LUIGI-CARLO FARINI

e la truffa dei plebisciti

 
Luigi Carlo Farini (Russi (Ra), 22 ottobre 1812 – Quarto (Ge), 1º agosto 1866) è stato un medico, storico e politico italiano, e per breve tempo Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d'Italia dall' 8 dicembre 1862 al 23 marzo 1863. Il padre Stefano è farmacista e la madre Marianna Brunetti viene da famiglia di medici con tradizioni liberali. Il padre è Podestà (sindaco) di Russi dal 1811 al 1812 poi membro del consiglio a vario titoli per molti anni. Lo zio Domenico Antonio, che lo aveva avviato agli studi umanistici, era andato esule in Toscana (1821-24) dopo aver aderito alla Massoneria poi alla Carboneria (sarà ucciso da sicari politici nel 1834). Farini fu ammesso a soli 16 anni all’Ateneo bolognese per frequentare la facoltà di medicina e chirurgia dove si distingue non solo per il profitto, ma per la vivacità politica che gli procura una denuncia da parte delle autorità accademiche e l’ordine di allontanarsi da Bologna. Riammesso consegue nel 1831, a soli 19 anni la licenza e 1 anno dopo la laurea e l’abilitazione all’esercizio della professione medica. Avrà difficoltà ad ottenere la prima condotta medica essendo inserito nelle liste dei sospetti liberali o antisanfedisti. Inizia comunque l’attività di medico presso la Comunità di Montescudo portando avanti gli studi sulle febbri malariche diffuse nel territorio paludoso del ravennate. Anche L.C. Farini aveva comunque aderito alla Giovine Italia di Mazzini. In mancanza di incarichi professionali nel 1936, durante l’epidemia di colera, diresse l’ospedale dei colerosi. Nel 1839 ottiene l'agognata condotta medica di Russi e pubblica lo studio "Sulla pellagra. Osservazioni teorico-pratiche", frutto dell’osservazione attenta delle malattie dominanti della zona ravennate. Compromesso dai moti del 1843, s'imbarca a Livorno per Marsiglia con regolare passaporto pontificio che il moderato cardinal legato Amat gli ha fatto avere. Dopo una breve permanenza a Parigi, nel 1844, tornò in Italia stabilendosi in Toscana. Qui cominciò ad organizzare un movimento insurrezionale che doveva entrare in azione nello Stato pontificio su incarico di Mazzini. Per la prolungata assenza la sua condotta a Russi è stata riassegnata e il suo nome è ancora nelle liste della polizia pontificia e degli stati limitrofi. In Toscana stende il saggio "Sulle questioni sanitarie ed economiche agitate in Italia intorno alle risaie. Studi e ricerche", pubblicato nel 1845 e il “manifesto di Rimini” indirizzato alle popolazioni dello Stato della Chiesa, ai Principi ed ai popoli d'Europa additando a tutti i governi e sovrani europei l'illiberalità delle Corti giudiziarie speciali, istituite dal Papa e chiedendo una maggiore libertà di azione politica a favore dei cittadini della Romagna. Mazzini, che già mal lo tollerava, bocciò l’iniziativa come fonte di moderatismo e tradimento dell’Idea Nazionale. Al moto comunque Farini non partecipò ma non venne meno la persecuzione nei suoi confronti anche in terra Toscana. Lo accolse come medico personale Gerolamo Napoleone che ottenne un visto e un salvacondotto anche per lui per tutti i paesi ove desiderasse andare. Conobbe in una di queste occasioni a Torino Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio a cui resterà legato sempre. Ad Aosta lo raggiunge la notizia dell’elezione al soglio pontificio di Pio IX con la coda delle buone considerazioni che questo sembrava portare. Riebbe una condotta (morto Gerolamo) a Osimo nelle Marche. Si fa risalire a questi due anni 1846/47 la collaborazione ad alcune testate liberali (nello stato della chiesa). Nel 1848 viene eletto deputato nel collegio di Faenza e Russi, impegno che gli vale la nomina di segretario generale al Ministero dell’Interno con il compito specifico di laicizzare la burocrazia pontificia. In novembre viene nominato Direttore Generale della Sanità e delle Carceri sotto il governo di Pellegrino Rossi. Non aderendo alla Repubblica Romana (9/2/1849) in seguito alla formazione del triumvirato Mazzini, Armellini, Saffi, viene destituito. Si rifugia a Firenze poi a Torino, dov’era anche il figlio Domenico alla scuola ufficiali.  

- Il 21 ott. 1851 il F. venne chiamato a sostituire al ministero della Pubblica Istruzione il dimissionario Pietro Gioia; la nomina sollevò riserve e proteste dei piemontesisti di destra e di sinistra: Brofferio lo attaccò in quanto privo di precedenti esperienze politiche in Piemonte, né distintosi per alti compiti nello Stato romano; il F. si difese con nobiltà e calore. Presentando il 19 nov. 1851 il bilancio della Pubblica Istruzione annunciò vari provvedimenti per l'istruzione superiore impegnandosi a presentare un progetto organico di riforma della scuola. Intanto, dopo essere stato candidato senza esito nel collegio di Dogliani alle elezioni per la IV legislatura, fu eletto deputato in una elezione suppletiva del collegio di Varazze il 17 dic. 1851; verrà rieletto nelle elezioni della V legislatura per il collegio di Cigliano. Nicola RAPONI Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana

Ottenuta in poco tempo la cittadinanza piemontese, dal 1849 al 1856 fu deputato liberale e ministro con Massimo D'Azeglio, divenendo successivamente stretto collaboratore di Cavour. Dopo aver diretto il giornale di appoggio al ministero d’Azeglio, La Frusta, accetta la direzione de "Il Risorgimento" prendendo il posto di Camillo Benso di Cavour, divenuto Ministro dell’agricoltura. In seguito dirigerà prima "Il Parlamento" poi "Il Piemonte". Un salto di alcuni anni per seguire Farini nelle ultime vicende dell’Unità d’Italia e della sua vita.
Redasse il discorso della corona (il famoso grido di dolore) e la successiva dichiarazione di guerra nel 1859. In quanto conoscitore delle terre emiliane agiva già in segreto prima e durante la guerra, ma lo colse improvviso l’11 giugno 1859 la fuga del Duca di Modena
Francesco V già prima della battaglia di S. Martino e Solferino che comunque non dovevano essere conclusive e solo l'alto numero di morti nello scontro dissuase l'Imperatore di Francia Napoleone III dal continuare la guerra all'Austria a fianco del piccolo Piemonte. I regnanti dell’Emilia, della Toscana (compreso il Papa nelle Romagne) dovevano rientrare sui loro troni o domini. Il successivo e inaspettato armistizio creò quindi un limbo istituzionale nelle cui pieghe operò comn solerzia L.C. Farini a partire dal 17 giugno.

