PLEZZO - L'ALTRA CAPORETTO

VERSO IL FIUME - DIARI E LETTERATURA SULLA GUERRA

NELL'ALTO FRIULI E SUL TAGLIAMENTO

"ADDIO ALLE ARMI"

L'ANTEFATTO NAPOLEONICO

Capitano Cicille, 1806, del Corpo Imperiale degli Ingegneri e Geografi Napoleonici: - possibilità che allora si ha  di attraversare il Tagliamento lungo il suo corso.. -

... Questo torrente distruttore è generalmente poco profondo dalle sorgenti fino a Madrisio; è guadabile in molti punti, in regime normale di acque; ... ma è soggetto a piene periodiche in primavera e in autunno e piene anomale in estate, che impediscono da un momento all’altro di attraversarlo. Allora le sue acque coprono il suo letto, diviene furioso e travolge tutto quello che si oppone al suo corso indomito.

“... Per attraversarlo sono presenti in diversi punti dei ponti di legno, delle barche e dei ponti volanti. C'è un ponte di legno tra Valvasone e Codroipo. È il ponte di Latitia (della Delizia). Ha circa un chilometro di lunghezza ed è largo quanto basta per il passaggio di una carrozza; ... ma è poco solido. Gli argini dove poggiano le travi di legno che formano le spalle vengono lentamente erosi durante le piene del Tagliamento; c’è da temere che siano travolti dalla rapidità delle acque di questo torrente distruttore.

“... C’è un altro ponte-coperto per andare in Cargna, 300 metri sotto Venzone; è lungo 200 m e largo 5; è in buono stato e abbastanza elevato sul livello dell’acqua. C’è un altro ponte ancora di fronte ad Amaro, lungo circa 150 m e largo 4, che conduce a Tolmezzo. E infine un altro, solamente per i cavalli, si trova un miglio e mezzo sopra questa città. La sua lunghezza è di 80 metri circa. “Si trovano delle barche a Praulin, a Pinzano, Spilimbergo e al villaggio di Gradisca dove passa la strada postale che conduce da Venezia in Carinzia. Tra questi differenti percorsi vi sono dei guadi per attraversare il Tagliamento quando le acque sono basse.”

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Morte Hensel a Malborghetto da Il Tarvisiano

I francesi tentano di passare il Tagliamento

 

La Fuga dei Civili da Caporetto

 

Dal Diario di Ettore Bulligan - la fuga dei civili

"Chiusa alle spalle la porta della casa del nonno,sotto una fitta pioggia gelida, nel buio più assoluto, in fila indiana e in silenzio, cominciammo la nostra odissea"

 …. La mattina seguente (30/10/'17) finalmente giungemmo a Madrisio dove era stato costruito un ponte di barche per attraversare il Tagliamento, ma il fiume in piena aveva occupato anche quella parte del suo letto che di solito è asciutta, quindi, dopo aver attraversato il ponte, bisognava camminare per un tratto nell'acqua che scorreva via con violenza. La piena aveva travolto alcuni carriaggi e si vedevano galleggiare, accanto alle carogne dei cavalli, delle pagnotte: profughi e sbandati cercavano di entrare in acqua per prenderne qualcuna, ma le sentinelle li ricacciavano indietro perché quel pane ormai poteva solo causare malattie. Sul ponte la confusione era indescrivibile, ognuno pensava solo ad andare avanti, tra urla e spintoni, trascinando le sue masserizie, se le aveva, e cercando di tenere unito il suo gruppo familiare. Noi avevamo quasi attraversato il ponte, quando un soldato, accortosi che la mia famiglia stentava a tirarsi fuori da quella folla e veniva avanti con difficoltà, mi prese sulle spalle e, camminando nell'acqua torbida dell'alluvione, mi portò, senza che io mi bagnassi, sull'altra sponda e lì ci fermammo ad aspettare che i miei arrivassero. A poca distanza da noi, al centro della strada, vidi un gruppo di carabinieri, comandati da un ufficiale, i quali a ogni soldato che passava senza armi davanti a loro, chiedevano dove le avesse lasciate. I soldati rispondevano che all'altro capo del ponte c'era un capitano che aveva ordinato loro di deporre le armi ed essi avevano obbedito. L'ufficiale e uno o due carabinieri, poco convinti evidentemente da queste spiegazioni, attraversarono il ponte; non so che cosa accadde dall'altra parte, ma quando fecero ritorno, l'ufficiale disse ai carabinieri rimasti di qua: “Avevano ragione i soldati! Non era un ufficiale, era una spia. Ma adesso ha finito”.

