Eugenio De Rossi

Eugenio De Rossi proviene da antica famiglia piemontese che ha militato nel tempo nell’esercito savoiardo (Giovanni Giacomo De Rossi, capitano del reggimento Guardie di Vittorio Amedeo II, e il figlio Gian Giacomo, generale sotto lo stesso Duca). De Rossi frequenta la Scuola Militare di Modena e nel 1881 ne esce sottotenente di fanteria, assegnato al 26° reggimento di stanza a Torino. Nel 1889 viene ammesso alla Scuola di Guerra di Torino. Completati brillantemente i corsi nel 1891, entra a far parte del Corpo di Stato Maggiore con la possibilità di incontrare i futuri responsabili della Grande guerra come Cadorna e Capello. Dal 1892 è capitano e, passa ai bersaglieri. La vita di guarnigione a Pinerolo e i turni alla fortezza di Fenestrelle lo spingono a redigere una simulazione (oggi diremmo war-game) più per diletto che per effetto pratico dal titolo “Progetto francese di un colpo di mano sulle difese avanzate della frontiera italiana” !!. Il momento è buono poiché siamo ai ferri corti con la Francia tanto che la nostra alleanza è rivolta agli odiati Tedeschi. Il “Progetto” viene apprezzato dallo Stato Maggiore. De Rossi viene quindi utilizzato dall’Ufficio I dello Stato Maggiore per una serie di escursioni, nel corso delle quali può dare sfogo alla sua grande passione di ciclista (ndr. si tratta delle prime biciclette di moderna concezione, ma ci sorge anche il dubbio che non fosse il travestimento migliore poiché non doveva passare inosservato, specialmente in montagna, poi non sempre userà infatti la bici), in Savoia, Valle del Rodano e Alpi Marittime (Francia). Nel corso di queste missioni, l’ufficiale italiano, che sta anche testando la bicicletta pieghevole Gérard, osserva attentamente i movimenti di truppe francesi, le modalità operative di trasporto e mobilitazione. Anche la Svizzera e la Landswehr sono al centro delle missioni di De Rossi di questi anni (presenzia in veste ufficiale alle manovre-1912). I suoi incarichi alternati di S.M lo rendono spesso libero da impegni, così in un’altra occasione la sua escursione ha luogo in Slovenia da cui riporta interessanti osservazioni per l’Ufficio I. La prima di queste missioni ciclo-podistiche, come le ha chiamate lo stesso autore, riguardò le seguenti tappe: Pontebba – Tarvisio- colle del Predil – valle dell’Isonzo – Gorizia. Dal 1898 al 1900 è nuovamente a Torino presso il comando della locale brigata. Dopo tanti anni di servizio in periferia nel 1900 approda a Roma presso l’Ufficio Storico dello S.M. attiguo all’Ufficio I. ...

 

BIOGRAFIA: Spunti da Wikipedia:

Brescia, 12 marzo 1863 - Roma, 12 giugno 1929

(Eugenio De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, p. 151, Milano 1927.)  

Le attività di Eugenio De Rossi vengono apprezzate dall'allora CSM del R. E. Tancredi Saletta. Nell'estate del 1902 diviene capo dell'Ufficio "I" il colonnello dei bersaglieri Vincenzo Garioni e la collaborazione con De Rossi diviene ancor più assidua: in ottobre De Rossi viene promosso maggiore e l'anno dopo gli viene affidata una delicata missione in Corsica volta al consolidamento di una rete di informatori fra gli autonomisti e, subito dopo, una ricognizione in Istria, volta a fotografare le fortificazioni della zona portuale di Pola e di Fiume. Nel febbraio 1903 ottiene un comando operativo al battaglione a Milano (la routine), mentre nel giugno 1904 diviene sottocapo di S.M. del III C.d.A. di Milano. Da questo momento è stabilmente l’ufficiale di collegamento del III C.d.A. con l’Ufficio "I". Incarico che manterrà negli anni successivi, quando sarà nuovamente al comando del battaglione bersaglieri di Milano.

 

« Le mie missioni avevano tutte per oggetto o ricognizioni di lavori, o di regioni, ferrovie, porti e simili, oppure l’osservazione delle truppe, ossia del loro addestramento, del loro morale, del funzionamento dei servizii, del retroscena cioè delle manovre dove veramente si scorgono i pregi e i difetti degli organismi militari. Ebbi pure incarico di trovare “indicatori” all’estero fra i nostri connazionali; ma questo feci in verità con poco entusiasmo. Per altri incarichi di polizia militare e di vero spionaggio, vi era uno speciale apposito personale, con il quale non ebbi mai rapporti. L’Ufficio Informazioni ricorreva alla abnegazione ed alla buona volontà di una dozzina di ufficiali, animati come me da spirito avventuroso e dotati di particolare attitudine, che tratto tratto partivano in caccia. La calma, la decisione pronta, il talento di osservazione, una salute di ferro, lo sprezzo delle comodità, una grande facilità di adattamento sono indispensabili in questi pericolosi servizi. Queste doti sono innate e non si acquistano con lo studio o l’esercizio, tuttavia anche i favoriti dalla natura abbisognano di un noviziato e di conoscere il tecnicismo dirò del servizio, inteso a prevenire ed evitare od affrontare serenamente la probabilità di un arresto, probabilità che crea nell’operatore uno speciale stato d’animo apprensivo che assolutamente conviene vincere, se si vuole un rendimento proficuo della ricognizione. » 

