PASSI ESTRATTI DA
"Die Aktualität des Schöen".
...Già per Goethe la relazione dei due concetti
<< verità e poesia >> non è certo semplice rapporto di
contraddizione, ma connessione reciproca. Egli dà questo titolo alla sua
autobiografia, intendendo con esso... l'aspetto positivo che il ricordo poetico
ha per la verità... Mi pare innegabile che il linguaggio
poetico abbia una particolare relazione, ad esso totalmente peculiare, con la
verità. Ciò si rivela in primo luogo nel suo non conformarsi in ogni tempo a
qualsiasi contenuto, e poi anche nel fatto che quando un tale contenuto assume
forma linguistico-poetica riceve per questo una specie di legittimazione. L'arte
poetica giudica non solo della riuscita o del fallimento della poesia, ma anche
della sua rivendicazione di verità... La rivendicazione del poeta è posta in
base alla sua arte e la sua arte è l'arte del linguaggio... La poesia è
linguaggio in un senso eminente... Il poeta e la poesia che meritano questo nome
si distanziano in modo essenziale da ogni forma di discorso motivato... Siamo
volti interamente alla parola quale in sé si presenta, e non percepiamo affatto
un contenuto determinato che possa giungerci da questo o da quello, in questa o
quella forma. La poesia non ci sta dinanzi come qualcosa tramite cui qualcuno
vorrebbe dire qualcosa. Essa sta salda in se stessa (steth in sich da).
Nell'identico modo sta di fronte al poeta e a colui che ne fruisce. Svincolata
da ogni intenzione è parola e pienamente parola!
Chiediamoci ora in qual senso a una tale parola sia peculiare la verità. La
parola poetica è evidentemente cosiffatta da essere unica e insostituibile.
Solo in questo caso definiamo qualcosa poesia. Dove ciò non si verifica, ma le
parole ci appaiono arbitrarie, ci troviamo dinanzi a una poesia non riuscita.
L'elemento però propriamente strano è che una poesia che ci convinca come
produzione poetica, ci convince anche per quello che dice. E' un'esperienza
universale che non tutto possa essere espresso in maniera poetica in tutte le
epoche... Chiederei: cosa significa che certe forme di espressione poetica non
siano più << vere >>? Qual senso di verità è mai questo? Già
nella più antica filosofia greca << verità >> ha un duplice senso.
L'espressione greca aletheia,
quale veniva usata nella viva prassi linguistica dei greci, può essere
adeguatamente tradotta con << non-dissimulatezza >> (Unverhohlenheit).
Tale termine è infatti sempre connesso con espressioni del dire. Ma
non-dissimulatezza significa: dire quel che si intende... Questo primo senso
della verità intende dunque che si dica il vero, e cioè si dica cosa si pensa.
Esso viene integrato però, e questo in modo particolare nell'uso linguistico
della filosofia, da quell'altro senso secondo cui una cosa
<< esprime >> (sagt) ciò che << intende >> (meint):
è vero quel che si mostra come ciò che è... Nel nostro proprio uso
linguistico, corrisponde a questo fatto dire di qualcuno che è un vero amico.
Con ciò intendiamo infatti che egli è uno che si è dimostrato amico, e non ha
mostrato all'altro soltanto l'apparenza dell'attaccamento e del sentimento di
amicizia, ma è risultato piuttosto un amico reale, << non-nascosto
>> (unverborgen), come dice Heidegger. E' in quest'ultimo senso che
pongo il problema della verità della poesia... Quando dico << un vero
amico >>, intendo che qui la parola corrisponde al suo concetto.
Quest'uomo è realmente conforme al concetto di amico. Allo stesso modo chiedo
ora: cos'è la parola poetica nella sua verità? In qual modo corrisponde al
concetto di parola?