http://www.bassafriulana.org/cultura/doc/ettore bulligan.pdf  -http://www.nove.firenze.it/guerra/diario.htm#1  http://www.cnpd.it/archivio/archivio_storico/Dia/dia stereo.html diapositive della grande guerra

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With British Guns in Italy

LE BATTERIE INGLESI IN ITALIA NELLA GRANDE GUERRA 

- A Tribute to Italian Achievement” 

Nella primavera 1917 giunsero a Venezia da Folkestone (GB), 10 batterie di cannoni (40) di medio calibro (6 inch) dei “Royal Garrison artillery Regiment” (RGA ) destinate al fronte dell’Isonzo (L’intervento inglese in forze ci sarà solo dopo Caporetto). Durante la rotta le batterie furono protagoniste di una rocambolesca fuga, attraverso le strade e i ponti (quello di Latisana) che portano verso il Piave, assieme alle migliaia di soldati della III Armata.

The RGA was responsible for the heavy, large calibre guns and howitzers that were positioned some way behind the front line. A six-inch howitzer battery of the RGA was attached to the Italian 3rd Army and saved after Caporetto. Rome Conference of January 1917. Lloyd George suggested that if the Italians had to defend against enemy attack, they would be reinforced by British and French heavy artillery. Robertson went to see for himself in March 1917 and concluded that the Italian tactics and administration were fragile and that infantry would probably also be needed. As a result of these discussions, ten newly-raised 6-inch howitzer batteries (total 40 guns) were sent to the Carso sector. There were at this time only 152 such batteries on the Western Front. The Italian Government immediately after Caporetto’s attack (1st November) pleaded for Allied help. An initial British force, consisting of the XIV Corps under the command of the Earl of Cavan, with the 23rd and 41st Divisions, was despatched and began to arrive on 11 November 1917. On the 13th, General Sir Herbert Plumer arrived and assumed command of the British forces in Italy. 5th, 7th, and 48th Divisions eventually also joined the force in Italy, as did XI Corps headquarters.

da un'altra fonte ..British Artillery Italy’ (BAI). It had been sent in response to requests from the Italians for heavy artillery support, something in which they felt deficient. The BAI was commanded by Brigadier PD Hamilton and initially consisted of two Heavy Artillery Groups, the XCIV and XCV. These numbers were later re-configured to 94th and 95th to avoid confusion with the Roman numerals allocated to Italian Army Corps with the same numbers. Later still they were re-titled and became Groups B1 and B2. Each Group had five batteries each equipped with four 6-inch howitzers. The BAI also had a small complement of supporting services including an Army Postal Section. The BAI was attached to the Italian 2nd Heavy Artillery Aggrupamenta (Grouping of Groups), supporting XI Corps, Third Army, in the extreme south of the Isonzo Front. In July 1917 B1 and B2 were joined by another group, the 101st (later B3) with three batteries.The following month the BAI was further reinforced by a solitary experimental Vickers 9.2 inch BL (Breech Loading) howitzer which formed X Battery, 94th Group.