Nel settembre 1905 osserva sempre in incognito le grandi manovre austro-ungariche tenutesi in Trentino

« In queste manovre ciò che mi aveva colpito era la grandiosa e minuta preparazione ferroviaria per il concentramento e lo scioglimento dei Corpi, a compiere le quali operazioni si erano raddoppiati binari, allargate stazioni, creati parchi vagoni, messi nuovi rifornitori, costruiti chilometri di piani caricatori, ecc. ecc.: lavori sproporzionati alla entità dei trasporti. Si trattava di concentrare 30.000 uomini con i servizii, i preparativi avrebbero potuto servire per 400.000! ed erano tutti lavori di carattere permanente, del costo di parecchi milioni, più di quanto fosse impostato per le manovre stesse sul bilancio della guerra. Mi balenò allora l’idea che quelle grandi manovre fossero il paravento, il pretesto per nascondere e spiegare il raddoppiamento di potenzialità ferroviaria, compiuto in quella zona di radunata per l’esercito austriaco, secondo le idee del tempo, in caso di guerra contro l’Italia. […] Indebitamente l’accrescimento quasi clandestino della produttività ferroviaria in questa zona strategica è ciò che di tangibile, duraturo e minaccioso per noi, rimane delle loro grandi manovre.  » (E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, p. 151, Milano 1927.).

 
..Di questi anni infatti la più assidua collaborazione con l’Ufficio I. Le sue missioni vengono concentrate nell’Impero Austro-Ungarico. Erano gli anni del piano di Alfred Von Schlieffen ex C.S.M. tedesco nel 1909 (..... A tempo debito caleremo i ponti levatoi. Si spalancheranno le porte ed eserciti di milioni di uomini si lanceranno saccheggiando e distruggendo oltre i Vosgi, la Mosa, il Bug (Russia), il Tirolo e l'Isonzo) poi di quello Conrad (Franz Conrad von Hötzendorf, C.S.M. austro-ungarico). Il rafforzamento del nodo ferroviario di Klagenfurt in Carinzia aveva come principale scopo, in caso di guerra con l’Italia, quello di poter riversare ad occidente un numero gigantesco di reggimenti di artiglieria e cavalleria, previamente schierati nel dispositivo offensivo orientale dell’Impero. Dopo il rapporto allarmante di De Rossi, lo S.M. italiano decise di spedire De Rossi nell’ottobre 1907 in Galizia (Rutenia e Transilvania austriaca) al fine di indagare. Questa fu una delle poche missioni in cui l’ufficiale italiano non poté avvalersi dell’amata bicicletta: doveva fare una ricognizione su chilometri di ferrovia. Ebbe quindi modo di visitare Cracovia, Tarnow, Przemysl, Lemberg, Czernowitz, Presburgo eBudapest individuando di volta in volta possibili informatori, definendo la consistenza delle truppe di stanza e valutando le infrastrutture ferroviarie. Egli individua infatti come possibili informatori i venditori italiani di vino (Grossisti) che forniscono anche le caserme. Dal consumo (razione giornaliera) è facile desumere il numero dei soldati. Diverso il caso del consumo fuori caserma che sembra anche questo gestito da molti italiani in loco. Nel gennaio 1908, De Rossi è promosso tenente colonnello ed è trasferito al 11° reggimento bersaglieri di Ancona anche questa piazza privilegiata per lo spionaggio oltre adriatico. Nella primavera dello stesso anno, gli viene ordinato di predisporre un piano per la costituzione di una rete di indicatori in Venezia Giulia e Dalmazia, finalizzato ad osservare i movimenti di truppe e delle navi. Grazie a questi informatori (pescherecci italiani e flotte di contrabbando) viene a conoscenza delle frequentazioni omosessuali a Venezia del colonnello Alfred Redl, il direttore reggente dell'Evidenzbureau e se ne serve quando il nuovo capo dell’Ufficio "I", il colonnello dei bersaglieri Silvio Negri viene fermato, lui il capo, dalla polizia a Lubiana in una delle sue scorribande “eroiche” in territorio straniero (aveva il vizio di pensare di essere in un romanzo di cappa e spada  M. Mongai)  

1908 battaglione ciclisti

Dal libro di Massimo Mongai "Cronache non ufficiali di due spie italiane" – pag. 304 segg.  

