in otto anni di attività. Questo album é un enigmatico crocevia, grandioso contenitore di cocci sparpagliati, di pareti capovolte, disordini, esitazioni.
Terra bruciata tutto intorno, atmosfera depressa, tetra, muta, strascichi delle sessioni infervorate e incendiarie di Telegraph Melts e Modern Dances. E altro ancora.

Follow Your Footsteps é luogo ibrido di pentimenti, sostituzioni e continue smentite. Tuttavia queste occhiate all'indietro svelano nuove, inattese prospettive a favore di un "nuovo corso". Anzitutto la novità determinante per i prossimi anni ed album è la partecipazione (parziale) di un altro chitarrista al progetto, il suo stile é riconoscibile perché strimpellante, più standard, più incline alla melodia e più…abile.

I primi brani sono elettrici: chitarre allucinate e incontenibile rudezza strumentale, tornano alla mente i Godz dei primi album. Improvvisazione é il monito: What do you want to sing ritrae lo smarrimento dei collaboratori di J.
In Jaws of murmur (cantata dal chitarrista) e soprattutto Honey una possente grancassa in primo piano, sfasata e asincrona (a farne una Alzo Sprach Zarathustra no-fi), dirotta verso sentieri di una mente deviata. Poi la smentita: rimpiazza seccamente un modo umile e disilluso che lascia andare l'album. Performance soppressa, aria impalpabile e blanda se non spenta, acuisce il taglio, costituisce il cuore dell'album e rivela parecchie affinità col venturo Blue Corpse. Didn't ask why, Preacher, For today, la malinconica melodia di Leave all you have e I know you well sono in effetti verifiche cruciali in cui l'interprete collauda un particolare senso di disfatta e tracollo vissuti con distacco senza rimpianto; costituirà il concept di Blue Corpse.
Spesso il canto distante dal microfono stenta ad udirsi, offuscato dagli strumenti. Voci perdute aleggiano in un purgatorio incustodito in cui è arduo raccapezzarsi.
Negli ultimi brani l'album ha un colpo di coda elettrico con straight thirty seconds prima e bring on Fatima poi. L'atmosfera di oscurità tesa e ovattata culmina in collection, che ripristina con efficacia la situazione dell'album Living In A Moon So Blue. Una nuda acustica ed effetti di eco tutt'intorno, come si fosse in una camera blindata. Un brancolare nella foschia verso un buio sempre più pesto.
Gela l'incipit di we're all through, solo voce e chitarra, "All together now…one two.."A rispondere, solo sinistri riverberi ambientali.

Modern Dances


Opera ruvida, caustica come poche altre che si nutre di ombre: inospitale. L'autore assieme ai suoi abituali collaboratori cerca qui di isolare, segregare, non senza tormento e lacerazione, i propri demoni e le ossessioni più ricorrenti: Painted my teeth, Spanish in me 003, personali funny games, rivisitati con aria sadica, farsesca, ridanciana.
Spuntano fuori minacce, coltelli, strepiti incontenibili, accidia, atti blasfemi, indicibili degenerazioni strumentali, frastuoni tribali, tentazioni sataniche.
Modern Dances è l'album gemello di Telegraph Melts, ma decisamente meno assimilabile, quasi insostenibile. Dunque un album difficile, ma ha grande energia e un fascino che si svela e si corrobora con gli ascolti. A far da padrone è l'improvvisazione, l'incostanza, il senso informale e indigesto.
E' il disco Marsiano di Jandek: voci cerebrolese, brani del tutto improvvisati, lunghi, connessi fra loro, una stessa pasta che respinge qualsivoglia struttura, principio armonico o progressione.
Twelve Minutes Since February 32'nd, Hand For Harry Idle, Nothing is Better Than God, I Want to Know Why; tutto è ulcera, ammasso (e ammesso) selvaggio e inorganico, primitivo e feroce simposio di villains, in liriche, ritmi, voci.
Sovrasta ogni cosa il valore di una performance-caos che recupera un senso acre, primordiale, del rock, regredendo torna a farsi principio in questa scalcinata, devota magione.
La chiusura è affidata a un trittico di strepitosa intimità, quasi a ricusare, sconfessare apertamente ogni fatto. Un nuovo battesimo, che riesplora le origini dell'artista: il rimprovero di simple as that, il monologo interiore di open E, il sublime, inquietante cantico di carnival queen.