The English word howitzer derives from the German word Haufen (heap) which as Gewalthaufen designated a pike square formation. Already in the Battle of Tannenberg (1410), the Teutonic Knights used artillery[1] which was intended to break up enemy formations, Czechs among them. During the Hussite Wars of the 1420s and 1430s, the Czechs used short barreled "houfnice"[2] cannons to fire at short distances into such crowds of Haufen infantry ("houf" came in use as the Czech word for crowd[3]), or, to make horses skittish, into charging heavy cavalry.[4] From the aufeniz mentioned in 1440 derive the German Haussnitz and later Haubitze, the Swedish haubits, Italian obice, and the Dutch word houwitser which led to the English word howitzer .

traduzioni della dott. Magalì Loperfido da cimeetrincee.

..... Una volta attraversato il Tagliamento, i nostri trattori non solo continuarono a rompersi ogni poche centinaia di yarde, ma svilupparono anche la sgradevole abitudine di prendere fuoco. Due volte spegnemmo il fuoco con gli estintori e prodotti chimici, e una terza volta con del fango. Decisi di non rischiare una quarta volta, e così ci trascinammo a lato della strada e ci fermammo. Mandai avanti il sergente maggiore della batteria su un autocarro diretto a Portogruaro con una nota per il maggiore chiedendo che un altro trattore venissi mandato indietro, e mandai anche Avoglia al quartier generale italiano più vicino per vedere se lì fosse stato possibile procurarci un trattore. Eravamo fermi in cima ad una collina sulla strada che correva lungo l'argine ovest del fiume. Eravamo letteralmente al di là del fiume, ma avremmo potuto essere uno splendido bersaglio per l'artiglieria nemica che avanzava sul lato più lontano. Un buon sistema di trincee correva lungo il lato della strada, ed era ora presidiato dalla fanteria italiana. L'artiglieria campale era in posizione dietro di loro. I nostri uomini approfittarono della sosta forzata per recuperare carburante, accendere dei fuochi e fare del tè. Eravamo ancora fermi al tramonto. Poco dopo che il buio era calato alcuni italiani salirono e ci dissero che stavamo bloccando la strada, il che non era vero, poiché eravamo ben a lato. Ma poiché né Avoglia ne il sergente maggiore erano ancora tornati con un nuovo trattore, e poiché gli italiani dissero che ci avrebbero rimorchiato, acconsentii cordialmente al tentativo. Attaccarono un trattore con un pesante autocarro come rimorchio al nostro trattore incendiario e ai nostri tre cannoni. Chiesero di fare un tentativo per accendere anche il nostro trattore, ma riuscii a persuaderli che era inopportuno. Quindi misero in moto solamente il loro trattore. Con mia grande sorpresa, cominciammo a muoverci. Era una macchina magnifica, e avanzava splendidamente in avanti, contraria a tutte le leggi che limitavano la sua capacità, rumoreggiando e facendo ritorno di fiamma, sotto lo sforzo inusuale, per miglia attraverso il buio. Poi la luna cominciò a sorgere, e, per la prima volta dall'inizio della ritirata, era piacevole e limpida. Potevamo solo andare piano e restammo in panne di tanto in tanto, ma tutto andò bene, finche non facemmo bruscamente dondolare il lungo treno attorno ad un angolo e gli ultimi due cannoni caddero in un fossato.  Mentre stavamo cercando di tirarli fuori, un maggiore inglese, che chiamerò Star, apparve. Veniva da Portogruaro con la notizia che cinque nuovi trattori stavano arrivando, e che altri cannoni britannici erano caduti in un fossato più avanti. Perciò ringraziai l'ufficiale addetto al trattore e all'autocarro italiani per tutto quello che aveva fatto per noi e gli consigliai di andare avanti e lasciarci lì, poiché la nostra posizione era, sì, spiacevole ma non più critica. E così fece. Star aveva dipinto un vivido quadro di Portogruaro. Tutti i cannoni britannici, disse, erano parcheggiati assieme nella piazza e c'era un ampio granaio vicino, pieno di uomini felici con abbondanza di razioni e paglia. Così, sembra, gli aveva riferito una persona con grande immaginazione. Raggiungemmo Portogruaro nella notte del 31 Ottobre. La luna era tramontata ed era molto buio. Alcuni di noi fecero una ricerca scrupolosa in piazza. Ma non c'erano cannoni britannici, nessun granaio, ne paglia, ne razioni. Fermai i cannoni appena fuori l'entrata della città e dissi agli uomini di mettersi a dormire. Poco dopo l'alba ci svegliammo tutti molto affamati. Distribuii praticamente tutto quello che rimaneva delle nostre razioni, un po' di manzo lesso in scatola, qualche biscotto e ancora meno tè.