 

- Generale, disse De Rossi, io un‘idea ce l’avrei, ma vorrei sapere se lei me la raccomanda.
Me la feci esporre e devo dire che era decisamente una bella idea. Dunque. Il De Rossi nel corso di un‘altra missione affidatagli proprio da Negri un po ‘ di tempo prima, si era recato nel Friuli prima e a Trieste poi, per vedere se vi era la possibilità di organizzare un “reseau” investigativo nella zona: una rete, dei contatti, dei collegamenti. Portandosi appresso due lire e molte sciocche istruzioni da parte dello Stato Maggiore: rivolgersi a patrioti italiani irredenti e via di questo passo. Figurarsi! Nel corso di quella “scorreria” il De Rossi aveva invece identificato nei camerieri delle navi che facevano la spola fra Venezia e Trieste le persone adatte alla bisogna: poliglotti, al centro degli spostamenti di tutti, sempre a contatto con ricchi, potenti e militari, inevitabilmente portati a origliare, spie naturali per così dire; ma purtroppo venali. In realtà dovrei dire: e per fortuna, venali. Ma suona male, nevvero? Ne contattò comunque vari, e uno di questi, che voleva essere pagato per la merce sua, ne parlò, un po‘ a vanvera, vendendo la merce prima di sapere se sarebbe stato pagato.
Ordunque la merce, molto preziosa, era questa: il colonnello Redl, capo del Servizio Informazioni Austriaco, si badi bene, non un ufficiale qualunque, avrebbe per amante un giovane ufficiale degli ussari. La cosa in sé ovviamente è notizia ghiotta per le gazzette, che peraltro non potrebbero pubblicare siffatte notizie oscene e scandalose, come verrebbero definite dai direttori ipocriti di quelle stesse gazzette. Buone quindi per i pettegolezzi dei salotti della nobiltà, che finge di sorprendersi del fatto che vi sia sodomia fra i soldati. Sarebbero realmente sorpresi semmai di quanta ve ne sia, ma questo è altro discorso.
La notizia interessante ai nostri fini, e bene aveva fatto De Rossi a notarla, è il fatto che il loro luogo abituale di frequentazione (del Redi e del suo ussaro) sarebbe Venezia. D‘altra parte, città romantica, adattissima, e di grande fascino per le cose d’amore (foss‘anche di quelle uraniste), fascino di cui io per primo fui vittima. De Rossi, di sua iniziativa, ha seguito questo filo investigativo negli ultimi mesi ed è riuscito a scoprire non solo tutto ciò esser vero, ma per di più i luoghi degli appuntamenti, che sottopose a stretta sorveglianza da parte dei regi carabinieri. Orbene, in questi giorni sono entrambi, Redi e il suo amante, a Venezia, motivo fra l’altro per cui gli uomini del Redi non lo hanno ancora potuto raggiungere per avvisarlo del fermo di Negri e per chieder loro se trasformarlo in arresto o meno.
De Rossi concluse:
 

Pericle Negrotto

— Ecco, signore, lei pensa che noi si possa... organizzare uno scambio? O in mancanza, fare pressioni?
Io lo guardai perplesso e dissi:
— Ma, da dove vi viene il dubbio?
— Non so, mi sembra, ecco, cosa delicata... — rispose.
— Perché esitate? Codesti signori non esiterebbero se fossero loro al posto nostro. Cosa credete, che lo spionaggio sia una sorta di lotta fra cavalieri?
— No, certo, ma... infine, si tratta di vero e proprio ricatto!
Lo guardai stavolta basito, poi esplosi.
— De Rossi! Ma cosa fa, vaneggia?Il gesto più scorretto che si può fare, foss‘anche in guerra, è ammazzare la gente! Oltretutto non le sto mica dicendo che debba strombazzare la cosa ai quattro venti! Anzi, semmai tutto il contrario. Nessuno sappia niente, mai! Ma ora s‘affretti, presto, organizzate 1’arresto di Redl e dell‘ussaro, immediatamente!
— Ma mi aiuti, signore, con quale motivazione?
— Ma lei è pazzo? Nessuna motivazione, null‘altro che una pistola puntata alla tempia! O pensa che andremo in tribunale? Cos ‘è, crede di essere in un romanzo o in un ‘operetta?
Ci trasferimmo al Ministero per tre giorni, dato che è li i dispacci telegrafici arrivavano direttamente, senza passare per un normale ufficio postale.
De Rossi parti subito e devo dire che la fece fina. L’amante di Redi era all‘indirizzo che De Rossi aveva, ma Redl era appena partito.
De Rossi mi raccontò poi di essersi recato all’albergo (in compagnia di un ufficiale dei carabinieri della locale tenenza, suo contatto in zona, amico personale e persona discreta, oltre a una decina di militi in borghese), e di avervi trovato l’ussaro mentre faceva colazione. Di esserglisi seduto innanzi con l’ufficiale dei carabinieri e di avergli chiesto, con molta cortesia, senza alludere a nient‘altro, di firmare un messaggio a Redl in cui spiegava la situazione in breve e chiedeva di rilasciare immediatamente Negri; o sarebbe stato arrestato lui.  “Con tutte le conseguenze possibili e immaginabili” diceva il testo alla fine, e “tutte” era sottolineato.  Fu tutto fatto e tutto andò a buon fine.
 