La possibilità di essere un testo, di essere scritta, riguarda certamente la
parola poetica; ma in quanto parola scritta essa è parola in un senso speciale
e straordinario: vale a dire è una parola che sta scritta... Cosa vuol
dire realmente << sta scritta >>? Con questa espressione si intende
non soltanto che qualcosa sia fissato in modo tale da poter sempre rianimarne il
contenuto. Questo riguarda inequivocabilmente tutte le forme possibili di
fissazione scritta... Una poesia invece non è un ricordo dell'atto originario
di un pensiero, utilizzabile soltanto ai fini di una sua riattualizzazione. Si
tratta piuttosto del contrario, talmente del contrario che il testo possiede in
questo caso molta più realtà di quanto possa mai pretenderne per sé ognuna
delle sue riproduzioni. Sia che un poeta legga ad alta voce le sue stesse opere,
sia che le declami un altro, ognuno sa che il detto rimane indietro rispetto a
ciò che viene autenticamente inteso e a ciò rispetto a cui si misurano tutte
le sue riproduzioni. Cos'è questa possibilità della parola di poter stare
autonomamente per se stessa?...
(Quello poetico) è... un dire che si enuncia completamente, tale cioè da non
doversi aggiungere nulla alla sua realtà linguistica, al fine della sua
comprensione, che non vi sia già detto. Esso è << autonomo >> nel
senso dell'autorealizzazione. Tale è la parola del poeta. La parola poetica è
dunque enunciazione nel senso che il suo dire attesta se stesso e non ammette
nulla di estraneo tendente a verificarlo. Di solito possiamo controllare
un'enunciazione (se aderisca o meno alla realtà dei fatti; n.d.c.). La parola
poetica evidentemente non ha più questo senso, e il problema che qui rimane
aperto sarà così formulabile: come può un dire esser tale da lasciar apparire
insensato e del tutto travisante anche soltanto richiedere un'altra istanza di
verificazione che vada al di là dell'esser detto?... << Verità nella
poesia >> significa: come può la parola del poeta convalidare se stessa
fino al punto da respingere qualsiasi richiesta di verificazione
dall'esterno?...
Il poeta riesce ad evocare l'autorealizzazione del linguaggio. In qual modo
riesce a far ciò il poeta, e con quali mezzi?
Vorrei introdurre a questo punto una breve riflessione marginale. In modo
palese, la parola della poesia è intrecciata indissolubilmente da un lato col
suono e dall'altro col significato. La misura di questo intreccio può essere
più o meno grande... Mi riferisco in special modo alla poesia lirica: Si offre
qui davanti agli occhi di ciascuno il caso della intraducibilità nella sua più
radicata incondizionatezza. Non esiste infatti alcuna traduzione di poesie
liriche che riesca a conseguire un'effettiva efficacia rispetto all'opera
originaria. Nel caso migliore abbiamo un poeta che si imbatte in un poeta e, per
così dire, pone una nuova opera poetica al posto dell'altra... La parola
poetica non si realizza a partire da qualcos'altro, per esempio attraverso una
verifica convalidante, come nel caso di un'informazione, o attraverso una nuova
esperienza, ma a partire da se stessa. Autorealizzazione significa infatti non
rinviare più ad altre istanze. Ma allora, quel che contrassegna il linguaggio
poetico è la suprema realizzazione del manifestare (deloun) che è il
compito del parlare in generale. Mi pare perciò una teoria estetica fuorviante
quella che interpreta la parola poetica come una concentrazione di momenti
emozionali e significativi che si aggiungono alla parola quotidiana. Tutto
questo può certamente risultare vero. Una parola però non diviene poetica per
questo, ma perché ha la forza di << realizzarsi >>... Qualora un
poeta descriva con le sue parole una casa, oppure rievochi l'immagine della
<< casa >>, vediamo non una casa qualsiasi, ma ognuno costruisce la
<< sua >> casa, e cioè in modo tale che per lui esiste << la
casa >>... In tal senso la parola è qui vera, e cioè svelante: essa
compie tale autorealizzazione. L'elemento positivo, << posto >>, che
si può incontrare anche altrove, così che si è in grado di verificare se una
nostra enunciazione concorda con esso, risulta sospeso nella parola poetica.
