La conversione di Sant'Agostino.

 

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Per ricostruire nelle sue varie fasi la conversione di S.Agostino non si può non tener presente quel documento biografico preziosissimo che sono le Confessioni, in cui l’autore narra apertamente la propria vita e la propria condotta.

Il titolo dell’opera Confessiones significa da un lato il riconoscimento dei propri errori e dall’altro una manifestazione di lode e di ringraziamento a Dio misericordioso che ha liberato il peccatore[1].

Le Confessioni, in tredici libri, furono scritte ad Ippona fra il 397 e il 401, quando Agostino, tra i quarantatre e i quarantasette anni, ormai vescovo, volle raccontare il lungo e meraviglioso processo attraverso cui Dio lo aveva condotto alla verità, convertendolo a Sé. Negli ultimi tre libri dell’opera, libri essenzialmente filosofici e teologici, l’autore, in realtà, commenta le prime pagine della Genesi, soffermandosi sui significati allegorici che se ne possono ricavare per giungere alle principali verità cristiane.

Per comprendere lo sviluppo spirituale di Agostino bisogna ricordare che egli crebbe in condizioni familiari piuttosto ristrette non solo economicamente ma anche intellettualmente:suo padre, pagano, era un uomo di piccola statura morale, sua madre, cristiana, riuscì a esercitare su di lui,sì e no, un influsso veramente spirituale. Amici e maestri di una certa importanza non ne ebbe. Eppure avrebbe avuto bisogno di avere per amico e maestro qualcuno che gli fosse stato superiore o, per lo meno, in qualche modo, pari. Ma nel suo ambiente un uomo simile non si trovava[2]. Le stesse sue nozioni cristiane non solo erano insufficienti, ma addirittura false e talvolta insensate. Anche l’istruzione filosofica che gli venne impartita non dovette essere molto vasta, tanto che, quando si rivolse alla lettura dell’Ortensio di Cicerone, contava già diciannove anni. Più tardi studiò gli scritti di logica di Aristotele; parecchio tempo dopo, a  Milano, imparò a conoscere Plotino.

L’effetto di questi incontri fu certo ogni volta potente, come succede di solito quando uno spirito, che cerca e medita continuamente, viene all’improvviso a contatto con pensieri capaci di liberarlo dai problemi che lo assillano.

Ci si può domandare in che cosa sia consistita la “conversione” di Agostino, che non significò un passaggio dalla miscredenza alla fede, dal paganesimo al cristianesimo cattolico. In realtà Agostino non fu mai pagano. Nel suo intimo egli fu sempre cristiano, almeno quanto è possibile esserlo senza prendere una decisione. La sua conversione fu questa decisione: volgersi cioè  non solo a Dio e a Cristo, ma a quello che egli stesso era già nel profondo dell’animo[3]. Il carattere particolare, le crisi speciali dello sviluppo agostiniano, la speciale natura dei suoi ostacoli e delle vittorie divengono chiari solo tenendo presente quanto si è detto.

In ultima analisi il processo della conversione non si presenta come un passaggio dalla miscredenza alla fede, o da un concetto falso a quello giusto, o dall’ignoranza alla conoscenza, ma come un rifuggire in un primo momento dal trarre le conseguenze di ciò che già si è nel profondo, finché giunge l’ora dell’ultima decisione, per la quale l’interiore e l’esteriore, la coscienza e il comportamento di vita concordano[4].


 

[1] Cfr. M. PELLEGRINO, Per un commento alle”Confessioni” in”Revue des Etudes Augustiniens”, Paris 19598.

[2] Cfr. A. PINCHERLE, Vita di Sant’Agostino, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1980, p. 20.

[3] Cfr. M. F.   SCIACCA, Sant’Agostino. La vita e l’opera. L’itinerario della mente, La Scuola, Brescia 1949.

[4] Cfr. R. GUARDINI, La conversione di sant’Agostino, Morcelliana, Brescia 20022, p. 165.