Sue opere oltre al citato

L‘ussaro firmò. Il dispaccio parti con corriere diplomatico e fu consegnato a Redl. Negri raggiunse il confine e rientrò in Italia. De Rossi era al varco di frontiera per esser ben sicuro di veder rientrare il suo superiore, ma vi era nascosto e in incognito. Gli avevo consigliato di non farsi vedere e di non accennare mai al fatto. Che Negri credesse di esser stato rilasciato per chissà quale motivo e non se ne parlasse più!
Lui stilasse un rapporto sulle tendenze del Redl e lo facesse archiviare di modo che la debolezza del nemico restasse agli atti, ma mai rivelare ufficialmente a nessuno che essa fosse già stata usata e soprattutto perché.
Non la vedo bene per il Servizio Informazioni Austroungarico con un capo cosi.
Non so bene cosa pensare degli omosessuali. Non riesco a credere siano dei pervertiti nel senso vero del termine, come i sadici o coloro che insidiano i bambini. Ne ho conosciuti di assolutamente cortesi, ben educati, colti e intelligenti: brave persone insomma, spesso bravi soldati per strano che possa sembrare. Essendo cose onnipresenti nella storia di ogni paese non posso che pensare che, pur devianti dalla regola, una loro regola l’abbiano: che siano cose di natura, e non contro natura. Purtroppo costoro, a causa delle loro tendenze, tendono a farsi degli amanti prezzolati, e sin qui poco male, la medesima cosa la fanno molti ufficiali con le lor mantenute. Ma praticamente nessuno è ricattabile perché ha una amante (a meno che non sia un cardinale! Epperò solo dentro il Conclave), mentre i sodomiti, beh, hanno ben poco spazio di manovra. Per questo ho detto chiaro e tondo a De Rossi che questa debolezza non solo va ricordata, ma alla prima occasione va sfruttata. Nel mondo d’oggi non si va più alla guerra cavalcando bianchi destrieri e indossando immacolate armature. La debolezza di Redl è una debolezza del suo paese. Egli dovrebbe avere l’intelligenza e il coraggio di dare immediatamente le dimissioni e coltivare il suo vizio fra le mura di casa sua, ma non esporre l’intero esercito austriaco al rischio di una sconfitta solo perché lui è ricattabile! Appendice Roma, Agosto 1913 E’ giunta notizia che il colonnello Redl si è suicidato. E sembra veramente una fine scritta da un cattivo drammaturgo moralista! Era stato scoperto colpevole di un traffico di segreti militari del suo paese con i russi. Traffico per il quale Redl chiedeva denaro, si badi bene. Arrestato nel suo albergo gli è stata data solo l’alternativa fra uno scandaloso processo e una onorevole via d’uscita. Ha scelto la seconda. E pensare che era stato nominato recentemente capo di Stato Maggiore della VII armata! Che errore! Suo e di altri

continua biografia

 
Nel 1908 viene anche annessa all'Austria la Bosnia Erzegovina senza farne preventiva parola con l'alleato italiano che nei piani austriaci resta sempre il "nemico" !!!. Nell’estate De Rossi vince la cattedra di storia militare alla scuola di guerra di Torino. Nell’autunno 1910 viene spedito dall’Ufficio I a fare delle ricognizioni sul traffico dai porti turchi al Nord Africa, in vista del rafforzamento del sistema difensivo ottomano in Libia e quando scoppia la guerra è in Tunisia per osservare le mosse dei nostri “amici nemici” francesi. Alla fine del 1912 diviene Comandante in seconda della Scuola di Guerra e viene promosso a colonnello con comando al 12° reggimento bersaglieri di stanza a Milano, alla Caserma Teulié di corso San Celso, ora corso Italia. L'eclettismo di De Rossi non si limita alla passione per la storia militare ed a quella per l'intelligence. L'ufficiale dei bersaglieri ha trasformato in prezioso strumento di lavoro il proprio amore per il ciclismo. Con l'approssimarsi del conflitto europeo, è altresì fautore di un impiego bellico di nuovi reparti a cavallo della bicicletta: ottiene quindi la creazione del battaglione bersaglieri ciclisti. Questa unità è inizialmente composta da persone dall’incerto passato nella vita civile che, a detta dello stesso De Rossi, «conveniva condurre con mano di ferro». E’ qui in questo reparto alla “legione straniera” che fa coppia con un altro scavezzacollo il suo sottoposto tenente colonnello, Michele Pericle Negrotto che ha “arruolato tutti gli irredenti dalmati e istriani” nei battaglioni goliardo-studenteschi del “Sursum Corda”. In queste unità militeranno all'inizio della Prima Guerra Mondiale Achille Funi, Anselmo Bucci, Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Russolo, Mario Sironi, Antonio Sant'Elia, Carlo Erba, Ardito Desio e Ugo Piatti. Lo stesso Negrotto esegue molte ricognizioni oltre confine. Lui esperto di cose militari ha occasione di verificare come l’opera nostra fuori dai confini sia stata compensata dalle difficili popolazioni slovene del Friuli orientale da cui a suo tempo ricevette anche sassate.  