Questa parentesi è raccolta dal libro - LA VERITA’ sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia (sottotitolo - Rivelazioni di JA agente segreto del Conte Cavour) di Elena Bianchini Braglia (EBB) editore Terra e Identità Via Prampolini 69 - Modena con vicende in parte sconosciute di cui riportiamo sotto alcuni passi indicativi.

 
   

Lettera di Cavour a Vittorio Emanuele II (da Cronologia.it)

Ci sedemmo dalla parte del torto, perché da quella della ragione non c’era più posto (B. Brecht)

TRUFFA O CASUS BELLI 

…. il "Bollettino Ufficiale della guerra", N. 8, in data 30 aprile, inserito il 2 corrente nella "Gazzetta Piemontese", foglio ufficiale di quel Regno, dichiarava essere state quelle forze spedite contro una colonna di truppe estensi che minacciava quelle popolazioni, ed averlo fatto, perché il Governo del Re "si considerava in istato di guerra col Duca di Modena".
Il Duca precisò "Consci dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini di non aver mai fornito alcun legittimo pretesto al Governo sardo di ammettete per parte sua una così fatta -considerazione, dopo averla constatata ingiusta, dobbiamo anche dichiararla contraria ad ogni analoga consuetudine internazionale. I rapporti infatti tra il nostro Governo ed il Governo del Re sussistevano ancora come per lo passato: il Ministro Plenipotenziario di Sardegna non aveva cessato di essere accreditato presso di Noi; le Convenzioni di Commercio postale e telegrafica erano sempre osservate da una parte e dall'altra; la pace adunque non era rotta per alcun modo, e lo stato di guerra non esisteva quando il Governo del Re di Sardegna inviava i propri Commissari e le proprie truppe sul territorio estensePalazzo Ducale di Sassuolo... Di fronte quindi a un così aperto attentato contro il diritto delle genti, a una così flagrante violazione dei Trattati, alla usurpazione a mano armata ed in piena pace di un territorio che ci appartiene per diritto di eredità ed in forza dei Trattati, dobbiamo a Noi stessi, dobbiamo ai nostri sudditi fedeli, e a quelli ancora che perfidamente fossero stati traviati, il protestare altamente, come effettivamente protestiamo colle presenti, contro ogni atto del Governo sardo e de' suoi agenti dal giorno 28 dello scorso aprile in poi, giorno della loro violenta intrusione nel Nostro Stato. Protestiamo inoltre contro le conseguenze tutte deducibili degli atti stessi, e contro le qualsivogliano usurpazioni ulteriori, che fossero per proseguirsi in danno nostro e dei nostri fedeli sudditi. … facciamo un franco appello alle Potenze amiche e segnatarie dei trattati del 1815, perché nella loro giustizia e nel comune interesse dell'osservanza dei patti solenni d'Europa, portino sulla situazione da Noi segnalata ogni più pronto ed efficace provvedimento. Da Modena, 14 maggio 1859.

 

...."La mia posizione diventava imbarazzante, perché  io non avea  più nulla di ben determinato da proporre. L’Imperatore (dei Francesi) venne in mio aiuto, e noi ci ponemmo a percorrere insieme tutti gli Stati dell’Italia, per cercarvi questa cagione di guerra così difficile a trovarsi. Dopo aver viaggiato inutilmente in tutta la Penisola, giungemmo senza badarci a Massa e Carrara: e là scoprimmo quello che cercavamo con tanto ardore. Avendo io fatto all’Imperatore una descrizione esatta di quel disgraziato (?!) paese, del quale per altra parte egli aveva un concetto  assai preciso, noi restammo d’accordo che si provocherebbe un indirizzo degli abitanti a V.M. (Vostra Maestà) per chiedere protezione, ed anche per reclamare l’annessione di quei Ducati alla Sardegna. [...] Vostra Maestà non accetterebbe la proposta dedizione;  ma, prendendo  le parti delle popolazioni oppresse, rivolgerebbe al Duca di Modena una nota altera e minacciosa. Il Duca, forte  dell’appoggio  dell’Austria,  risponderebbe in modo impertinente, in seguito a ciò V. M. farebbe occupare Massa, e la guerra incomincerebbe. Siccome il Duca di Modena ne sarebbe la cagione (!!!), l’Imperatore pensa che la guerra sarebbe popolare non solamente in Francia, ma anche in Inghilterra e nel resto dell’Europa; poiché quel Principe a torto o a ragione, è considerato come il capro emissario del dispotismo. D’altra parte il Duca di Modena, non avendo riconosciuto alcun Sovrano di quelli che regnarono dopo il 1830 in Francia, [...] l’Imperatore ha meno riguardi da osservare verso  di lui che non verso qualsiasi altro Principe.

     
(EBB) Carlo Collodi “per tutto e da tutti abbiamo avuto buona accoglienza, menoché a Modena, dove ci aspettavamo molto e avemmo poco, per non dir nulla. In codesta città vi è un gran partito gesuitico e ducale e su questo proposito mi diceva il figlio di Ciro Menotti (Massimiliano vedi approfondimento in questa sezione): credimi, se Modena esercitasse sul modenese l’influenza che Parigi esercita sulla Francia, Francesco V tornerebbe sul trono”. A Modena l’agente segreto di Cavour ammette che i liberali nutrivano forti preoccupazioni, temendo che, se Farini si fosse allontanato allentando la sorveglianza sulla città, il popolo si sarebbe immediatamente sollevato in una controrivoluzione. Per questo i piemontesi pensarono ad un pretesto per rendere legittima, agli occhi dell’Impero e dell’opinione pubblica, se non della Francia (“perché mi è difficile di credere che il gabinetto francese abbia preso un solo istante sul serio la commedia di Modena”) una permanenza in città di Farini. Per il giorno previsto per la partenza del commissario regio, Filippo Curletti (l’agente segreto) aveva fatto riunire a Modena tutti gli agenti piemontesi presenti a Reggio, Carpi, Mirandola, Pavullo. Essi, in borghese, fingendosi popolani modenesi, cominciarono a gridare, secondo gli ordini ricevuti: “viva Farini… egli non partirà, egli è il nostro padre!!!” quindi si gettarono sulla carrozza, ne distaccarono i cavalli e alle grida di “viva il dittatore!” la ricondussero in città, ove erano, certo non a caso, ad attendere i membri principali del governo commissariale che immediatamente stesero un processo verbale che nominava Luigi Carlo Farini cittadino di Modena e dittatore. Era il 28 luglio 1859 ma intanto il 21 il “Nuovo Duca di Modena Farini” aveva decretato:

- Il Regio Governatore delle Provincie modenesi: Considerando, che regnanti i due Arciduchi Francesco IV e Francesco V d'Austria d'Este, furono innumerevoli i giudizi penali senza forma e senza rito legale, molte le confiscazioni, le usurpazioni e le inique distribuzioni delle altrui proprietà; Considerando, che la civiltà e la giustizia comandano di far palesi le opere delle male Signorie, affinché la pubblica opinione, avvalorando i legittimi voti dei popoli, pronunzi le sue inappellabili sentenze; decreta