Blue Corpse

Un risveglio, una riconversione laica dopo gli accenti esasperati delle altre prove del periodo.
Un ritorno all'espressione congeniale acustica (chitarra, voce, armonica) con cui abbiamo conosciuto questo autore.
Allo stesso tempo, Blue Corpse mostra di essere un lavoro atipico e singolare in questa vasta produzione. Una lucidità e una saggezza non più raggiunte.
Un embrionale impressionismo folk-blues che lascia il segno dentro, un segno indelebile. Nel suo intero questo disco appare una dolorosa, spontanea emanazione, un'emulsione sfibrata, in cui l'autore lacerandosi fa carico di colpe proprie e collettive.
Nel corso di queste confessioni egli cerca non solo di espiare e purificarsi, ma di dissolversi, sottilmente.
Il clima della session è improvvisato, divertito, spontaneo. Un'altra persona é verosimilmente coinvolta nell'album, un chitarrista "strummer" già in Follow Your Footsteps,il cui apporto è determinante per la forma dell'album. E' lui a cantare i primi tre brani di questo disco.

Blue Corpse esplora e altera continuamente lo spettro musicale in modo ramingo, rimediato e informale, con spunti e rivelazioni di assoluto interesse.

I passed by the building you were working in
I wanted to step inside it
I wanted to lie in your arms again
I passed by the building that you live in
And I wanted to die
I just stood there and cried...
(Passed by the building)

Well, I guess your mind’s made up
Well, I guess there’s not much left to do
Go on, see your other man
Walk up the stairs
That’s where the stars are
Go on, see your other man
(Your other man)

You’re the reason I live
You’re the cause of my death
I love what I can’t help
You took my success
Will you take my failure?
(Only lover)

Si avvertono alcune familiarità con una delle recenti prove, il già citato Follow Your Footsteps, per quanto riguarda la parte centrale acustica, di quell'album. Il senso di acuto smarrimento é lo stesso. Ma laddove quello era tenebroso e funereo, qui regnano armonie lievi e vaghe, immalinconite ma con un ghigno, un senso di beffa.
Blue Corpse è una prova magnifica che non si può smettere di ascoltare, una rivisitazione personale consapevole e insieme inconscia per cui è difficile scovare riferimenti sicuri. Qualche distante reminiscenza buckleyana, e i soliti padrini del Delta blues. E'presente una versione del traditional House of the rising sun.
Quanto più le prove seguenti asseconderanno norme blues indotte, tanto meno si mostrerà questa peculiare ispirazione. Sulla copertina si potrebbe scrivere una tesi a sé. Uno scatto accidentale che ritrae "la persona" mentre cammina, cogliendo nel dinamismo la fatalità dell'attimo. Anticipa i gusti, le intenzioni slacker/lo-fi (e prosegue nel… precedente Modern Dances).
La veste grafica è come sempre stilisticamente in attrazione con la proposta musicale. Un comune sentire, una stessa essenza sentimentale cruda, estrema, verista. Questo personaggio è sempre inafferrabile e sincero.

 