La campagna del 1908 sulle alpi occidentali (1897 relativa ai suoi avi)
LA GUERRA IN VALLE DI DORA RIPARIA  1899
La guerra d'inverno sulle Alpi. L'offensiva in Savoia. Campagna del 1793. Rivista Mil. Italiana, anno 1901. L'assedio di Portoferraio 1801-1802. Roma, Enrico Voghera, 1904. "Rivista di Artiglieria e genio", vol. 1 Il 111° di linea dal 1800 al 1814 conosciuto nella Grande Armata con il nome di Régiment des trois piquets, per l'effetto che quei tre 1 producevano sul davanti dello shakò. Era anche soprannominato Régiment des i, a causa del cognomi dei suoi componenti, quasi tutti terminanti con quella vocale. Era infatti composto interamente da italiani, la massima parte dei quali piemontesi. Monografia del T.Col. dei bersaglieri E. De Rossi – Scuola di guerra 1912
Il Corpo dei Reali Carabinieri nei rivolgimenti politici del 1821, in "Il Risorgimento italiano, Rivista storica", anno V, n. 1 - febbraio 1912, pagg. 1 - 48, T.Col. dei bersaglieri E. De Rossi

Antonio Sema Piume a Nord Est pag. 38 e segg,  

La battaglia del Mrzli che segnerà la fine della sua carriera e anche la sua fine terrena dopo anni di sofferenza è stata raccontata alla pagina  http://digilander.libero.it/fiammecremisi/guerra1/152.htm  Nominato Grande invalido di guerra, De Rossi va a riposo. Candidato alle elezioni del 1920 a Milano ottiene 2.800 preferenze. Muore nel 1929

“Una lezione ad alcuni austriacanti di Villesse”. Era Villesse subito oltre l'austriaca Cervignano (sulla strada per Gradisca), un contesto difficile, la cui complessità emergeva appieno proprio verificando le diverse accezioni del termine “austriacante”. Dalmazzo lo scriveva nel 1934, e poteva sorvolare su quanto era accaduto, ma un professionista dei servizi informativi come De Rossi aveva subito percepito come la situazione, anche dalla parte italiana del confine, fosse ulteriormente peggiorata rispetto alle sue esperienze oltreconfine d’inizio secolo. Poco prima dell’attentato di Sarajevo egli aveva eseguito una ricognizione al confine nordorientale. Giunto a Matajur, “villaggio sloveno, ultimo paese nostro verso l’Est”, incontrò il locale curato, un prete sloveno che “fece dichiarazioni di lealismo verso l’Italia, e contemporaneamente di esaltato patriottismo sloveno”, sostenendo che “la razza era ancora in letargo, ma il fermento già lavorava”. Tra gli elementi “risvegliatori”, ovviamente, c’era il clero sloveno.  
Fin dall’inizio, dunque, De Rossi aveva incominciato a valutare la situazione locale con l’occhio disincantato dell’analista strategico. Non si stupì nemmeno quando ad aprile del 1915 il suo reggimento fu spostato in Friuli, nei pressi di Ziracco, località fra Udine e Cividale di proprietà “quasi tutta” di una contessa, vedova della Torre, ma “del ramo austriaco di quella famiglia”. La nobildonna, di nazionalità ungherese, viveva a Gorizia, e poiché nel suo castello si installò il comando del 12° reggimento bersaglieri, già al secondo giorno la gentile signora era ritornata alla magione all’insaputa di De Rossi e aveva incominciato a ispezionare le camere degli ufficiali utilizzando una serie di passaggi che consentivano di arrivare nelle stanze da più parti. Così la suddita austriaca aveva potuto curiosare nella stanza di Negrotto, esaminando le sue carte, tra cui una carta 1: 500.000 su cui l’ufficiale “aveva fissati i suoi segni strategici”. E per quanto De Rossi intimasse alla signora di far rientro al castello solo dopo aver chiesto l’autorizzazione al posto di guardia, la contessa rispose subito che, a causa di certe pendenze con i suoi contadini, “sarebbe stata costretta ad andare e venire ancora con l’auto da Gorizia”. Nulla di importante, certo, ma indicava il controllo a cui erano sottoposti i militari italiani e, nel contempo, la loro assoluta ingenuità alle sottigliezze della guerra in una zona multietnica di confine, nonostante la conoscenza diretta delle problematiche nazionali. Pesava molto, probabilmente, anche lo stress a cui erano sottoposti gli ufficiali incaricati di organizzare tutto il necessario per la guerra. Una lettera di Negrotto del 10 maggio consentiva di apprezzare il sovraccarico di impegni che gravava negativamente sui comandanti alla vigilia dell’apertura delle ostilità. Egli confessava di essere “sotto la pressione di un lavoro enorme” che non gli dava tregua dalla mattina alla sera: “Ho adesso”, scriveva l’ufficiale, “anche il comando interinale del reggimento e del presidio di questa città di frontiera (S. Pietro al Natisone, N.d.A.) e fra la cura di una intensiva istruzione dei battaglione, le escursioni lungo le frontiere, gli impianti logistici, telegrafici, ecc., ed una corrispondenza senza fine coi vari Comandi, vi assicuro che viene quasi a mancarmi il respiro”. A un più attento esame, la “contadinanza” del luogo risultò “chiusa e diffidente”. In fondo, l’Austria era andata via appena nel 1866, troppo poco per essere dimenticata: secondo De Rossi, da quelle parti “pullulavano le spie” e gli italiani erano visti come degli intrusi. Un giorno gli capitò di osservare che i raccolti promettevano bene, e un vecchio vetturino prontamente lo rimbeccò: “lo raccoglieranno quelli di là dei monti...”. L’ambiente etnico era dunque molto distante dalla oleografia irredentistica: più propriamente, a un movimento nazionale italiano in territorio austriaco si contrapponevano di fatto un movimento nazionale sloveno e un lealismo asburgico in terra italiana, variamente camuffato, con negativi riflessi sulle condizioni di sicurezza delle truppe italiane. In terra di confine poi, la situazione era ancora più pesante, soprattutto sul medio e alto Isonzo. Ancora il 20 maggio, il 12° bersaglieri era costretto a eseguire le ricognizioni al confine, dalle parti di Cepletischis, utilizzando come interpreti “un drappello di alpini sloveni dell’8° reggimento” !!!. Oltre alle difficoltà di orientarsi fra popolazioni che affettavano di non conoscere l’italiano, ve n’era una supplementare: in determinati settori di fronte, il controllo ottico a.u. sulle unità italiane era pressoché totale.  