 

I documenti raccolti dalla commissione furono pubblicati in fretta e furia dall’editore Nicola Zanichelli, che, non avendo l’attrezzatura, li stampò a Milano. (Cominciò così la sua fortunata carriera di editore). Il 10 febbraio 1860 L.C. Farini istituì per decreto le tre Deputazioni di Storia Patria di Bologna, Modena e Parma e sentenziò “il richiamare la storia a’ suoi veri uffici è opera di Governi liberi, che lasciano volentieri aperto ogni adito alla verità e non temono di trovar rimproveri nel passato”. Fu stanziata la somma di 20.000 lire dal Min. Montanari professore a Bologna. Venne così tolto ai Torinesi il compito di promuovere le ricerche per i territori conquistati. Qualcuno in questa mossa ha voluto vedere un federalismo culturale che poi alla prova dei fatti non si sostenne, “Veniva garantito alle mille patrie locali confluite ormai in un’unica compagine statale, la possibilità di conoscere e di salvaguardare le proprie identità culturali”

1°) È istituita una Commissione, la quale cerchi nei segreti e nei Pubblici Archivi, tutti i documenti delle licenze e degli arbitrii dei due ultimi Duchi di Modena, delle opere sovversive d'ogni ordine civile, e delle offese contro i diritti della proprietà e della famiglia.
2°) La Commissione dovrà raccogliere e pubblicare immediatamente, e per ordine, tutti i documenti in originale, e colla traduzione in lingua francese.
3°) La medesima è abilitata altresì a fare inchieste ed assumere deposizioni giurate, destinando a tal uopo uno o più Cancellieri.
4°) Essa dovrà eziandio proporre i modi equi, di riparare in qualche guisa i danni recati alle disgraziate famiglie, dai confischi e dalle arbitrarie distribuzioni dei loro beni.
5°) La Commissione si compone dei Signori: Consigliere Vincenzo Palmieri, Presidente del Supremo Tribunale di Revisione; Innocenzo Malagoli, Regio Procuratore nel Tribunale di Prima Istanza in Modena; Marchese Ercole Coccapani-Imperiali; Don Gaetano Chierici, Prof. di Filosofia Matematica nel Seminario di Guastalla; Aureliano Selmi. Sostituto Procuratore Generale del Supremo Tribunale di Revisione; Avv. Giovanni Soragni; Avv. Francesco Caybonieri; Avv. Lodovico Bosellini; Avv. Tito Ronchetti. Il consigliere Palmieri eserciterà le funzioni di Presidente, e l'Avv. Bosellini quelle di Segretario.
6°) La Commissione stessa si riunirà ogni giorno dalle ore nove antimeridiane alle tre pomeridiane nell'Ufficio della I Direzione.
7°) Il Direttore di Grazia e Giustizia ha incaricato dell'esecuzione del presente Decreto, il quale sarà pubblicato nei modi voluti dalla Legge. - Modena, 21 luglio1859, Il Governatore FARINI".
 

Filippo Curletti, funzionario di polizia, protetto di Cavour e suo strumento.   Filippo Curletti -LA VERITÀ SUGLI UOMINI E SULLE COSE DEL REGNO D’ITALIA -

http://partitodelsud.blogspot.it/2010/05/memoriale-di-filippo-curletti-agente.html
Su suo incarico, Curletti organizzò infaticabilmente spontanee sollevazioni popolari nei principati italiani, onde Vittorio Emanuele potesse dire di «non essere insensibile al grido di dolore» che si levava dagli italiani oppressi dall’oscurantismo, e giustificasse l’intervento dell’armata piemontese. Curletti organizzò sollevazioni ad Ancona, Perugia, Fano, Senigallia, arruolando per la bisogna delinquenti comuni ed evasi. Come ci riusciva? Lo si scoprì dopo la morte di Cavour, quando Curletti perse il suo protettore e fu processato.

Origine del processo fu un pentito – il primo pentito della storia italiana – Vincenzo Cibolla, capo della «banda della Cocca», una gang di delinquenti che terrorizzò Torino negli anni ‘50. Catturato, Cibolla rivela che il primo informatore della banda, nonchè socio nella spartizione del bottino di furti e rapine, era il funzionario di polizia Curletti. Condannato a vent’anni in contumacia (era riparato in Svizzera) Curletti pubblica un suo memoriale esplosivo (a dx).
Raccontando come il Farini, allora dittatore provvisorio di Parma, gli chiese di organizzare l’eccidio del colonnello Anviti (l’ex capo della Polizia di Maria Luigia), come linciaggio «popolare». «Noi non possiamo toccarlo senza che sorgano clamori – disse Farini a Curletti – Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso». Curletti chiosa: «Io partii, e si sa quel che avvenne». Il colonnello Anviti, riconosciuto dal «popolo» (Parmense in stazione), fu trascinato, fra botte e coltellate e canti patriottici, «al Caffè degli Svizzeri» di Parma, dove «fu collocato sopra un tavolo e gli fu tagliata la testa mentre non era ancor tutto spento». Il cadavere scempiato fu trascinato nelle strade per quattro ore
(la notizia fece il giro di tutte le testate europee creando non poco imbarazzo al nuovo governo. http://www.gazzettadiparma.it/primapagina/dettaglio/5/28684/Anviti_una_pagina_nera.html )

Chi erano i patrioti che compirono quest’atto di giustizia popolare? «Un migliaio di precauzionali invecchiati nel vizio e organizzati al delitto», che il dittatore Farini (padre della patria) «fu sollecito a scarcerare dal forte di Castelfranco (Emilia di Modena) ».
 