You Walk Alone

Uno dei dischi di Jandek che possiamo ascoltare in presenza altrui senza vergogna, il che significa tra i più regolari e congiunti musicalmente. Anche nella copertina, il protagonista si esibisce per una volta bello acchittato (anche se lo scatto risale, al solito, a diverso tempo addietro…).
Il consueto approccio psycho-blues scarnificato e sgraziato ma anche più regolare, stante il personalissimo e avvincente (dis)orientamento di esploratore solitario, un villico sbandato, che immerge tutto in un'atmosfera surreale e arcaica.
Sin dal titolo dell'album (tratto da una lirica di forgive me, secondo album), You Walk Alone setaccia il repertorio del passato, proponendosi come un'antologia in presa diretta. Otto brani in tutto, quasi tutti già editi ma riarrangiati al punto di non riconoscersi se non per le liriche; voce, chitarra elettrica e batteria nel solito stile ultra amatoriale, non privo di una quale ricercatezza.
La batteria é un rullo rituale orgiastico sempre asincrono, nello stile di Maureen Tucker. Velvet Underground evocati nelle notevoli Time and space e Quinn boys II. Il chitarrista é probabilmente lo stesso di Blue Corpse (e canta su I know the times).
C'è anche spazio per la psichedelia diafana e trasognata in the cat that walked from shelbyville, e in when the telephone melts.
L'interprete è a volte sornione e faceto, a volte smania e strepita consumato dai propri eccessi, ma è una veste diversa dallo stregone eretico di Telegraph Melts: qui la sofferenza non è metafisica, ma immanente.
Il rito si è compiuto e adesso J. si mostra in vesti di homeless, un vagabondo scanzonato che dice quello che trova per strada. Sembra di vederlo affogare per terra, all'angolo di una strada, rovesciato tra bottiglie vuote, delirare biascicando mozziconi di frase.
Tutto il lavoro si presenta come un'unica lunga, compiuta, acida session di quaranta minuti; puramente fittizi gli stacchi fra i brani.


On The Way

Prosegue l'esplorazione-espiazione nei meandri di un blues originario e primordiale, placenta per perdersi e lacerarsi, disfare inquietudini e mestizie esistenziali.
Si spartiscono la scena la solita serie di abbozzi dissonanti e primitivi, e alcuni brani emotivamente lancinanti, più acutamente personali e sofferti.

Ci sono brani che possono considerarsi vertici dell'arte di Jandek. Per esempio il rhythm 'n'blues radicale nella sconvolta Give it the name, che vive di stridori vocali e strumentali e in una Message to the clerk tirata a lucido, o ancora Sadie. O il fioco intervento che gronda gelida sofferenza di I'll sit alone and think a lot about you, o The only way you can go che, tra ectoplasmi di chitarra acustica e aria melanconica, sembra rievocare il neutro atmosferico di Blue Corpse. Chiude una mesta, depressa ballata melodica: I'm ready, ove l'insistito, melenso tema della chitarra sostiene la voce lamentosa del cantante.

L' altro chitarrista, ormai presenza fissa e determinante, prende parte a diversi brani, anche con la voce.
Sul lato B La presenza di J. si assottiglia sempre più, riservandosi uno spazio di estremo disagio, si fa flebile, pudico e discreto. Quasi un annullamento nella fosca, velata penombra dell'ennesima, memorabile copertina di turno.
"Every Jandek record is a letter as personal as it is anonymous. Listening to a new one I get the feeling I should not be listening at all... To study, analyze, and ponder over these private soundtracks is quite immoral." - Glen Thrasher, LowLife #15, pg. 18.

 

The Living End

Tra il 1988 e il 1990 Jandek stampa ben quattro album: You Walk Alone, On The Way, The Living End, Somebody In The Snow. Oltre a confermare l'incontenibile prolificità dell'artista, questi lavori risultano i più musicalmente assimilabili ed iscrivibili -pur con una certa ritrosia- in un linguaggio archetipo blues-folk.