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HemingwayADDIO ALLE ARMI di Ernest Hemingway*

Il tenente americano Frederic Henry, autista americano di ambulanze durante la ritirata di Caporetto, tra la marea dei profughi viene anche lui sospettato come spia per lo stesso motivo e si salva gettandosi nelle acque in piena del Tagliamento al Ponte della Delizia, tra Codropio e Casarsa, inseguito dalle fucilate dei carabinieri, e, aggrappato ad un trave…..

 * Dalla prefazione di Fernanda Pivano: "..il groviglio di dati autobiografici e invenzioni in questo romanzo (ndr. non librò verità o saggio) è inestricabile …  della ritirata di Caporetto, alla quale in realtà Hemingway non prese parte e che ricalcò quella Greca in Tracia del 1922 (a cui fu presente da giornalista)…. ". Ernest Hemingway viene infatti ferito a Fossalta sul Piave l'8 Luglio 1918 (med. Argento) ed è in Italia da gennaio (qualcuno dice anche dopo, da maggio '18) e quindi non ha minimamente partecipato alla ritirata di Caporetto. Il romanzo "Addio alle armi" ricostruito con tempi e avvenimenti diversi (inizia dal 1916, passa al ricovero in ospedale a Milano indi alla rotta di Caporetto e oltre) si arricchisce di personaggi e memorie raccolte quindi sul campo dai diretti testimoni degli avvenimenti nel dopoguerra.

Capitolo XXX

Prima di giorno giungemmo sulla riva del Taglia mento e seguimmo il fiume in piena fino al ponte dove tutto il traffico stava passando. « Dovrebbero poter resistere a questo fiume » disse Piani. Nel buio la piena pareva alta. L’acqua turbinava ed era vasta. Il ponte di legno era lungo quasi un chilometro e il fiume, che di solito correva in canaletti nel vasto letto petroso, arrivava quasi alle assi di legno. Proseguimmo lungo la riva e ci facemmo strada nella folla che stava attraversando il ponte. Attraversando lentamente nella pioggia col fiume a pochi centimetri dai piedi, schiacciati dalla folla e un cassone d’artiglieria davanti, mi sporsi dal parapetto a guardare il fiume. Ora che non si poteva camminare sul proprio passo mi sentivo stanchissimo. « Piani » dissi. « Eccomi, tenente. » Era un po’ più avanti nella calca. Nessuno parlava. Cercavano tutti di attraversare più presto che potevano: pensavano solo a questo. Eravamo quasi passati. All’estremità del ponte c’erano ufficiali e carabinieri in piedi accanto ai due parapetti con le lampade tascabili. Li vidi profilati contro la linea del cielo. Quando ci avvicinammo vidi un ufficiale indicare un uomo nella colonna. Un carabiniere lo seguì e venne fuori tenendo l’uomo per il braccio. Giungemmo quasi di fronte a loro. Gli ufficiali esaminavano a uno a uno gli uomini della colonna, a volte parlando fra loro, sporgendosi per accendere una lampadina in faccia a qualcuno. Un momento prima che arrivassimo davanti a loro ne tirarono fuori un altro. Lo vidi. Era un tenente colonnello. Vidi le stellette nel quadratino sulla manica mentre gli accendevano addosso una lampadina. Aveva i capelli grigi ed era piccolo e grasso. Il carabiniere lo spinse dietro alla fila degli ufficiali. Quando giungemmo di fronte a loro ne vidi uno o due guardarmi. Poi uno mi indicò e parlò a un carabiniere. Vidi il carabiniere avviarsi verso di me, avvicinarsi attraverso l’orlo della colonna, poi mi sentii prendere per il colletto. « Cosa vuoi? » dissi, e gli diedi un pugno in faccia. Gli vidi la faccia sotto la lucerna, i baffi arricciati e il sangue che gli colava sulla guancia. “Sparategli se resiste” disse un Ufficiale “Portatelo indietro” ….