Ferimento del Col. De Rossi

Il 12° bersaglieri, in particolare, era dominato a meno di 500 metri dagli osservatori a.u. sul Monte Kuk. “Non potevamo fare un passo”, riconobbe De Rossi, senza che gli austriaci del Kuk “ne fossero avvisati”. E quando varcarono il confine, e giunsero nei campi di Luico, trovarono i contadini che lavoravano la terra. In gran parte donne, vecchi e ragazzi, ma non mancavano uomini in età di leva. De Rossi interrogò un reduce dalla Galizia, poi lo lasciò andare ma, riconobbe, “feci male. Molti altri di quei riformati”, aggiunse, “erano in val d’Isonzo, ma la ferita non impedì loro di appiattirsi tra le rocce e sparare a tradimento sui nostri”. Tra l’altro, secondo De Rossi, “parecchi” dei così detti “cecchini” erano formati proprio da riformati lasciati indietro nelle terre destinate all’occupazione italiana, confusi tra la popolazione civile . A cose fatte, sarebbe stato lo stesso governo italiano, il 14 giugno, a emanare un comunicato ufficiale per sostenere come dato “ormai certo” che nei territori occupati dall’Italia l’Austria aveva lasciato “suoi emissari col mandato di esercitare il brigantaggio al doppio scopo di molestare le nostre operazioni e di provocare dolorosi atti di repressione a danno delle popolazioni”. In particolare, si trattava di uomini del Landsturm (milizia territoriale), di gendarmi e di guardie forestali, “naturalmente travestiti, che dispongono di armi e munizioni d’ordinanza e che sono stati pagati dal Governo austriaco con premi di 100 corone e più”. Secondo il comunicato, queste milizie irregolari avevano sparato, e continuavano “qua e là a sparare, alle spalle delle nostre truppe contro soldati isolati, contro ufficiali e contro le salmerie”. Era evidente la preoccupazione di sgravare le popolazioni locali dall’accusa di connivenza con le attività di guerriglia.  

Sopra copertina della Domenica del Corriere del 20-27 giugno 1915 dedicata alla consegna della Medaglia d'Argento al V.M. al Colonnello De Rossi presso l'Ospedale di Cividale da parte di S.M. il Re Vittorio Emanuele III.

Da Luico alla base del Mrzli, oltre l'Isonzo, c'è una distanza di cinque chilometri. Gli attacchi della Salerno e della Modena sono disastrosi e non rimane che la ritirata. Il 1° giugno 1915 alle 9 il colonnello Eugenio De Rossi riceve la promozione a Generale di brigata e il comando della brigata Cagliari. Egli si pone comunque alla testa dei bersaglieri del suo 12° reggimento (XXIII e XXXVI battaglioni, lasciando il XXI a Luico), per raggiungere Volarje, ai piedi del Mrzli. A Volarje si uniscono sotto il suo comando i fanti dell'89° reggimento Salerno e due battaglioni della brigata Modena. Di fatto sta già svolgendo la funzione di comandante di Brigata. Su un fianco anche gli alpini del Pinerolo. In tutto circa 8.000 uomini. Inizia così un'ascesa di 1.300 metri. Alle 18 lo scontro con il nemico. Alle 20 viene conquistato parte delle trincee di quota. In questi scontri, per la conquista di una postazione di mitragliatrice muore il sergente Bers. Giuseppe Carli prima medaglia d’oro della Grande Guerra. La mattina del giorno dopo è la volta del tenente colonnello Negrotto, mentre lo stesso De Rossi subisce una gravissima ferita che lo paralizzerà per il resto della vita. Per i combattimenti del Monte Nero De Rossi viene personalmente decorato dal Re sul letto d’ospedale. A mezzogiorno del giorno dopo quello che resta dei due battaglioni si lancia al comando del maggiore Reali di nuovo sulle trincee nemiche. I bersaglieri subiscono nuovamente gravi perdite. Il Re da un osservatorio ha seguito tutte le fasi e riferisce agli aiutanti che è ora di porre fine al massacro. Il 4 i superstiti del reggimento rientrano su Caporetto.

LA VITA DI UN UFFICIALE ITALIANO SINO ALLA GUERRA Milano, 1927 citato

«Appena rientrati in guarnigione e "libate le gioie della civiltà" come diceva il mio maggiore, quello dei tarocchi, ebbi ordine di presentarmi a Parma al Corso di Armi, Zappatori e Tiro, destinato ad iniziare i sottotenenti ai misteri della fabbricazione e manutenzione delle armi da fuoco portatili, ai segreti per ottenere il massimo rendimento dal tiro di fucileria, all'arte di costruire cucine, latrine, ecc. [ ... ] Materie modeste, che pur modestamente potevano essere insegnate da un capo armaiolo per le armi, da un capitano per il tiro, da un tenente per il resto. Invece si era montato un poderoso organismo, con alla testa un generale ed uno stuolo di professori, esperti nell'arte di rendere difficili le cose facili!