   L’ordine cronologico delle date conduce a parlar di un fatto che produsse in Europa una immensa sensazione, voglio dire l’assassinio del col. Anviti. Ecco la verità su questo avvenimento; il mio racconto non recherà d’altronde molta sorpresa. Mi trovavo nel mio gabinetto, era, se non mi inganno, il 5 ottobre 1859. Farini arrivò correndo: “presto presto… a Parma. Vi hanno arrestato il colonnello Anviti alla stazione della strada ferrata… il boia dei Borboni”. Queste furono le sue parole: un accento solo di questa conversazione non si è cancellato dalla mia memoria. “Cosa vuole che si faccia?” Risposi… “Vuole che glielo conduca qui?” “Oh! No! Non sapremmo cosa farne!… è un uomo particolare”. “Ma…” - non potremmo toccarlo senza far gridare – “bisognerebbe che la popolazione si incaricasse della cosa  mi capite”. Io partii - si sa ciò che accadde… - ma si ignorano alcuni dettagli che potranno edificare sul rammarico che il governo piemontese provò per questo avvenimento. Al seguito della mia triste missione ricevetti la Croce dei Santi Maurizio e Lazzaro. Il direttore della prigione Galetti, che, dietro ordine avuto, si era lasciato portar via il suo prigioniero, fu avanzato e abbandonò la direzione delle prigioni per quella delle poste10. L’uomo che dopo avere trascinato per le strade di Parma, il cadavere insanguinato del colonnello Anviti, lo decapitò, per porne la testa come trofeo sulla piramide della piazza del Governo, Davidi, fu lo stesso giorno nominato direttore delle prigioni di Parma. Non so se occupi ancora questo posto al momento che scrivo, so però che lo occupava due mesi or sono. http://www.futurplastic.com/Curletti.pdf
Il copione di Firenze..... (EBB pag 42 e segg) …noi dovevamo correre alle casse pubbliche ed impadronircene. Ricasoli incaricavasi di fare occupare dai suoi uomini i ministeri, le poste ed il palazzo granducale. Questo piano di campagna riuscì, come si sa, puntualmente; alle 4 del pomeriggio Buoncompagni era installato nel palazzo del Sovrano presso cui era accreditato; alla stessa ora tutte le casse pubbliche erano vuote, senza che una sola lira sia entrata nel tesoro piemontese. Quelli che non avevano potuto prendere parte al saccheggio si installarono chi alle poste chi ai ministeri. lo potrei nominare più di dieci impiegati delle amministrazioni a Firenze che non posseggono altro titolo pei posti che occupano che l'attribuzione che se ne fecero a quell'epoca di loro propria autorità. lo ricevetti per mia parte dalle mani stesse di Buoncompagni una gratificazione di seimila franchi. Il mio racconto, semplice come un processo verbale, sorprenderà forse coloro che hanno veduto le agitazioni politiche solo attraverso il prisma moltiplicante della paura o dai giornali del partito vittorioso  

Nota:
Dopo la fuga del Duca d'Este Luigi Carlo Farini, "dittatore delle provincie modenesi (Reggio e Modena), parmensi (Parma e Piacenza) e governatore delle Romagne (pontificie)", Il 30 novembre 1859 fa pubblicare il decreto d'unificazione di questi territori al Piemonte, scelte confermate (a posteriori) dal Plebiscito del marzo 1860. Divise poi in dicembre il territorio dell'Emilia in "Provincie, Circondari, Mandamenti e Comuni". Il primo Consiglio provinciale di Modena, proclamato dall'intendente generale Luigi Zini il 4 marzo 1860, scaturì dalle elezioni amministrative del 5-12 febbraio dello stesso anno, che si svolsero dopo la promulgazione della legge provinciale e comunale sarda del 1859, ma sempre prima del voto ufficiale per l'annessione al Regno di Sardegna (Plebisciti 11/12 marzo). La seduta di insediamento del Consiglio, e di nomina delle cariche, ebbe luogo il 21 marzo 1860.


Cedant arma togae, le armi lascino posto alla toga (Cicerone, De officiis, I, 77). Let arms yield to the gown; let violence give place to law.

Si replica quindi a Modena
Il primo ordine che Farini mi diede entrando nel palazzo d'Este, fu di impadronirmi di tutte le chiavi, comprese quelle della cantina. "E' inutile" mi disse "di fare un inventario". All'arrivo della signora Farini, dovetti rimettere tutte le chiavi nelle di lei mani. Tutta l'argenteria, collo stemma duca le, fu dato a fondere. Ove ne è ito il prodotto? ... lo non posso essere affermativo fino questo punto, ma credo di non ingannarmi asserendo che non fu versato al tesoro. Una circostanza che mi conferma in simile persuasione, è che a quell'epoca Farini mi ordinò di comunicare ai giornali un articolo, che tutti hanno potuto leggere, e nel quale era detto che il Duca partendo, aveva portata via tutta la sua argenteria, e tutti gli oggetti di qualche valore, e non aveva, per così dire, lasciato che le quattro mura: anche le cantine erano vuote, per quanto ne asseriva cotesto articolo comunicato. Esse lo erano anche pressoché, in quel momento, ma da dieci giorni. Farini teneva corte bandita nel palazzo ducale, Borromeo, Riccardi, Zironi, Carbonieri, Mayr, Chiesi e Zini erano i soliti commensali di quei pranzi principeschi.
Su questo proposito viene a porsi ben naturalmente sotto alla mia penna, un piccolo fatto che rallegrò qualche giorno le conversazioni di Modena, e di cui si perderebbe, veramente, a non conoscere i dettagli. La tavola del governatore era stata fornita da un tale Ferrari, che teneva (e che tiene tuttora) l'albergo di San Marco a Modena. Suo padre è Capo dello Stato Maggiore di Francesco V. AI termine di otto giorni la lista (dei pranzi) del Ferrari ammontava a 7.000 franchi. Farini trovò concordo di pagare questa somma con un brevetto di colonnello* che Ferrari accettò. Costui si trovò tutto ad un tratto posto al livello di suo padre che conta 30 anni di servizio. Il figlio comanda oggi la piazza di Modena', ed il padre è in esilio!!
Qualche giorno dopo l'installazione della signora Farini tutta la guardaroba della Duchessa fu data alle sartorie, dopo che essa e sua figlia l'ebbero divisa. Ciascuna di loro fece ridurre la sua parte alla propria misura. La corpulenza di Farini non gli permise di profittare della guardaroba del Duca, ma questa non sortì, per così dire, di famiglia. Riccardi, allora segretario, e poi genero di Farini, se ne impadronì. Bisogna convenire che gli abiti del Duca andavano perfettamente al suo dosso. Il saccheggio della casa ducale mi cagionò non già qualche scrupolo - ciò mi sembrava a quell'epoca, di buona guerra - ma qualche sorpresa. Contrastava infatti passabilmente col disinteresse spartano di cui Farini voleva allora dare spettacolo. lo provo qui un certo imbarazzo perché nei fatti, che mi è duopo narrare, non sono rimasto, come lo ero stato fino allora, un istrumento passivo e disinteressato dei ministri. Ma mi sono lasciato trascinare a fare della mia posizione un abuso colpevole, di cui ho divisi gli utili e di cui per conseguenza devo dividere la vergogna, - avrei voluto poter passare sopra questi dettagli, ma ho promesso di dire tutto. Quelli che arriveranno a questi fatti mi scuseranno, lo spero, perché essi comprenderanno bene che nella mia situazione, ed in mezzo ad esempi che vedevo venire dall'alto era difficile di non lasciare illanguidire un poco in se stessi l'istinto della moralità. Farini si mostrava molto concitato contro i duchisti e principalmente contro i preti e le monache. "Non bisogna avere pietà con quelle canaglie" mi ripeteva egli sovente, leggendo i miei rapporti. Dietro simili disposizioni del governo si può supporre che io avevo carta bianca per gli arresti e le incarcerazioni. Noi immaginammo, Riccardi ed io, di profittare di questa posizione. Agenti della più infima specie reclutati da noi si introducevano presso le persone conosciute pel loro attaccamento alla dinastia ducale, presso i preti, nei conventi, ed all'atto di operare gli arresti, facevano comprendere che con qualche opportuno lascito di denaro si sarebbe potuto riconquistare la libertà, od anche evitare l'imprigionamento. Simili argomenti mancano ben raro di riuscita; vi si sottometteva; ed era ciò che avevasi di meglio da fare. Il prodotto di queste estorsioni era rimesso a Riccardi, genero di Farini. Le somme erano più o meno considerevoli, lo si comprende, secondo la fortuna delle
persone arrestate. Guastalla e Sanguinetti banchieri, non dovettero versare nelle mie mani meno di 4.000 franchi a testa.
 