PROCESSO SOMMARIO ….. Due carabinieri condussero il tenente colonnello verso la riva del fiume. Camminava nella pioggia, vecchio, a capo scoperto, con un carabiniere per parte. Non vidi la fucilazione ma udii gli spari. Stavano interrogando un altro. Anche,questo ufficiale si era allontanato dalle sue truppe. Non gli permisero di dare una spiegazione. Quando lessero la sentenza sul notes pianse e quando lo fucilarono stavano interrogandone un altro. Facevano in modo di essere occupati a interrogare il prossimo mentre veniva fucilato quello che era stato interrogato prima. In questo modo era evidente che non potevano ripensarci. Non sapevo se aspettare l’interrogatorio o tentare subito la fuga. Era evidente che secondo loro ero un tedesco in uniforme italiana, vedevo come lavoravano i loro cervelli; posto che avessero cervelli e che lavorassero. Erano tutti giovanotti e stavano tutti salvando la patria. Il secondo esercito andava ricostituito di là del Tagliamento. Stavano giustiziando gli ufficiali dal grado di maggiore in su che si erano separati dalle loro truppe. Agivano pure in modo sommario con gli agitatori tedeschi in uniforme italiana. Avevano elmetti d’acciaio. Soltanto due di noi avevano l’elmetto. Qualche carabiniere l’aveva. Gli altri carabinieri avevano il cappello grande, la lucerna. Li chiamavamo aeroplani. Eravamo in piedi nella pioggia e ci prendevano uno per uno per interrogarci e fucilarci. Finora avevano fucilato tutti quelli che avevano interrogato. Quelli che interrogavano avevano quel bel disinteresse e quella devozione a una rigida giustizia caratteristica degli Uomini che si trovano a contatto con la morte senza correre rischi. Stavano interrogando il colonnello di un reggimento di linea. Altri tre ufficiali erano stati aggiunti a noi. « Dov’era il tuo reggimento? »

Il Times scriveva in quei giorni : “Gli ufficiali bulgari si sono dimostrati specialmente utili ai loro alleati. Moltissimi bulgari avevano studiato alla Scuola di Guerra di Torino, e avevano imparato le parole italiane di comando, nonché il dialetto piemontese. Essi erano travestiti da ufficiali italiani ed è facile comprendere la confusione che destarono. Molti sono i militari nemici che riuscirono a introdursi nell'interno dell'Italia. A suo tempo verrà fatta, senza dubbio, una dichiarazione pubblica su tutte queste manovre. Sarebbe bene che essa non si facesse attendere”. Lo stesso Times citava questi altri esempi della offensiva politica austro-tedesca, la quale ricorse a mezzi eccezionali per seminare la discordia tra i soldati italiani ed intaccare la loro forza di resistenza : “Vengono in luce continue prove del modo con cui il nemico ha lavorato, e ancora lavora, al fronte italiano. Numerosi opuscoli sediziosi, scritti in buon italiano, sono penetrati misteriosamente nelle trincee, come pure copie false di alcuni giornali importanti, perfettamente imitate e contenenti notizie allarmistiche circa moti rivoluzionari a Napoli, a Firenze e in Sicilia, circa centinaia di uccisi in Liguria e migliaia in Toscana, con la fanteria che sparava su donne e bambini, la cavalleria che caricava calpestando i cadaveri giacenti nelle strade ..” Queste false copie di giornali erano stampate con consumata perizia e produssero una profonda impressione nelle truppe combattenti. Le pagine esterne di ogni copia erano una esatta riproduzione dei giornali stessi, ma nelle pagine interne erano pubblicate pretese corrispondenze dalle varie città, in cui si narravano le sommosse che sarebbero scoppiate da un capo all'altro d'Italia. I particolari erano strazianti e comprendevano il racconto di massacri di donne e di bambini, compiuti da soldati francesi e inglesi.
 