 
Con gli anni l'istituto peggiorò, non negli intenti, che furono sempre buoni ed anche elevati, ma nell'attuazione, e nel metodo della peggiore pedanteria scolastica. Si aggiunsero nuove materie d'insegnamento, tra le quali il famoso "Fuoco e terreno" pretesto ad incommensurabili bagolamenti. Si adottò poi il nome di "Scuola di Applicazione di Fanteria", per scimmiottare l'artiglieria e il genio, non pensando che la migliore applicazione per l'ufficiale di fanteria è quella che si fa presso la truppa.
Per dare la misura dello spirito che informava la direzione di questa Scuola, citerò il discorso solenne, con il quale fu inaugurato il Corso, al quale ebbi la ventura di appartenere:
"Gli insegnamenti che qui, sgorganti da purissima fonte, berranno, riguardano discipline belliche vecchie come il mondo e ancora oggi generalmente, per necessità, seguite. Il selvaggio papuas, ad esempio, quando lancia l'avvelenata freccia, risolve un problema di distanze, stimando quella che lo separa dal nemico, risolve un problema di tiro con la mira, un problema tattico imboscandosi per colpire e non essere colpito, un problema di castramentazione, riparandosi con lo studio, ecc., e così via per un'ora, dimostrando che il fenicio, il greco, il romano, ecc. avevano tirato, stimato, castramentato, ecc tal quale come oggi: e che perciò si dovevano seguire con attenzione gli importantissimi e geniali corsi della Scuola, per non essere da meno dei soldati fenici. .. e papuas! Il generale F ... , autore di questa che egli chiamò "prolusione", passò ai posteri col soprannome di "papuas": ed io ricordo bene il suo discorso, perché ne ritrovai nelle mie carte la copia bellamente poligrafata, che egli fece distribuire.
L'insegnamento delle riparazioni alle armi era professato da un capitano di artiglieria, coadiuvato da due subalterni della stessa arma, ostentanti tutti e tre un superbo disprezzo per noi poveri fanti. Bisognava sentire quel capitano, piccolo di statura ma grande di prosopopea, con quale sussiego spiegava la tempra a cartoccio; la solennità con la quale, assistito da un capo tecnico e da due operai armaioli, faceva eseguire sotto i nostri occhi esterrefatti la ribattitura a freddo di una coppiglia di rame! Pareva una operazione di alta chirurgia!
 
Il capo tecnico, con il berretto ornato da tre galloni, a momento opportuno pontificava, malgrado un difetto di dizione che gli faceva dire ad esempio: "Con tun trapano at archetto" in luogo di "con un trapano ad archetto" sputacchiando contemporaneamente "at est et at ovest" della cattedra. Un altro capitano, soprannominato "Dente di scatto", per un incisivo che gli sporgeva dalla bocca, professava gravemente nomenclatura delle armi e buffetterie, come insegnasse chimica organica.
Un terzo professore, che più gonfio di tutti, insegnava la scienza del tiro col fucile, "vuoi isolato, vuoi con altri", iniziava il Corso con una discorsa di un'ora sul gran tema, se fosse arte o scienza quella da lui impartita. Questo signore, ed i suoi successori, furono la causa che la nostra fanteria non riuscì mai ad avere un regolamento definitivo sul tiro, perché ciascuno di essi pare avesse per missione di dimostrare il contrario di quanto il suo predecessore aveva data per verità dogmatica. Le esperienze di tiro si eseguivano al poligono del Taro, ove ci recavamo con veicoli di ogni sorta, come ad una scampagnata.
Sul luogo la bisogna si riduceva a riportare sopra una striscia di carta quadrettata i punti colpiti sui cartelloni del bersaglio, per costruire, a casa, delle artistiche rose di tiro, ecc. Di queste esperienze, intese la più parte a dimostrare verità come quelle di Lapalisse, ne ricordo una, che abbatté invece, col suo inatteso risultato, tutto un castello di sedicenti assiomi, edificato dal professore di tiro. Si erano fatti tre plotoni uguali di numero, ma composti rispettivamente tutti di buoni, mediocri, ed eccellenti tiratori, per dimostrare, con i risultati del loro tiro, che avrebbero dovuti essere buoni, mediocri ed eccellenti, la utilità di una intensa istruzione per la perfezione del tiro individuale, per ottenere un eccellente tiro collettivo. Alla prova i risultati dei tre plotoni furono identici, e tutte le chiacchiere del professore non valsero a distruggere in noi la impressione ricevuta.
Il singolare di questa Scuola era che, proponendosi di accrescere la coltura professionale nei reggimenti e specialmente l'addestramento al tiro, indirizzandolo secondo speciali criteri, venivano inviati, fulmini di scienza nei Corpi, dei sottotenenti, ossia gente alla quale gli altri ufficiali non facevano molto credito, sicché il tiro continuava ad eseguirsi con i soliti metodi, come se la Scuola non esistesse. Dopo qualche anno questa verità, cioè che la luce deve venire dall'alto, e non dal basso della gerarchia, si fece strada, ed allora si chiamarono a Parma i colonnelli a frequentare un così detto "Corso di Informazione".
 