Eppure è fuorviante concepire ciò come coscienza indebolita della realtà,
diciamo come una ridotta capacità di porre della coscienza. Al contrario. La
realizzazione avvenuta tramite la parola respinge ogni paragone con altro che le
sia compresente, sollevando il detto al di sopra della particolarità che siamo
soliti chiamare realtà. Che essa faccia questo, che non miri qui a un mondo in
segno di conferma, bensì, al contrario, nella poesia si costruisca il mondo
stesso della poesia, è certo incontestabile. Mi chiedo come risulti possibile
alla parola fare in modo che, d'un tratto, ci rifiutiamo di cercare una verifica
del detto. Questo per esempio totalmente evidente in Hölderlin,
il quale annuncia il ritorno degli dèi. Chi crede seriamente di dover
attendere il ritorno degli dèi greci come qualcosa di promesso per il futuro
non ha compreso cos'è la poesia di Hölderlin. << Nella poesia aleggia il
loro spirito >>. In qual modo compie questo il poeta? Come può la poesia
fare in modo che la sua parola, in quanto forma linguistica enunciata dal poeta,
d'improvviso sia << così >>, e intendo con ciò: così che essa non
tanto intenda qualcosa, ma sia la presenza stessa di ciò che intende, e questo
punto tale che lo stesso poeta, quando la ode, non può quasi comprendere di
essere lui ad averla detta?
Cosa significa che un contenuto determinato, qualcosa di inteso in modo
determinato, per il solo fatto che una poesia c'è, giunga per così dire ad
arrestarsi sul sentiero dell'apparire di questa parola vera?
Pensiamo ancora una volta alle nostre riflessioni iniziali. Dicevamo allora:
ogni parlare dice qualcosa, e poter lasciarsi dire qualcosa, oppure poter dire
qualcosa a qualcuno, presuppone che per uno ci sia qualcosa di apertamente
problematico che induce ad accettare la parola come risposta. Come si presenta
la questione rispetto all'opera poetica? Qui non si tratta di ciò che il poeta
intende o di ciò che lo motiva a dire questa o quella cosa. Si tratta piuttosto
della domanda cui è data risposta attraverso quel che nella poesia si è potuto
o si è stati in grado di fare, e di null'altro << dietro a questo
>>. Che specie di domanda è mai questa? ... Quale superamento di
motivazioni occasionali e vincoli storici si è realizzato e in qual modo? ... A
quale domanda una forma poetica continua a costituire una risposta? Credo
non sia sufficiente dire che in tutte le forme poetiche giungono alla risposta
le questioni ultime della nostra esperienza della vita umana e che
attraverso ciò ci interpellano... Non dovremmo forse chiedere a quale domanda
ogni forma poetica è sempre una risposta? Forse si delinea un chiarimento se
riprendo ciò che all'inizio ho descritto come elemento comune di ogni parlare:
quel che viene evocato dalla parola c'è (ist da)... E' decisivo che la
parola evochi l'esserci (Dasein),
che questo sia a portata di mano. Questa è la verità della poesia: che essa
realizzi questo << mantenimento della prossimità >>... Una vera
poesia fa esperire la prossimità, in modo tale che questa prossimità
venga mantenuta attraverso la poesia e la sua forma linguistica. Quale
prossimità e rispetto a che cosa? Cosa viene qui mantenuto? Quando si debba
mantenere qualcosa, quel che si deve mantenere è sfuggente, ossia vorrebbe
sfuggire. In effetti la nostra esperienza originaria di esseri temporali è
proprio che tutte le cose ci sfuggono, che più o meno tutti i contenuti della
nostra vita si scolorano, così che al massimo soltanto nel più remoto ricordo
rilucono ancora con un bagliore quasi irreale. Ma la poesia non si scolora. La
parola poetica arresta, per così dire, lo sfuggire del tempo. Anch'essa
<< sta scritta >>... come un << dire >> (Sage)
che mette in gioco la sua peculiare presenza. Potrebbe essere appunto connesso
con questa forza della parola poetica il fatto che il poeta si senta provocato a
tramutare in parola anche ciò che pare sottrarsi assolutamente alla sfera
dell'espressione. Nell'ambito della poesia lirica questa autorealizzazione
sembra particolarmente enigmatica là dove l'unità significativa del discorso
poetico non si lascia affatto verificare, come nel caso della poésis pure
a partire da Mallarmé.