 

 

All’età di diciannove anni Agostino, lesse un testo, previsto dai programmi di retorica del tempo, e cioè un dialogo filosofico di Cicerone,  andato perduto,  Hortensius , che gli destò nell’animo l’ardente desiderio della sapienza, considerata come mezzo per raggiungere una vita felice: quella lettura determinò la sua conversione alla filosofia. “Quel libro veramente cambiò i miei sentimenti, mutò perfino le mie preghiere verso di te, o Signore, rese diversi i miei propositi e i miei desideri. Improvvisamente ogni speranza umana diventò vile e, con l’ardore incredibile di un’anima, bramavo l’immortalità della sapienza”[1]. Cicerone ebbe il gran merito di aprire la mente di Agostino alla considerazione di alcune verità morali e di spingerlo alla ricerca della vera sapienza[2]. Agostino trasse da quel libro non l’amore per questa o quella setta filosofica, ma l’amore per la sapienza stessa. Non vi trovò tuttavia il nome di Cristo: quel Nome era dentro il suo cuore, ma di Cristo aveva una conoscenza ancora falsa e inadeguata, per cui gli riusciva impossibile identificare in Lui la sapienza di cui parlava Cicerone.


 

[1] Conf., III, 4, 7.

[2] Cfr. S. B. FEMIANO, Riflessioni critiche sulla conversione di S.Agostino,Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli - Roma 1951, p. 21.

 

 

 

 

I diritti della ragione e il bisogno della fede per ora restavano in lui in opposizione. Cercò di superare il contrasto, dandosi alla lettura delle Sacre Scritture. “Questo primo incontro di un professore di retorica con la Bibbia fu un disastro. Nulla di scritto peggio,né che meno rispondesse all’ideale evocato da Cicerone: niente nemmeno di più ridicolo, per un lettore come Agostino, che, interpretandola in senso materiale, si rappresenta Dio come un uomo simile a noi, che passeggia nel giardino dell’Eden e conversa con Adamo, come usano fare gli uomini tra loro”[1].Fu nel momento più acuto di questa delusione che si imbatté nei manichei. Per quanto sorprendente ci possa sembrare, la seduzione esercitata su di lui da questa setta conferma la testimonianza di Agostino e prova come egli cercasse davvero la sapienza di Cristo. I discepoli di Mani infatti avevano di continuo il nome di Cristo sulle labbra e invocavano la testimonianza delle Scritture[2]: il che soddisfaceva in pieno le aspirazioni cristiane di Agostino; essi inoltre promettevano una interpretazione delle Scritture che fosse soddisfacente per la ragione e facesse appello alla fede soltanto nella misura in cui la ragione sarebbe stata capace di giustificarla, e ciò era gradito al giovane lettore dell’Hortensius . Il problema per lui, era trovare una sapienza filosofica nelle Scritture,ed è proprio questo che gli promettevano i manichei[3].

Il Mito da loro professato  si fondava sulla dottrina dei due principi, il Bene e il Male (la Luce e le Tenebre), contrapposti fin dalle origini, ma inizialmente separati, mentre nel nostro mondo decaduto essi sono mescolati, finché alla fine dei tempi si separeranno definitivamente. Emanazione del Dio del Bene, della Luce, è Gesù, che è venuto in questo mondo sotto un aspetto umano- non avendo egli un corpo reale cosicché le sue sofferenze furono solo apparenti -e ha promesso l’invio del Paraclito (lo Spirito Santo), che coincide con lo stesso Mani, il fondatore della setta


 

[1] E. GILSON, Introduzione allo studio di S. Agostino, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 264.

[2] Cfr. Conf. , III, 10, 6.

[3] Cfr. De utilitate credendi, I,2; PL, 42,66.

 

 

Il passaggio dalla sua terra africana a Roma significò per lui, dal punto di vista della sua evoluzione intellettuale, passaggio dalla rigida posizione razionalistica a una maggiore libertà di pensiero, aiutato dallo studio dei filosofi della nuova  Accademia[1]. In questo suo nuovo atteggiamento si rivelò decisiva l’influenza delle sue meditazioni su quei filosofi: cominciò a dubitare per veder chiaro, per credere e comprendere, nella impossibilità di aderire all’uno o all’altro sistema dottrinale. Lo sosteneva, però, la fiducia, l’attesa o meglio la speranza che esistesse una verità certa, che gli avrebbe indicato dove dirigere il cammino nella sua vita [2].

Il suo era uno scetticismo moderato, che consisteva nella sospensione dell’assenso.


 

[1] Cfr. Conf.V, 10.

[2] Cfr. Ivi, V, 14, 25.

 

Parlando della conversione di Agostino gli studiosi pongono l’accento sull’influsso di Ambrogio. Hanno ragione, ma a patto che l’accento non sia né unico, né principale. L’influsso di Ambrogio fu certamente rilevante: ce lo dicono le Confessioni con schietta sincerità. In esse si ricordano il primo incontro con Ambrogio[1], gli elogi tessuti da Ambrogio della madre Monica[2], i vari tentativi di Agostino di aprirsi e confidarsi col vescovo, la lettera inviata da Agostino dalla solitudine di Cassiciaco ad Ambrogio per informarlo dei suoi errori e delle sue intenzioni[3].