Da Carabinieri nell'ex Ducato di Modena 1859-2009 di Danilo de Masi passi    

Siamo dunque al 1860. Farini vede profilarsi il successo finale del proprio governatorato e – forte del ritorno di Cavour alla guida del Governo il 21 gennaio 1860 - indice le elezioni amministrative del 5−12 febbraio 1860 (applicando La legge sarda 23 ottobre 1859 sul riordinamento dell'amministrazione comunale e provinciale n° 3702) Urbano Rattazzi, Ministro dell’Interno del Governo La Marmora, con l’enunciazione "Cedant arma Togae"). Luigi Zini, il governatore scelto da Cavour al momento dell’insurrezione modenese (in carica solo dal 14 al 19 giugno) ma rifiutato dai cittadini di Reggio Emilia, viene nominato primo Prefetto (Intendente Generale) di Modena-Reggio e procede all’insediamento del neo-costituito Consiglio provinciale di Modena proclamato il 4 marzo 1860,anniversario dello“Statuto Albertino” del 1848. Lo stesso Zini sovrintende poi al plebiscito di Adesione al Regno dell’11-12 marzo1860: il 18 viene proclamata l’annessione.Il 25 marzo 1860 si svolsero le ultime elezioni politiche del regno per la VII legislatura del parlamento Sardo-piemontese: Farini aveva fatto chiamare al voto anche i modenesi benché – al momento dell’indizione dei comizi - ancora non si fosse formalizzata l’adesione: per Modena-città è eletto lo stesso Luigi Carlo Farini, che poi rinuncia e lascia il seggio al marchese Giuseppe Campori; per Modena-provincia è eletto Giuseppe Malmusi; per il collegio di Carpi Geminiano Grimelli; per quello di Sassuolo Achille Menotti. Il 4 maggio Vittorio Emanuele II è a Modena mentre Cavour, da Bologna, impartisce alla flotta sabauda l’ordine di “controllare” la spedizione di Garibaldi verso la Sicilia che avvenne poi – con lo “sbarco” dell’11 maggio - nel “porto di Allah” (Marsah-el-Allah), Marsala, la città “lilibea” dei Romani) sotto protezione inglese. Zini, pago di aver insediato, da Intendente Generale (Prefetto), il primo Consiglio Provinciale e di aver gestito le operazioni elettorali, a fine maggio consegna la Prefettura al Conte Cav. Annibale Ranuzzi e prende possesso di quella di Siena.Sarà il Prefetto Ranuzzi - che rimarrà in carica sino al settembre 1861 - ad emanare - su indicazione del Farini, nel frattempo divenuto Ministro degli Interni a Torino - la circolare n° 4357 del 6 luglio 1860 con la quale impartisce ai Sindaci l’ordine secondo cui “… i Reali Carabinieri sono accasermati in un locale di proprietà del Comune e allora le condizioni dell’affitto dovranno stabilirsi fra l’Amministrazione Comunale e questa Intendenza previo parere di un Ingegnere del Genio Civile …… L’Onore delle armi ai modenesi della Brigata Estense
Per chi ama tentare di “comprendere le ragioni dell’avversario” non è troppo tardi per riconoscere l’Onore delle armi ai modenesi della Brigata Estense che seguirono – non fuggirono – l’ultimo Duca nell’inutile attesa oltre il Po. Non approfittarono dei vari provvedimenti con i quali il Regno di Sardegna prima e quello d’Italia poi consentivano agli ex nemici di arruolarsi mantenendo il grado e l’anzianità pensionistica. Non ci furono diserzioni e si congedarono solo quando Francesco V – il 24 settembre 1863 - prese atto del nuovo assetto internazionale e li sciolse dal giuramento. Una parte dei militari venne integrata nell’esercito pontificio ed in quello austriaco: non pochi di essi - soprattutto tra quelli provenienti dall’Appennino modenese - rappresentarono la prima migrazione italiana nelle Americhe, con mezzo secolo di anticipo sull’ondata biblica del primo quindicennio del ‘900.

 

Palazzo Ducale Modena

18 marzo 1860: Farini presenta a Vittorio Emanuele II l'atto di annessione dell'Emilia

Fece poi raccontare alla stampa che il Duca, in fuga, aveva "menato seco tutta l’argenteria e tutti gli oggetti di valore, lasciando vuote financo le cantine". “tra un mese non ci sarà più traccia del vecchio” scriveva l’11/9 a Rattazzi. “Ho fatto il colpo. Ho cacciato giù i campanili e costituito un governo solo …” Il 21/11860 veniva designato agli Interni.

fazzoletto rievocativo di Solferino

vedi anche gli ultimi giorni degli Estensi http://digilander.libero.it/fiammecremisi/carneade/francesco.htm   
- Nicola Raponi …. Autore del discorso della Corona anche per l'apertura della VII legislatura, il 2 apr. 1860, il 12 dovette replicare all'interpellanza Garibaldi sulla cessione di Nizza e Savoia, ribadendo la costituzionalità dell'atto e della procedura; sulla cessione intervenne ancora il 25 maggio in polemica col Guerrazzi e il 28 maggio quando la Camera approvò il trattato. Nel discorso della Corona, rivisto del resto da Cavour, aveva posto in bocca al re espressioni calorose in difesa dei principi, di libertà, di indipendenza dalla Chiesa, pur nell'ossequio alla religione e al pontefice, e un chiaro impegno a porre mano al nuovo ordinamento dello Stato. Intervenendo in un dibattito alla Camera nel quale deputati della Sinistra avevano posto il problema del decentramento e delle autonomie locali, il 13 giugno il F. rispose a nome di Cavour, pronunciandosi "in favore di un rispettoso processo di unificazione (* Noi siamo unificatori giudiziosi, non violenti conquistatori). Egli aveva infatti già presentato un disegno di legge per l'istituzione di una commissione temporanea di studio presso il Consiglio di Stato per la preparazione di progetti di legge per l'ordinamento amministrativo del nuovo Regno: un ordinamento amministrativo – affermava il F. - pel quale si accordino le ragioni dell'unità e della forte autorità politica dello stato colle libertà dei comuni, delle province e dei consorzi; libertà che deve prendere il posto delle vecchie autonomie politiche spente per sempre, e bene usare in vantaggio dello stato tutti i benefizi dell'istruzione patria e del costume antico, tutte le virtù e tutti gli esiti della civiltà moderna ".  

Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana Giovanni Treccani, Roma scheda compilata da Nicola RAPONI... Entrati i Piemontesi a Napoli (il 24 (26) ottobre avveniva l'incontro con Garibaldi a Teano), il 6 novembre Luigi Carlo Farini era nominato luogotenente generale delle province napoletane. La scelta del F. a guidare una situazione così delicata e difficile come quella napoletana fu certamente suggerita, oltre che dalla carica ch'egli rivestiva sin'allora di ministro dell' Interno, dalla brillante esperienza con la quale aveva operato in Emilia dopo Villafranca e dal fatto di non esser per nulla compromesso col mondo napoletano. Ma nella difficile situazione napoletana, caratterizzata dai contrasti fra garibaldini ed esercito regio, da scontri fra i vari partiti, la situazione divenne incerta. Isolato fra le correnti ,ugua1mente avverse» dei municipalisti, fossero o meno filoborbonici, e dei garibaldini, anticavouriani, egli si appoggiò al partito degli emigrati, cioè dei liberali meridionali reduci dal Piemonte (come A. Scialoja, P. S. Mancini, R. Bonghi, G. Massari che egli chiamò a far parte del Consiglio di luogotenenza), ma senza troppo successo. Le proposte di autonomia amministrativa fatte dal F. in coerenza con il suo progetto di decentramento, mentre non soddisfacevano gli autonomisti, apparivano pericolose agli emigrati, in quanto avrebbero favorito le tendenze municipali e le tendenze separatiste, sopravvalutate, dei murattiani. "Ho trecento carabinieri e trentamila ladri ... ho distretti interi in balia dei briganti e non ho soldati da mandarci, ho centomila postulanti d'intorno, i garibaldini che ringhiano ... e credete che io ora possa speculare la perfezione delle leggi civili e la euritmia della annessione?. Anche a Cavour scriveva che se avesse avuto più mezzi - soldi e uomini capaci - avrebbe tentato una rivoluzione sociale, iniziando una politica di lavori pubblici, favorendo ogni sorta di operosità, usando ogni artificio stimolativo, creando nuovi interessi, dando un altro indirizzo alla cupidità ». Ma altri consiglieri e lo stesso Cavour esigevano piuttosto più energia contro gli avversari, municipalisti e garibaldini; accentuandosi le difficoltà e diventato più precario il suo stato di salute, a metà dicembre Cavour gli scriveva: “Per carità non lasciatevi abbattere. Curatevi, ristabilitevi e andate avanti senza troppa inquietudine ... Fate alcuni atti che indichino chiaro che si vuole unificare l'Italia, che a patto nessuno non si vuole transigere coi municipali, gli autonomisti .”. Malato, scosso per la morte dei genero e segretario F. Riccardi (22 dic. 1860), il 2 genn. 1861 era dispensato a domanda dall'ufficio di luogotenente; in sua vece fu nominato il principe Eugenio di Savoia. Cavour avrebbe detto poco dopo che l'errore del F. era stato quello d'aver trattenuto troppo il re a Napoli, il che sminuiva la sua autorità; anche la presenza di molti ufficiali piemontesi che secondo E. Visconti Venosta mostravano di pensare «che l'aver guadagnata mezza Italia [era] una seccatura e una noia aveva condizionato la sua opera (Passerin d'Entrèves, L'ultima battaglia, p. 508). II 7 genn. 1861 lasciava Napoli e un mese dopo era a Genova e poi a Saluggia. Nelle elezioni per l'VIII legislatura venne eletto, oltre che nel solito collegio di Cigliano, nei collegi di Chieti e Crescentino. Pregato da Cavour, scrisse ancora il discorso della Corona per l'apertura del Parlamento italiano (e faremo l'Italia degli italiani») e fu presente alla Camera il 13 marzo 1861 per la risposta al discorso della Corona. Dopo la morte di Cavour, scosso ulteriormente nella salute, fece in Parlamento solo qualche intervento. Dopo Aspromonte e la caduta del governo Rattazzi fu chiamato a presiedere il nuovo ministero, costituito 1'8 dic. 1862 soprattutto per iniziativa di G. Pasolini, che vi assumeva il ministero degli Esteri, e del presidente della Camera G. B. Cassinis. Il F. si apprestò a leggere il discorso di presentazione 'consunto, emaciato, cadente ... , insicura e fioca la voce * (Moscati, I ministri, P.292). II 22 marzo 1863 (ormai quasi incosciente, era stato quasi sempre sostituito alla presidenza da Minghetti) si dimise.(ndr: esiste anche un fuori onda che alle prime notizie della rivolta polacca antirussa, Farini propose al Re di inviare un corpo di spedizione in Polonia a sostegno della rivolta. Lui stesso sarebbe partito in testa alle truppe !!. La proposta, si disse, era stata fatta anche con una pistola in mano. Non c'era un attimo da perdere. Se tale versione si avvicina a una verità potrebbe anche risalire a tempi successivi alle sue dimissioni quando col Governo Minghetti si trattò veramente una insurrezione dei popoli slavi meridionali per mano di Garibaldi). Gli ultimi anni di vita si protrassero fra dolori familiari (era morta di parto la figlia Ada) e il suo progressivo declino mentale; nel delirio degli ultimi tempi gli ricomparivano alla mente i grandi eventi del Risorgimento: non con la serenità degli ultimi istanti del Cavour, bensì con fantastiche allucinazioni che lo straordinario dispendio d'energie fisiche e mentali degli ultimi anni e le difficoltà più recenti avevano propiziato. Si spense a Quarto di Genova, trasferitovi per un ultimo tentativo di miglioramento, il l° ago 1866. Morto povero, la Camera dei deputati assegnò alla vedova una pensione annua e un assegno per i servizi resi dal F. alla patria.

Scrisse Farini (attingendo alla sua anima federalista ?): «Stabiliti i limiti delle Regioni, dovranno essere determinate le attribuzioni. (...) Ogni Regione è sede di un Governatore che rappresenta il potere esecutivo con le attribuzioni: fanno capo a esso politicamente gli intendenti delle Provincie». A Farini successe poi Marco Minghetti come nuovo Ministro degli Interni, che proseguì i lavori della Commissione.