I dischi in questione mostrano qualche accenno di normalizzazione artistica: se non altro, la definizione della musica di Jandek può ora mettere d'accordo più d'un critico.
Una rinuncia forse definitiva a predicazioni solipsiste, alle esasperazioni maniaco depressive e del passato? Come si vedrà non sarà così.
Dopo due anni e diversi album, in questo The Living End si rinnova il connubio con la cantante musa, la proiezione femminile di Jandek.
S'é speculato sulla sua identita, se sia o meno la solita "Nancy". Il timbro canoro risulta molto simile ma non identico, l'interpretazione è meno straripante e più contenuta del solito, ma può sottendere una precisa intenzione di cambio stilistico.
Niagra blues e Janitor's dead sviluppano uno stesso sinuoso, avvincente tema blues, che progredendo si assottiglia e si disinteressa, mentre la performance dell'autore segue il percorso contrario. In questo trasmutare di forme riesce a mantenersi una tensione vigile e ferma. Slinky parade prosegue la crepitante eufonia-cacofonia blues aggiungendo un allettante abrasivo effetto vocale. Poi i moniti di license to kill, e talk that talk con le sue free form guitar. Start the band ricorda jaws of murmur.
Sul secondo lato le sessioni di The Living End ristagnano o si dileguano, disperdendosi nell'ambiente. Crazy, embrace the world outside, take me away with you paiono affogare e fondersi tra loro, in questa atmosfera torrida.

Somebody In The Snow

Questo disco inaugura gli anni '90 dell'artista proseguendo l'ipotesi folk-blues, reiterando in prevalenza temi e strutture musicali dei lavori di fine anni ottanta.
Trattasi degli ultimi fuochi, ma è sintesi sempre più consapevole, gravida, ed insieme più lontana, estranea, stranita.

La voce femminile è presenza costante, richiamo emozionale in gran parte del lavoro. Il contributo di questa incantatrice perversa è fondamentale per allestire un'atmosfera suggestiva nella propria turbative sembianze.
I soliti strumenti sguaiati e frammentari compongono (si fa per dire) il quadro.
Tell me who you are apre in modo sognante e attonito, per proseguire con aria stranita e misteriosa. Una delle meraviglie del metodo Jandek. Blandizie da sirena viaggiano in Come through with a smile. Pastimes è riedizione strumentale di I'll sit alone and think a lot about you.
Scioccante quanto inatteso, l'interludio di coro misto in Om, fosca tundra boreale, agghiacciante mantra, acuto intrecciarsi di lamenti e sospiri corali.
Bring it in a manger trascina con sottile persistente sadismo un'armonica lontana, lamenti vocali e versi atmosferici a rintocco. Interessanti Stick with me, l'armonica stradaiola in You sing a song.

One Foot In The North

One Foot In The North suona come il Lost Tapes jandekkiano, una "possibile" antologia parallela di brani estratti da vari periodi artistici.
A volte lo stile strumentale ambientale rimanda direttamente agli esordi artistici, in particolare al cupo e morboso Six and Six (1981). In molte composizioni é analogo il senso occluso inconcluso come anche l'effetto di eco straniante ad affrescare tenebrose, segregate atmosfere.
Si prenda a esempio tutta la prima parte dell'album: s
traordinaria e raggelante l'apertura di Yellow pages, (altro non é che un'ennesima riedizione di European Jewel), con chitarra elettrica e voce.

You've got to help me dear
Because there's no release
For this tangled beast

Yellow Pages indica la direzione principale dell'album, percorsa poi da angel, think about your lady, real fine movement, show the man your picture (e breast in a moonbeam che ne riprende il motivo).
Questi brani allestiscono con liriche, suoni ed effetti, scene e climi di tensione del tutto particolari. L'unica sostanziale differenza a dieci anni prima (cui anche la copertina rimanda), sta nella scelta strumentale, elettrica anziché acustica.
Altrove si manifestano promiscuità con le recenti, sinistre, raggelanti apparizioni atmosferiche di Somebody In The Snow, senza streghe di sorta, l'unico con cui fare i conti é il performer.
Permane una gelida desolata trepidazione che serpeggia e attende fra le pareti del disco. In alcuni momenti il solipsismo cede il passo al fuoco blues condiviso, già raccontato da lavori recenti più focalizzati come You Walk Alone. In particolare, Alehouse blues e upon the grandeur sembrano strappate a forza da quell'album, sono ammalianti divagazioni dal clima d'angoscia iniziale.
One Foot In The North suona come opera complementare, obliqua; Una summa artistica ideale di quanto da "Mr.Corwood" svolto sinora.
Ombra e fantasma, reale o immaginario, di questo inquilino che distorce o dissolve, ostinato ma anche divertito, la propria immagine e la propria arte, qui vampirica silhouette di se stessa.