Ma soprattutto fu la comunità cristiana che Ambrogio aveva saputo creare che esercitò un influsso decisivo nella conversione dell’inquieto professore di Tagaste. Non furono determinanti gli incontri personali o i colloqui privati, che in realtà furono pochi e brevi; Ambrogio esercita il suo pesante influsso come maestro che dispensa al suo popolo la parola di Dio[4].

Mai prima di allora Agostino s’era incontrato con una chiesa siffatta. A Milano c’era una chiesa viva, compatta, moralmente e socialmente operosa. Fu questa chiesa, con queste prerogative, a conquistare Agostino. D’altra parte lo soggiogava la personalità di Ambrogio. Il vescovo insisteva su due temi: l’interpretazione spirituale, cioè allegorica, dei Libri Sacri,  e la spiritualità di Dio e dell’anima. Quei due temi battevano in breccia la propaganda anticattolica dei manichei e ne mostravano la falsità[5].


 

[1] Cfr. Conf. V, 13, 23.

[2] Cfr. Ivi, VI, 2, 18.

[3] Cfr. Conf. IX, 5, 13.

[4] Cfr. P. A. TRAPE’, La chiesa milanese e la conversione di S. Agostino, in Ricerche storiche sulla chiesa ambrosiana, vol. IV, Archivio Ambrosiano, Milano 1973 – 1974, pp. 19 – 21.

[5] Cfr. Conf. VI, 3, 4 – VI, 14, 18.

 

Immerso nel dubbio scettico, ma desideroso di uscirne, Agostino riceveva all’improvviso uno sprazzo di luce dentro di sé: Manlio Teodoro (personaggio di primo piano nel circolo intellettuale milanese di cui si è detto, appassionato cultore di filosofia) gli aveva dato certi libri di una filosofia in voga per spiriti  “illuminati”: una filosofia che chiamavano neoplatonismo, poiché prendeva le mosse dall’idee di Platone. Agostino lesse una parte soltanto delle Enneadi di Plotino, nella traduzione del retore Mario Vittorino. Una scoperta entusiasmante! La dottrina plotiniana gli sembrò avere molti punti di contatto con la concezione cristiana di Dio: la sua natura assolutamente spirituale, la generazione del Verbo, l’anima umana illuminata da una luce divina. Niente, però, sulla incarnazione del Verbo e sul suo annientamento per la redenzione del mondo. “ Non trovai, però, scritto che il Verbo si fece carne e abitò tra noi…non contengono quei libri che Egli annichilì se stesso, prendendo forma di servo, facendosi simile agli uomini e, riconosciuto per condizione quale uomo,umiliò se stesso, rendendosi ubbidiente fino alla morte ed alla morte in croce”[1].


 

[1] Conf. VII, 9, 14.

 

Agostino, leggendo le Enneadi, vi trovò completamente capovolta la concezione filosofica dell’Essere: il   vero Essere non è l’esteso e il corporeo, ma l’Assoluto spirituale.

Ora e non prima Agostino era definitivamente fuori dal manicheismo. Tuttavia non era ancora cattolico. Gli restava da chiarire a se stesso come il Verbo di cui parla Giovanni (e non quello di Plotino) si fosse fatto carne.

La  lettura dell’apostolo Paolo completò per Agostino la conquista della verità iniziata con Plotino. S. Paolo gli rivelò la caducità e la miseria morale dell’uomo e lo aiutò a comprendere i supremi fini dell’esistenza. L’uomo è infelice perché in lui c’è una lotta tra lo spirito e la carne. Egli che pure ha la capacità di dilettarsi nella legge di Dio, soffre e patisce la legge della carne, che è peccato. S. Paolo appunto fece capire ad Agostino che il Verbo s’era fatto carne, proprio per liberare l’uomo dalla schiavitù della carne[1].

Egli si rese allora conto di essere giunto sulla soglia del mistero, ove la ragione vedeva esaurita tutta la sua potenza conoscitiva: l’orgoglio della mente doveva cedere all’umiltà della fede. Con l’umiltà soltanto poteva disporsi a ricevere nello spirito la luce liberatrice della Grazia. Gli appariva chiaro ormai che alla mancanza di essa era dovuta l’infelicità dell’uomo. La tragicità dell’esistenza, dunque, non poteva essere risolta con l’orgoglio della mente[2].