Ci chiediamo ancora una volta: come realizza se stessa la poesia lirica e con
quali mezzi? Tale
<< stare della parola >> (Stehen des Wortes) mi pare accenni
alla situazione fondamentale dell'uomo che Hegel ha descritto come ambientarsi (Heimischwerden).
Il compito essenziale, che tutti conosciamo per esperienza personale, è che ci
si << accasi >> (einhaust) nel flusso ininterrotto delle
impressioni. Questo avviene soprattutto nell'apprendimento della madrelingua in
cui si struttura l'ordine crescente di una totalità di esperienza compresa
linguisticamente. E la stessa lingua materna, in quanto realizza con ciò questa
prima articolazione del mondo in cui permanentemente ci muoviamo, acquisisce nel
contempo una dimestichezza crescente. Ognuno sa cosa significa avere
sensibilità linguistica. Qualcosa suona estraneo, qualcosa non è <<
esatto >>. Di questo facciamo costantemente esperienza per esempio nelle
traduzioni. Quale familiarità viene qui delusa? Quale prossimità viene qui
rimossa? E cioè, Quale familiarità ci sorregge quando stiamo parlando? Quale
prossimità ci circonda? Risulta palese che in tal caso acquisiamo sempre
maggior dimestichezza non soltanto con parole e locuzioni della nostra
lingua, ma anche con ciò che tramite le parole vien detto. L'affondare le
radici in una lingua significa, a tale riguardo, che il mondo già sempre si
approssima e giunge ad arrestarsi in un ordine spirituale. Le parole rimangono
le articolazioni fondamentali che guidano la nostra comprensione del mondo.
Appartiene alla familiarità del << mondo >> che esso si comunichi
nel discorrere insieme.
La parola del poeta, però, non prosegue semplicemente questo processo di
accasamento (Einhausung). Essa piuttosto compare di fronte a questo come
uno specchio tenutogli davanti. Ma ciò che appare in esso non è il mondo, e a
maggior ragione non questa o quella cosa che è nel mondo, ma la prossimità
stessa, la familiarità stessa in cui ci tratteniamo. nella parola letteraria e,
nella sua più elevata perfezione, nella poesia, ottengono dimora sia questo
soffermarsi sia questa prossimità. Non è una teoria romantica, ma una semplice
descrizione di connessioni reali, dire che la linguisticità dischiude l'accesso
universale al mondo e che in questo accesso linguistico al mondo emergono forme
straordinarie dell'esperienza umana: ... la parola poetica attesta la nostra
esistenza, essendo esistenza (Dasein) essa stessa.
aletheia , dal greco alhqeia : a (privativo) e lithin (nascosto). (n.d.c.)
Dasein , termine tedesco (significa << esistenza, esistere >>) usato come termine tecnico da Heidegger per indicare il modo di essere proprio dell'uomo. Accentuando il senso letterale della parola, Heidegger dice che il Da-sein, l'esser-ci, è costitutivo dell'uomo perché egli è soltanto in quanto ha un ci, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti. In questo senso, per Heidegger << l'essenza del Dasein consiste nella sua esistenza >> (Essere e tempo, par. 9), cioè nel suo trascendersi rapportandosi agli enti e comprendendosi nel proprio essere. (n.d.c.) termine tedesco (significa << esistenza, esistere >>) usato come termine tecnico da Heidegger per indicare il modo di essere proprio dell'uomo. Accentuando il senso letterale della parola, Heidegger dice che il Da-sein, l'esser-ci, è costitutivo dell'uomo perché egli è soltanto in quanto ha un ci, un orizzonte in virtù del quale si rapporta agli altri enti. In questo senso, per Heidegger << l'essenza del Dasein consiste nella sua esistenza >> (Essere e tempo, par. 9), cioè nel suo trascendersi rapportandosi agli enti e comprendendosi nel proprio essere. (n.d.c.)