Lost Cause

Atipico, nonostante palesi la solita provenienza, Lost Cause vive come nessun altro di contrasti, reazioni volte a puro effetto.
La prima facciata dell'Lp è la più essenziale dai tempi di Nine-Thirty. Solo voce e chitarra, uno stato di apatia e catalessi, in parte, forse, con un altro strumentista.

Toni smorzati, ambiente torpido e fioco. L'intento è impigrire, svigorire demotivare l'ascoltatore per impadronirsene in punta di piedi, stravolgendo progressivamente le cadenze nel secondo lato, fino a volgere clamorosamente in puro e fragoroso rumore. Questo gioco di opposti e antitesi può fare di Lost Cause un lavoro tra i più sconvolgenti di Jandek.
Apre l'album la pigra ma inquietante green and yellow, che reitera un simile, insinuante, querulo tema in tutta la durata. Una pura linea sensitiva, spenta, minuta.
Babe i love you bissa l'incipit, è un rinsecchito fascinoso folk pop; un motivo bisbigliato e ridotto a ostia.
Di simile flebile torpore si nutrono le seguenti cellar, how many places, crack a smile, trittico clamorosamente Blue Corpsiano.
God came between us ha un sussulto disturbante nel finale, gli animi si scaldano dopo una salmodiante invocazione recitata. I love you now it's true insiste con la supplica nella stessa direzione. Il tono del performer si fa invasato, opportuno atrio per the electric end.

The electric end potrebbe intendersi profeticamente come fine dell'elettrico: per un lunghissimo periodo (undici anni) l'autore non attaccherà più la spina. Occupa per intero la seconda facciata, è una sgangherata, estenuante sessione cripto-noise, quasi venti minuti di durata ai limiti dell'ascoltabile. Una livida, bruciante vendetta in contrasto alle invocazioni al Signore che precedevano. Un'irrisione e un sarcasmo bissati estemporaneamente da opportune grida invasate, strumenti a corda torturati; un delirio che concederemmo unicamente a Yamatsuka Eye di Boredoms e pochi altri degeneri zozzoni.

Twelfth Apostle


Su Twelfth Apostle Jandek volta pagina. Giustamente definito il primo album del tardo periodo artistico: nulla è rimasto del recente passato (voce femminile, sovratoni, senso melodico, batteria, strumenti elettrici). La performance torna fatto privato come agli esordi, secca e modesta, quieta e distaccata.
L'autore suona e canta solo, a volte quasi esanime; unica compagna la chitarra acustica pizzicata atonale, a volte batte il tempo col piede. Prossimamente ma di rado compariranno armonica e fisarmonica.
Su taluni brani uno straniante e acuto effetto riverbero-drone va a inserirsi sulle corde dello strumento, che propaga tra le pareti spettralmente, le onde sonore.
Gli occasionali rumori del passaggio di auto ("Don’t need no automobile / When you are what you are / Then there ain't no dream they could steal") su alcuni brani si devono probabilmente a una registrazione effettuata dirimpetto a una strada. Essi contestualizzano i contenuti una volta tanto, uno sbocco esteriore in via eccezionale. Questi insoliti e casuali disturbi donano qualcosa in più alla raccolta.

Twelfth Apostle è insieme di abbozzi folk spartiti tra voce spenta e pigramente strascicata, e strumenti attigui. L'ennesimo suggestivo lavoro di questo autore, diversissimo dagli ultimi due capolavori precedenti, somigliante ai venturi Graven Image e Glad To Get Away (ma non quanto s'è detto).
Twelfth Apostle è catatonico come gli esordi ma non così circolare. Intriga la cadenza narrativa ammaliatrice senza i saliscendi emotivi, i percorsi irti e insidiosi che caratterizzeranno il futuro artistico. C'è uno stile acustico ancora "pregno" laddove più in là apparirà più pigro, minimo e prosciugato.