Paolo ha convertito Agostino definitivamente. Il mondo delle verità rivelate gli appare ora logico e non più contro ragione. Plotino ha vinto in lui il manicheo errante e dubbioso, Paolo di Tarso ha vinto in lui il filosofo della ragione pura: ora e non prima è compiutamente e rettamente credente e cattolico.

Agostino si sentiva ormai maturo per iscriversi tra i catecumeni e si rivolse perciò ad Ambrogio, il quale lo indirizzò al prete Simpliciano. Parlando con Simpliciano, egli gli riferì che la traduzione delle Enneadi che stava leggendo era stata fatta dal retore Mario Vittorino. Simpliciano allora gli raccontò con tutti i particolari la conversione di quel famoso retore. Il caso di Vittorino presentava non pochi punti di contatto con la conversione di Agostino: entrambi retori e filosofi neoplatonici, entrambi africani. L’esempio di Vittorino agli occhi di Agostino significava che non bastava convertirsi; occorreva anche necessariamente agire nella fede[3].

Agostino era ormai  nel pieno possesso della verità, ma la volontà recalcitrava ribelle e si rifiutava di assumere il peso del sacrificio e della rinunzia che la pratica della verità implicava[4]. Comprendeva di aver fatto tanto male a sé e di aver offeso il suo Signore, capiva che doveva scrollarsi di dosso le stratificate abitudini e tuttavia rinviava al domani la decisione[5].

Un altro fatto ancora intervenne a fargli troncare gli indugi. Un giorno a casa di Agostino venne Ponticiano, un suo concittadino, che ricopriva nel palazzo imperiale un’ importante carica militare. Egli notò nello studio di Agostino il libro delle epistole di San Paolo e se ne compiacque, essendo un fervente cristiano. Durante la conversazione, a cui era presente l’amico Alipio, il discorso di Ponticiano cadde sull’eremita egiziano Antonio, morto da non molti anni, iniziatore in oriente della vita monastica; anche a Milano, sotto la direzione di Ambrogio, esisteva un monastero che si ispirava a quella vita.

Ponticiano raccontò poi di due suoi colleghi che si erano messi al servizio di Dio dopo aver letto la vita di Antonio, trovata in una capanna di monaci quando avevano seguito a Treviri, come guardie del corpo, l’imperatore[6]. Il racconto di Ponticiano e la costante riflessione su se stesso spinsero Agostino a scendere dalla contemplazione della verità alla pratica di essa.

Di qui ebbe inizio quella furibonda lotta contro se stesso, che si concluse poco discosto da Alipio, nel giardino di casa, sotto un albero di fico, in uno scoppio irrefrenabile di pianto rigeneratore. Si scorse turpe, sporco e sentì vergogna di sé[7].

Mentre versava un fiume di lacrime, una voce proveniente da una casa vicina lo richiamò alla realtà: “Prendi e leggi” . Sembrava il canto di un fanciullo o fanciulla. Agostino si mise a riflettere se quello fosse un ritornello usato dai bambini nei loro giochi. Ricordò di non averlo mai udito. Interpretò allora quella voce come un comando divino, corse ad aprire il libro delle lettere di S. Paolo che aveva lasciato vicino ad Alipio, lo aprì a caso e vi lesse l’invito dell’apostolo a non vivere nelle gozzoviglie, nelle ubriachezze, nelle impudicizie, nelle discordie e nelle invidie, ma a rivestirsi di Cristo. Da quel momento egli fu tutto per Dio e di Dio.

Tratto da: "La conversione di Sant'Agostino" esercitazione finale del corso di Perfezionamento in "Storia dell'Occidente: cultura e religione" presso l'Università degli Studi "Federico II".

Dott.ssa Raffaella Palma

[1] Cfr. Ivi, VII, 21.

[2] Cfr. Ivi, VII, 21.

[3] Cfr. Ivi,VIII, 5, 10.

[4] Cfr. F. TRONCARELLI, Il ricordo della sofferenza:le Confessioni di Sant’Agostino e la psicoanalisi, Esi, Napoli 1993.

[5] Cfr. Conf. VIII, 5, 12.

[6] Cfr. Ivi, VIII, 6.

[7] Cfr. Ivi, VIII, 7.

[8] Conf. VIII, 12.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

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