Eggs

 




“The summer of 1990 was easily the worst couple of months in my life. I was living in Richmond Virginia in an apartment I could barely afford, (...) The economy in Richmond was at an ebb and after a month of trudging around filling out job applications I was beginning to feel pretty near unemployable. My relationship with the woman I had dated all through college had ended badly and without an adequate sense of closure(...) I traded my wah-wah pedal for Mark Nelson's terrible Squire Stratocaster and began writing songs”. (Andrew Beaujon, 1994)


Andrew Beaujon non è annoverato tra i più noti esponenti del genere pop-wave low-fi degli anni novanta. Né i suoi Eggs sono divenuti celebrità come Pavement e Lou Barlow.
Eppure Beaujon è un autore che più d'altri c'è restato in cuore, per come ha saputo raffigurare la propria generazione, cogliendone particolari malesseri, illusioni, flebili speranze.
I due album in tre anni a nome Eggs offrono un singolare prontuario pop rock slow-fi, slow in senso di concavo, comunicativo; laddove il genere “bassa fedeltà” appare spesso futile, ilare e ingenuo, smemorato e smemorabile.

All'alba dei 'novanta il trio Eggs è composto da Beaujon, disoccupato di Richmond Virginia, voce, chitarra e arrangiamenti, assieme all'ex Unrest Dave Park al basso e John Rickman eccellente batterista, più Mark Robinson, allora leader degli Unrest e collega TeenBeat, alla produzione. Riconoscibilissime le sue particolari cromature timbriche infuse negli strumenti.

L'esordio avviene nel 1992 con “Bruiser” (TeenBeat 76), che segue al singolo “skyscraper”. E' il il loro album più armonico, frettolosamente annesso ai tanti cloni di Sonic Youth dell'epoca.
“Bruiser” mostra spontaneamente, con esuberanza e delicatezza, elementi di poetica wave avvolta in membrana melodica.
Motivi melensi e dolenti, liriche di ordinaria disperazione e chitarre sgargianti o lanciate e distorte. La voce strascicata di Andrew è più cronaca che canto, fa pensare a Lou Reed e Jonathan Richman.

Come i coetanei Unrest di “Imperial F.F.R.R.” (1992), gli Eggs fabbricavano canzoni convenzionali solo in apparenza. Ci si accorgeva di qualcos'altro che, dapprima sembianza, si insinuava ficcante tra i neuroni, attraverso gli ascolti.
L'apertura si affida al magma psycho-wave di “spaceman”, che plana nella morbida accattivante morfinica soavità di “John's bar mitzvah”, proseguendo stessi intrecci chitarristici su “opener” e “cushion”.
Su “theme from Bob” (omaggio di Andrew al proprio gatto) e sulla coda ad alto voltaggio “hippie purple” prevalgono frenesie strumentali (tour de force di batteria e chitarra), allucinazioni lisergiche e vertigini d'improvvisazione.

La sconsolata, struggente “ebenezer” apre il secondo lato (per chi ha l'Lp), è in pratica una riedizione del sofferto memorabile tema di “M.A.S.H.”, suicide is painless.
“I want nothing but to sing this song and to play my guitar all day long”.
Celestiali gorgheggi, oasi e germogli di guitar strumming nel ritornello (e su “it's hard to be an egg” e "ocelot") appartenenti alla fantasia Unrest scagliano in alto da terra incandescenti lapilli luminosi.

Su “Exploder” (TeenBeat 96), che segue nel '94, Beaujon vira deciso su binari sperimentali.
In due anni il trio s'è rivoluzionato. Spostandosi ad Arlington, Andrew ha convocato gli studenti Evan Shurak al basso e Rob Christiansen a chitarra e voce (Rob animerà poi Grenadine, Viva Satellite e Sisterhood of Convoluted Thinkers, e produrrà per artisti come Labradford).
Alla batteria s'alterneranno altri amici della band.
Lavoro circense, surreale e spropositato, “Exploder” può considerarsi il capolavoro del gruppo. E'uno dei doppi “monumentali” del periodo “storico” del low-fi (accostabile ai Sebadoh di “III”, ai Further di “Sometimes Chimes” e a tanti altri, fino al recente “The Glow pt.2” di Microphones).

Genialoide e trascendente collage decostruzionista, imperfetto come propone il genere. E' la seconda radiografia sentimentale degli Eggs, deforme fucina di creatività sparse: nevrosi, follie post-hippie e quotidiane schizofrenie assortite.
Nello strepitoso manifesto incipit “why am I so tired all the time?” l'autore si domanda senza rispondere, si irride sornione con giochi vocali soul-istrionici e efficaci usi strumentali (il trombone appare spesso nell'album); pascendosi compiaciuto su una stasi ovvia e annunciata, senza invertire la tendenza.

“Exploder” comprende nuove ballate commiato, dimesse e tristi (tra cui “the oblivist 3”, “rollercoaster”, la litania “a pit with spikes” rinvigorita da falsetti e batteria) alternate a scherzi elettro-sperimentali stile Fortrain 5 (la serie di “music without keys”, “march of the triumphant elephants”); variazioni di main theme, quattro discutibili “side division” e quant'altro.
Un senso geniale e inclassificabile pervade molti brani, il gioco si fa grottesco, sarcastico. A briglia sciolte, ci si lascia andare oltre ogni raziocinio (“ampal lang”, “evanston II”, “minestrone”, “maureen's beans”).
Spesso prevale una gloriosa vena acid-pop comune a primi Flaming Lips e Pavement (“er in go bragh”, “claire snares”, “conchita”, l'incredibile baccanale di tastiere e chitarre di “Saturday's cool” gli sbuffi di treno su “rebuilding europe”).

Nel '95 Beaujon si sposta a New York sciogliendo definitivamente la band. Più avanti inaugurerà una carriera solista.
Nel '96 Eggs si congeda dal mercato con una raccolta di singoli, rari e alternativi dal nome “How do you like your lobster?” (TeenBeat 156).

L'opera di Beaujon con gli Eggs si fa biografia istintiva, introversa e impietosa di una generazione di cantautori venuta su con pochi mezzi e buone idee, tra anni '80 e primi '90.
Svela e approfondisce difficoltà, paure inconfessabili, imprevedibili o inconscie di ragazzoni svigoriti in fisico e intelletto, inerti dinnanzi al trascorrere del tempo, impreparati ad avversità. Più che agire negli eventi si lasciano agire da essi.
La rabbia e l'aggressività sono somatizzate, non c'è quell'ironia debordante che, altrove, sbraitata (Ween, Pavement, Fuck) esorcizza la paura del vuoto. Qui il conforto è il rifugio nell'infanzia asessuata, l'ideale melodico, il bisogno di ritornare, anima e corpo.
Aleggiano sensi di beffa, voglia di congedo. E infatti l'uomo Beaujon può dirsi un viandante, un girovago.

Questi due dischi racchiudono sensibilmente aspetti, umori, cammini, come un diario di bordo. Beaujon è un consapevole, non può far finta di ignorare la realtà. Trasmette efficacemente all'ascoltatore componenti confessionali in forma di ansia sottile, surrealtà e torpido intimismo.

(marzo 2004)