Difficile ricordare qualcosa dopo l'ascolto, ma durante, nel mezzo, si é soggiogati. Da walking a four by four é tutto un flusso accorpato, pressato, omogeneo e organico. Il tempo é qui concepito come flusso omogeneo sempre identico a se stesso. Fa dunque astrazione dalle esperienze umane al proprio interno.
Si vive l'illusione di un rallentarsi del tempo, del tempo d'ascolto, su cui l'autore interviene in-definendolo, stendendone il flusso in termini infiniti, inspiegabilmente.

Graven Image
Glad to Get Away

I picked up a copy of Graven Image because of the
photograph on the front of the CD. Took me a while to grasp what I was listening to. Confounded me, bewildered me. Scared me even, just a little
(Chuck P.)

Due album sono preparati nel 1994. Pressoché medesima la veste grafica che esibiscono, essendo medesimo il luogo degli scatti.
La foto del primo, Graven Image, è più sfocata, nascosta, quasi spiata; sul secondo Glad to Get Away la vista è invece più centrale e panoramica.
Anche nella musica ciascuno sembra seguire queste direttive: Graven Image è il più vago e tobido, se pure più melodico. Tuttavia le differenze tra i due, sul piano formale, non sono parecchie.
Rispetto a Twelfth Apostle, qui si recupera prospettiva, vivacità strumentale e una certa forma canzone. Graven Image è reso di un impressionismo salutare e un mood ambivalente, nebuloso ma anche romantico, impalpabile e mesto con qualche rinvio a Nine-Thirty e Blue Corpse.
Alcune inattese soluzioni strumentali donano frescura e piacevolezza a questo insieme: fisarmonica e armonica su a real number, Phillip was mentioned, janky; una slide guitar sull'ampia going away my darling.
Si confermano le topiche dell'autore, come mostra l'eccellente remain the same:

I drive, I don't know where I'm driving / I am, I don't know what it is to be
You could just find me floating sometimes
down rivers of tears.
I'm sorry the years leave me different
If only you/ remain the same

A volte si palesa la prossimità con Twelfth Apostle (chilocothe, for you and I, closing).

"The telephone pole in the foreground is a visual stand-in for Jandek himself: silent, anonymous, unmoving, gray-brown": Questa rimarchevole riflessione di Seth Tisue a proposito della cover di Graven Image, può a ragione tipizzare tutto il late period del texano.

Sul piano strumentale, l'eccellente Glad to Get Away, edito nel '95, è più essenziale e scarno, un recupero folk-blues al midollo.
Indubbiamente uno dei vertici dell'artista texano. La voce si eleva in primo piano, più libera, diretta, allerta. L'umore del singer è difficile da definire, ma appare fragile e riservato. La chitarra non è strimpellata, il suono è asciutto, arido, la performance è essenziale e pulita.

Se questo tipo di rigore tende a escludere altri strumenti al di fuori di voce e chitarra acustica (fa eccezione una punta d'armonica su plenty e what), si apporta un effetto di eco "delay" perturbante più esteso del solito su due brani del secondo lato (van ness mission, anticipation).
Glad to Get Away è
una raccolta che resterà un 'unicum' nella discografia di J., per quanto il precedente e il successivo mostrino in particolare alcune affinità, rimestando ancora quell'atmosfera, non c'è un altro album così calibrato, loquace ma sfuggente, come questo.

White Box Requiem

"That guy in the sun on the cover again, this time with mutton chop facial hair".

White Box Requiem è l'approdo ultimo di una ricerca formale tesa al massimo del minimo, il culmine dello svincolo da ogni orpello linguistico e sovratono residuo per raggiungere una libertà espressiva vaga e indefinita.
Assieme a Glad to Get Away, White Box Requiem é forse il più riuscito della produzione acustica anni novanta di Jandek.