 

.. A Garibaldi occorrevano uomini, danari, armi, navi; e quanto era d'uopo fu dato. Posti a suo servigio i mezzi pecuniari che disponeva la Società Nazionale, non potendo il Governo riconsegnare a Garibaldi, senza svelare soverchio la connivenza, le armi allogate  negli  arsenali  Statali per  sequestro anteriore,  il Governo stesso comperò quelle armi medesime, sborsandone al generale il danaro per l'acquisto d'altre. Poi per ordine espresso del Ministero si trassero dall'arsenale di Modena altri fucili, consegnati in Genova. Colà, la sera del 5 maggio 1860, intorno  a mille avventurieri si radunano  alla  marina della Foce; poi alcune barche staccatesi dalla spiaggia, avvicinati chetamente i due piroscafi, il Lombardo ed il Piemonte giunti da Tunisi, gettano sulle due navi a una mano Garibaldini.  Parve  ardito colpo di mano ma erano  navigli comprati. Medici, trattato l'affare col proprietario Rubattino, eransi accordati sul prezzo. Rubattino, consapevole dell'uso che si voleva fare delle sue navi, rifiutava però consegnarle senza pagamento sopra la semplice firma Garibaldi. Fatto intervenire Farini, allora Ministro  dell'Interno, e  non  bastando,  fu d'uopo volgersi al Re, a guarentire a sua volta il Ministro. L'atto di vendita de' due bastimenti, stipulato in Torino presso il Notaio della Casa Reale, sottoscrissero: Medici per Garibaldi, Ricardi per suo suocero il Farini, il generale Saint-Frond, Aiutante di campo del Re, per Vittorio Emanuele (hanno usato il fondo nero costituito forse col saccheggio?). Subito dopo la fine della spedizione dei mille Farini si recò al Sud per gestire l'annessione del Mezzogiorno allo Stato sabaudo. Rimase celebre il giudizio piuttosto feroce sulla città e sui suoi abitanti che riportò in uno dei suoi resoconti al presidente del Consiglio, Cavour: « Altro che Italia! Questa è Africa [sic]. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile. »

 Nella seduta del 28 novembre 1860, Minghetti sostenne che si potevano decentrare almeno 4 Ministeri: Interni, Istruzione, Lavori Pubblici, Agricoltura. Eravamo lontani dal federalismo, ma era un passo avanti ?. Il vero motore dell’iniziativa, Cavour, morì di febbre improvvisa il 6 giugno 1861. Conclude Fracassetti: «Gli studi delle Commissioni e il Progetto di Legge Cavour-Farini-Minghetti sul decentramento amministrativo dello Stato si arenano e muoiono in coincidenza con la morte di Cavour». Il convegno segreto http://www.provincia.bologna.it/probo/download//Provincia_oggi/Cultura/150Anni-Nascita-Lira.pdf  

...Occorre che cambi tutto, perché non cambi niente! (Il Gattopardo - Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

     
Regione Abitanti stimati prima del censimento del 1861 !!

voti a favore

voti per un Regno separato* o contro

%o  (per mille) dei    no*(fra parentesi gli astenuti)

   
         
Lombardia 3.150.000 561.000 681

   1,21 

Ducati Parma, Modena + territori Papato* Bologna  e Romagna 2.100.000 427.512 756

   1,77

Toscana* 1.900.000 366.445 14.925 38,62   (5.000 ca)
Umbria* 1.350.000 97.040 308 3,17   (25.292 ca)
Marche* 133.765 1.212 9,06   (77.000 ca)
ex Regno Due Sicilie 9.000.000

 

17.500.000

1.302.064 10.302 7,91  (480.000 ca)
Sicilia solo Isola 432.053 667 1,54   (10.000 ca)
Totali ca. 3.320.000 29.000 (598.000)

Gli analfabeti dichiarati in Italia al primo censimento del 1861 erano ca. il 75% con punte di oltre l'89% nel sud, e nelle isole. Le percentuali più basse, sotto il 54%, in Piemonte, Liguria e Lombardia. Ma la diffusione non era solo fra Nord e Sud ma anche fra città e contado dove risiedevano i 3/4 della popolazione e fra uomini e donne. Non si esclude che analfabeti abbiano votato sia a Nord che a Sud per una cosa che "faticavano" a capire. La percentuale di Firenze è spiegabile con quanto detto più sopra. A cose fatte quindi i plebisciti vennero convocati per sanzionare quello che era già stato fatto*** e deciso.

Una prima osservazione riguardo tali plebisciti risale alla «curiosa» circostanza per cui, mentre essi furono realizzati sulla base del suffragio universale maschile e femminile (analfabeti e non), in seguito le leggi elettorali e ordinarie del Regno continuarono impassibilmente, nonostante il progressivo aumento della popolazione interna, a far perno sull’estremamente selettivo «suffragio censitario».

 

Con la firma della pace il Veneto (1866) passa alla Francia !!! che lo cede all'Italia !!!!. Ciò non ci esimeva dallo sborsare 97 milioni di vecchie lire per ripianare un presunto debito pubblico Asburgico in quota alla regione italiana (risparmiammo forse sulla vecchia proposta austriaca !? ma non sulla figura di m..). Nel 1860 in ognuna delle regioni liberate si era   svolto un plebiscito (non a suffragio universale ma neanche censuario e in Sicilia al termine della campagna di Garibaldi) con i risultati a fianco esposti. Una certa opposizione (legittimismo) doveva pur sopravvivere nei territori conquistati e, se escludiamo la Lombardia da lunga data antiaustriaca (non per questo monarchica), risaltano i pochi no dell'Emilia ottenuti con imbrogli (ma per questo non c'era bisogno che ce lo dicesse "gola Profonda"). Subito nell'estate del 1859 a ferro caldo s'erano tenute consultazioni: Parma il 14 agosto 1859 aveva votato "si" con espressione del voto, la Toscana lo aveva fatto a mezzo di una assemblea, a Modena altrettanto, ma tutte queste deliberazioni erano state ritenute "nulle" formalmente. Arriviamo quindi al 1860 dove la sola Sicilia è comparabile con L'Emilia nella percentuale dei no. Alla luce di quanto detto sotto andrà a votare SI al plebiscito gente che poi sarà esclusa dalle liste elettorali  Incredibile ma vero !!!!.. E' come se nel 1946** le donne che votavano al referendum Monarchia Repubblica poi fossero escluse dalle politiche come prima (**Il Consiglio dei Ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò il 2 febbraio 1945 un Decreto legislativo luogotenenziale (n. 23) che riconosceva il diritto di voto alle donne).

 La seconda, ovvia, considerazione che può essere svolta sugli stessi è che, essendo la procedura plebiscitaria attivata da chi deteneva ormai il potere al fine di trasformare un consenso presunto in un consenso attivo, essa facilmente non avrebbe potuto avere esito negativo. «Il risultato, commenta Silvano Montaldo, era quindi in gran parte scontato, dato il diretto controllo esercitato da Torino e l’assenza di ogni opposizione organizzata, con la libertà di stampa ripristinata solo qualche giorno prima del voto e l’impegno delle autorità locali per evitare manifestazioni antiunitarie». In Toscana la Società Nazionale assunse infatti il controllo del Granducato senza alcuna difficoltà; a Parma il duca lasciò la città in mano a una Commissione di Governo, che assunse il potere in attesa di cederlo al re di Sardegna. Nelle Legazioni pontificie di Romagna, la partenza da Bologna delle truppe austriache fu seguita da una sollevazione popolare che offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II. La stessa cosa avvenne a Ravenna, a Forlì e a Ferrara. Anche le Marche e l’Umbria insorsero, ma qui le truppe pontificie reagirono, recuperando le due regioni. In Toscana furono fatte le elezioni nell’agosto 1859 e la nuova Camera dichiarò decaduta la dinastia dei Lorena, votando l’annessione al Piemonte. La stessa cosa fecero i Ducati padani e le Legazioni di Romagna. Vittorio Emanuele II accolse a Torino le delegazioni che offrivano le annessioni votate dai governi provvisori. Il popolo siciliano fu chiamato invece il 21 ottobre 1860 a esprimere, ex post, il suo voto, dato che, una settimana prima che si tenesse il plebiscito, il 15 ottobre, il dittatore Giuseppe Garibaldi (1807-1882) stabiliva, con proprio decreto, che le Due Sicilie facevano parte integrante dell’Italia .. Giuseppe Brienza dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale (area cattolica antirisorgimentale collabora con le riviste “Nova Historica”, “Studi Cattolici”, “Radici Cristiane”, “Fides Catholica”, “il Borghese”, “Divinitas”)  