sotto i volontari ciclisti civili

La cosa fu poco gradita dai pazienti, non si cavò un ragno dal buco, e, unico ricordo tangibile, lasciò una serie di gruppi fotografici nelle vetrine di Parma. Tutte le istituzioni militari in tempo di lunga pace degenerano. Non vi è quindi da stupire che ciò sia avvenuto anche alla Scuola di Parma, la quale si galvanizzò appena scoppiata la guerra, e, rinata a nuova vita, dette eccellenti risultati.
A parte le noie della Scuola, la vita di Parma per noi sottotenenti era la più gioconda che si possa immaginare. La popolazione ci vedeva allora assai di buon occhio, non eravamo costretti a mensa comune nella Scuola, la vita costava poco, le ragazze non erano troppo ritrose. La materia di studio era così breve e melensa che con poco la si digeriva. Non si dava ancora la caccia alle tenute fuori di ordinanza, ed ai nottambuli. Più tardi le cose mutarono, i tre mesi di gioia divennero tre mesi di passione, senza che i profitti aumentassero, perché il difetto era nei preposti all'istruzione e non nella istituzione. Partimmo da Torino in tre del mio reggimento, certo T .. , toscano, bel giovane di professione, B ... , lombardo, indolente, allegro ed io. Prendemmo alloggio insieme in una casetta che sorgeva al principio del ponte di Mezzo, all'angolo col vicolo degli Uccellacci, "Borg di Oslaz", La casa aveva tre piani, una camera per piano, non era certo una reggia, ma la padrona abitava altrove e noi eravamo i padroni del castello. I pasti si prendevano, dai milionari, all'Albergo d'Italia, dai poveretti, in certe "gargotte" soprannominate "Il Tiburzio", "AI morto di fame!" ecc., frequentate da studenti, con i quali eravamo in eccellenti rapporti. Infine il ceto medio, andava o al Ristorante delle 15 Colonne ove si mangiava male, ma si era serviti da donzellette di facili costumi, oppure dall'Inglese, dove le porzioni erano più abbondanti, ma di carne equina. Avevo venti anni, e mi lasciai prendere dall'incanto di due occhi viola, in un pallido visetto incorniciato da una frangetta bionda che sfuggiva dallo sciai lo. Si chiamava Clelia, passava tre volte al giorno sotto le mie finestre, abitava Oltre Torrente ed era cucitrice in biancheria. Le parlai, fece la ritrosa quanto lo esigeva la decenza e poi mi concesse qualche appuntamento. Il ritrovo era al ponte di Capra Zucca, ma voleva che io venissi in abito borghese, perché si diceva molto sorvegliata dalla famiglia.
 

 

Questa esigenza, legittima se vogliamo, mi metteva in crudele imbarazzo, perché la mia guardaroba possedeva unicamente un abito chiaro estivo ed un cappello di paglia, non più di circostanza alla fine di ottobre. Il problema fu risolto dagli amici, uno dei quali mi prestò una bombetta nera, un altro un ulster verdastro piuttosto abbondante nelle misure, ma ciò mi era necessario a coprire la giubba ed i pantaloni da militare con stivali che conservavo sotto, mentre un fazzoletto di seta bianca dissimulava colletto e cravatta. Così parevo un cocchiere vestito con gli abiti smessi del padrone. Mi recai quindi con molta titubanza all'appuntamento, ma Clelia si limitò a sorridere, fece, "puvrein!", e mi conservò la sua simpatia. I cambiamenti di orario del suo laboratorio e quello delle mie lezioni avevano singolarmente abbreviato il tempo che mi rimaneva per travestirmi e andare al convegno; avevo quindi dovuto ricorrere alla mia fertile fantasia per far fronte alle circostanze.
Appena ci mettevano in libertà dalla Scuola, mi precipitavo nel giardino che la circonda. Quivi, in un vialetto remoto, mi attendeva l'ordinanza; gli consegnavo il berretto, il mantello e la sciabola, indossavo il famigerato ulster, il cappello, il fazzoletto che mi porgeva, e via come un pazzo all'appuntamento. Dio protegge gli ubriachi e gli innamorati, perché non ebbi mai incidenti, benché ad ogni passo incontrassi colleghi e superiori, nessuno dei quali poteva supporre la rapidità fulminea del travestimento.
Tutto ha una fine, ed anche quei tre mesi di gaia vita trascorsero; avevamo dimenticato il sussiego e la rigidezza che ci imponeva nelle guarnigioni la nostra divisa, ed avevamo vissuto da studenti. La partenza per Torino mi fece riprendere la serietà di atti e di pensieri che mi avevano abbandonato. Nella mia vita sono ripassato cento volte davanti a Parma e la vista della Scuola ha rievocato sempre quei lieti ricordi accompagnati da un sospiro di rammarico, che gli anni facevano sempre più profondo. In Parma era rimasta realmente sepolta la mia giovinezza»
. E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano, 1927
 

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