Su tutto l'album regnano una levità e una calma sovrannaturali.
Acustico e in prevalenza strumentale, scavato e ridotto all'osso, White Box... é un lavoro dai suoni dalla luce limpida, chiara, un chiarore tiepido e opaco, appena definito e rimarcato da un leggero eco (su una chitarra acustica che riscalda) a suggerire ed espandere riverberi e ristagni, umidità e nebbia, sembianze prettamente autunnali.
Clima e ambiente agreste dal senso angelico, su cui sovrasta un evening sun, per riprendere il titolo di un brano tra i più emblematici.
Walking in the meadow è il cuore dell'album: otto minuti di improvvisazione pura, esanime. Gocce di accordi atmosferici, frammenti casuali. Presente persino qualche breve arpeggio; quello che si cerca dalla musica è ora un sostegno spirituale, un balsamo analgesico.
La voce si accompagna mirabilmente alla flessione strumentale: è più morbida, placida, addolcita dal tepore esterno. Un limbo mentale perplesso, esitante, ma l'interprete non è angosciato dalla perdita di cognizione, suona e canta mentre fluttua dentro un neutro atmosferico.
I toni caustici, acri e ieratici di Modern Dances e The Living End sono distanti ere geologiche.


I Woke Up

I Woke Up è un'opera atipica e interlocutoria che evidenzia col proprio passaggio un periodo di dubbio. Sembra sorreggersi su una fragile e minimale precarietà, fra voce, chitarra acustica, armonica e fisarmonica. Con effetti "echo-drench" applicati all'acustica.
Il nostro si affida a interventi calibrati, per incidere, creare un effetto dilazionato.
Gli utilizzi vocali, come le liriche, sono ridotti al minimo, immobili. Più che intonare, parla.
Alcuni hanno rilevato la performance essere affidata un altro interprete. In effetti si notano alcune differenze nell'esposizione neutrale "non problematica" e come, differentemente, si trascinano in coda le frasi (first awake moment, alone on that mountain, just die).
I Woke Up è un disco prevalentemente strumentale, ove l'autore percorre sentieri agresti, spogli, pastorali. Con cui far trasparire stati d'animo.
Dicevamo della particolarità dell'album: una sorta di quieto, desolato concept meditabondo, come una trance, che è lecito accostare a Interstellar Discussion del 1984. Sarà la preponderanza dell'armonica, degli effetti riverbero, dei temi estranianti, ma la sensazione ricevuta è proprio questa. Anziché evocare stelle e galassie, questo album si pone al di là di ogni metafora, si ripiega torcendosi su se stesso.
Sono queste caratteristiche a conferire a I Woke Up un pigro, peculiare e arido fascino. La poetica del distacco, della rimozione, dell'abbandono e della svalutazione della realtà che fa eloquente capolino sin dalla copertina.

New Town

Il ritrovamento, il risveglio dall'interlocutorio può aversi in una New Town.
New Town, "nuova città" autentica o solo pensata, non è affatto luogo d'assoluzioni o amnistie, ma ennesimo penitenziario per l'anima.
Inopinatamente, l'autore si denuda e dopo recenti "eclissi" in copertine (White Box Requiem) e strumenti, torna a mostrare sanguinanti ferite.
Dunque New Town come luogo dolente, fatto privato, vero, intriso di dolore. Luogo permeato da una cupa rassegnazione senza auspicabile salvezza.
Si torna a brani per sola voce e chitarra più la solita, saltuaria armonica che coi suoi percorsi di onde tenta di mitigare e addolcire un poco. Spesso prevale il suono dello strumento e l'improvvisazione.
J. mostra più che mai vulnerabilità e fragilità esistenziale (new town, steal away home, the real you), la procedura mostra un andamento costante, calmo e quieto.
Torna alla mente la disperazione del secondo lato del vecchio On the Way, distanziata da invitanti ricreazioni come il ritmo di time will come.


The Beginning

La ferita sembra essersi parzialmente cauterizzata, si "comincia" (di nuovo).
The Beginning è per molti aspetti conseguenza di New Town, ma non consanguineo vero e proprio. C'è un nuovo impulso, frutto generato (o recuperato, rinvenuto) da una percezione diversa, che stimola l'autore ad andare in là, oltre le proprie ferite sanguinanti.