Nel gennaio 1861 si tennero invece le elezioni per il primo parlamento ( e il primo censimento). Su poco più di  25 milioni di abitanti (bisogna aggiungere al totale a fianco quelli del Piemonte) interessati dal fenomeno unitario (restava fuori il Lazio e il Triveneto), il diritto a votare fu concesso però dai nuovi governanti solo a 419.938 persone (circa l'1,8% e non il 23% ca dei virtuali partecipanti ai plebisciti), sebbene soltanto  239.583  si  recassero poi a votare. Alla fine i voti validi delle elezioni si ridussero a 170.567 che al netto dei 70.000 impiegati statali (Militari compresi) fanno 100.000 italiani comuni contro 3.320.000 SI !!!!. Vengono quindi eletti alla camera 85 nobili (fra principi, duchi e marchesi), 28 ufficiali, 72 fra avvocati, medici ed ingegneri !!! 

Spunti del testo sono stati tratti anche da  http://eleaml.altervista.org/sud/stampa2s/01_Rivelazioni_ed_altri_documenti_inediti_riguardanti_la_rivoluzione_italiana.html  organo del sud libero e da http://www.palazzo-loup.it/italiano/storiaconvegno.htm il libro -LA VERITA’ - sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia (sottotitolo Rivelazioni di JA agente segreto del Conte Cavour) di Elena Bianchini Braglia, edito da -Terra e Identità Via Prampolini 69 - Modena è venduto dal Centro Studi Risorgimentali : info@centrostudirisorgimentali.it  e da Quaderni Padani n. 63 genn/febb 2006 pag. 27 organo Bimestrale de "La Libera Compagnia Padana"  

Anni dopo quando venne introdotta la tassa sul macinato (1868) qualcuno si ricordò del plebiscito, della sua esecuzione e dei risultati opposti alle previsioni. Ne nacquero disordini concentrati proprio in Emilia a Gattatico e Campegine, a Soragna e Fidenza di Parma e a S. Giovanni in Persiceto di Bologna queste due fuori dagli ex possedimenti estensi. Alla fine degli scontri con l'esercito si contarono 257 morti e oltre 1000 feriti. Nelle legazioni (ex romagna papalina) si arrivò ad inneggiare al Papa, all'Austria del buon governo e perfino a Francesco V di Modena nei suoi ex territori.  Il 21 agosto 1859 - L'assemblea Modenese, eletta sulla base di una legge elettorale (locale) che concede il diritto di voto a tutti i cittadini, maggiori di 21anni che sappiano leggere e scrivere, aveva deliberato all'unanimità l'unione delle province modenesi al Regno di Sardegna. L’11 e 12 marzo 1860, a riprova del desiderio di cambiamento i "modenesi" andarono a votare per l’annessione lasciando nell'urna 50012 si contro 77 no, rappresentando un vero e proprio plebiscito.

Domanda: Ma chi era andato a votare nel 1860 se ora (1868) erano filo ducali e filo papali ?

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Dei plebisciti poi troverete anche altre versioni, l'ultima l'ho letta sul Resto del Carlino del 10 marzo 2010 a firma di un politico trombato della 1a Repubblica uscita da mani pulite, l'ex deputato dei liberali Antonio Patuelli. Credo che i liberali si sentano ancora eredi depositari della costruzione del risorgimento (sempre che gli italiani se ne siano accorti e che usufruiscano dei benefici di cui gode lui).Chi non conosce Patuelli può desumerlo dal profilo di Repubblica - Pochi ricordano Antonio Patuelli, vicesegretario del partito liberale: proprietario terriero e imprenditore agricolo, approdò per la prima volta alla Camera nel 1983 e ora, a 56 anni, con dieci annualità di contribuzione (ndr: 2 legislature e mezzo per 7,5 anni pari a 1/5 di quanto occorreva a un italiano per la pensione), prende un vitalizio (pensione) di 4.725 euro !!!. Che cumula agli introiti di .....Presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna; vicepresidente della Banca di Imola, della Fondazione Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lugo, dell'Associazione fra le Casse di risparmio italiane e dell'Associazione bancaria italiana; nonché consigliere della Cassa di risparmio di Firenze e del Cnel: "I diritti acquisiti non si toccano", tuona Patuelli: "Io non ho altra garanzia pensionistica che quella parlamentare. Quanto al cumulo, chi si scandalizza dovrebbe guardare altrove, a cominciare dai parlamentari pensionati che hanno ruoli di governo". Fonte l'Espresso Repubblica on line del 15/2/2007. Ma questo è un altro risorgimento ancora da scrivere.

Considerazioni finali: Morire povero dopo aver rubato è una contraddizione e non ci sarebbe motivo che Raponi, di tanti "figuri"del risorgimento, facesse morire povero proprio e solo lui per attirargli la compassionevole solidarietà per la sua pazzia poi per la passione (giusta o ingiusta) spesa per la causa. Di "figuri" è piena la storia risorgimentale. O si ruba per se o per qualcun altro, insegnava la storia recente (dubbio già espresso sopra). Ora tocca ad altri spartire la verità dopo i pentiti e le gole profonde. Dopo 150 anni in questo paese sembra che non sia cambiato nulla ossia.......Occorre che cambi tutto, perché non cambi niente! (Il Gattopardo - Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

***Nota: Nella pratica il plebiscito è stato usato storicamente più volte (fra cui l'elezione a imperatore di Napoleone III) per avere una convalida popolare a situazioni di fatto, con votazioni spesso dall'esito scontato, da cui il termine plebiscitario è entrato nell'uso comune per indicare un voto a larghissima maggioranza, la maggior parte delle volte ottenuto con mezzi non democratici, con violenze o brogli. Vi ricorse anche Benito Mussolini nel 1928 per far approvare la lista unica bloccata di candidati alla Camera dei fasci e delle corporazioni. Deriva dal latino plebs-plebis ("plebe") e scitum ("deliberazione", "ordine").