Su questo album J. utilizza per la prima volta un effetto di eco digitale che copre fruscii ambientali ("hiss reductions") ovattando e smussando voce e suoni.
Questo prototipo, per alcuni simile a un "underwater, burbling sound" verrà utilizzato dal nostro nella ristampa del suo catalogo (inaugurata nel 1999), per correggere o sostituire interferenze ambientali finendo a volte per abusarne (cfr. primi brani su The Rocks Crumble).
Trattasi di ennesimo espediente effettistico come lo era il box aggiunto su altri dischi acustici pubblicati negli anni novanta.
L'ascolto di it's february, moving slow, a dozen drops nonché di lonesome bridge manifesta in pieno questa sensazione di perdita di attrazione, di neutra atmosfera.
A dozen drops è uno spento girovagare di voce e chitarra, le cui liriche "frankenstein" sabotano citando variamente il passato (oppure il presente? Stante l'impossibilità di decrittare l'epoca di realizzazione): da nancy sings a god came between us.

La title track in coda all'album è l'ennesimo piccolo shock riservatoci da Jandek: una misteriosa, fantasmatica suite strumentale d'un quarto d'ora circa, per solo pianoforte (più qualche battito di tempo). Completamente avvolta nella foschia, out-of-tune ma con un principio armonico alla base su cui tornare, anziché altre electric end free sregolate.

Put My Dream On This Planet
This Narrow Road
Worthless Recluse

Worthless recluse
Bang, pow, steel, muscle
What worse, I'm alone
Grown the bane of not being interested in the plate they passed to you
All the pleasure spots in the city
And if I walk in, my person screams
I'm obviously out of place

(Worthless recluse)

You wake up deadmen
With your loose sex
You shout at them, C'mon
And as they fumble in half-delirium
You smash them back down dead
With a thud
Or drain them dry and throw them aside like an empty bottle
Always keeping them as a collector
In a nearby trash barrel
Unless they completely break
And are fortunate enough to be swept away

(You wake up deadmen)
Tra 2000 e 2001 J. pubblica tre album per sola voce ('spoken word'), in cui adotta un crooning tipico da incisione primordiale, per assimilarsi forse a un pioniere bluesman degli albori del secolo, voce senza strumenti.

Le blue notes non provengono più da una chitarra scordata o da un'armonica, sono da rintracciarsi soprattutto nelle liriche.
L' autore dissimula infatti la propria voce dietro una qualche apparecchiatura di incisione che la sporca e la altera sino a spersonalizzarla, a renderla irriconoscibile.

Tre opere assolutamente misteriose e inquietanti, pur con un loro remoto fascino. In tutta la durata degli album, brevi versi vengono recitati (o cantilenati) in uno stato difficile da identificare.

L'operazione e le sue ragioni restano oscure e incomprensibili persino per uno come Jandek, ma a ben vedere si tratta d' un'ennesima declinazione metodologica, sia pure tesa al radicalismo più esasperato.
Del folk e del blues si cercano le matrici, le ragioni prime, l'essenza.
Tre album di culto ma essenzialmente per fan. Il preferibile dei tre è indubbiamente Worthless Recluse.

Così BlackBook78@aol.com, a proposito di Put My Dream On This Planet : "After listening to the 1st track , I never realized he had such an apparent accent, and yes, Sterlings voice is a complete match on the songs, which is more distinct without instruments.
Can anyone explain why the recording drops out and becomes silent after he finishes speaking? Maybe he stops the tape recorder and rests for awhile, who knows......"

Dal sito Forced Exposure (www.forcedexposure.com):
"(...) certainly a head-scratcher. No guitar, no drums, no piano, just him rambling on for a small eternity in a sort of song/speech mode on two lengthy and one very short tracks; all of it sounding kind of like it was recorded though a 15 watt Peavey Bandit amp with a broken reverb spring and a noise-gate pedal. Eerie (some might say annoying or god awful), almost bluesy hiss bathed vocals are separated by some rather
lengthy periods of complete silence, covering some of the places and 'feelings' that populate his other records so vividly."



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