Guardai i carabinieri. Guardavano i nuovi venuti. Gli altri guardavano il colonnello. Mi chinai, mi feci largo fra due uomini, e corsi a testa bassa verso il fiume. Inciampai sulla riva e caddi con un tonfo. L’acqua era molto fredda e rimasi sott’acqua finché potei. Mi sentivo trascinare dalla corrente e rimasi sott’acqua finché credetti di non riuscire mai più a venire a galla. Appena venni a galla presi fiato e tornai sotto. Era facile restare sotto con tutti quei vestiti e gli scarponi. Quando venni a galla la seconda volta vidi un trave davanti a me e lo raggiunsi e lo afferrai con una mano. Tenni la testa al riparo, e nemmeno guardai oltre il trave. Non volevo vedere la riva. Avevano sparato mentre correvo e sparato quando venni a galla la prima volta. Li udii quando ero quasi fuori dell’acqua. Ora non sparavano. Il trave dondolava nella corrente e lo tenni con una mano. Guardai la riva. Pareva che si allontanasse molto in fretta. C’era molto legno nel fiume. L’acqua era molto fredda. Passammo la vegetazione di un isolotto a fior d’acqua. Mi ressi al trave con tutt’e due le mani e mi lasciai trascinare. La sponda ormai era scomparsa.

Capitolo XXXI

Non si sa quanto tempo si resti in un fiume quando la corrente è veloce. Pare che sia molto e magari è molto poco. L’acqua era fredda e in piena e passavano molte cose che erano state strappate alle rive col salire dell’acqua. Ero fortunato ad avere un trave pesante a cui aggrapparmi, e giacevo nell’acqua gelata col mento sul legno tenendomi più comodamente che potevo con le due mani. Avevo paura che mi venissero i crampi e speravo di accostarmi alla sponda. Scendemmo il fiume in una lunga curva. Incominciava a essere abbastanza chiaro, così vedevo i cespugli lungo la riva. Davanti c’era un isolotto coperto di vegetazione e la corrente conduceva alla riva. Mi chiesi se togliermi gli scarponi .e i vestiti e cercar di nuotare verso terra, ma decisi di non farlo. Non avevo mai dubitato di raggiungere la riva in un modo o nell’altro e mi sarei trovato male se vi fossi arrivato a piedi nudi. In un modo o nell’altro dovevo arrivare a Mestre.

Guardavo la sponda avvicinarsi poi allontanarsi; poi riavvicinarsi. Galleggiavamo più lentamente. Ora la riva era molto vicina. Vedevo i ramoscelli sui salici. Il trave dondolò lentamente finché la riva fu alle mie spalle e capii che eravamo in un gorgo. Girammo lentamente. Quando rividi la riva, ora molto vicina, cercai di tenere il trave con un braccio e nuotando con l’altro e con le gambe di spingerlo verso la riva, ma non lo feci minimamente avvicinare. Avevo paura di uscire dal gorgo e, tenendo il trave con una mano, tirai su i piedi finché furono contro il fianco del trave e lo spinsi violentemente verso la riva. Vidi i cespugli ma, malgrado tutto il mio peso e la forza che mettevo nel nuotare, la corrente mi trascinava. Pensai allora che avrei anche potuto annegare per via degli scarponi, ma lottai nell’acqua e quando alzai lo sguardo la riva mi veniva incontro e continuai a nuotare in un panico greve finché la raggiunsi. Mi aggrappai al ramo di un salice e non ebbi la forza di alzarmi ma ora sapevo che non sarei annegato. Non mi era mai venuto in mente, sul trave, che avrei potuto annegare. Mi sentivo svuotato e avevo male al ventre e al torace per lo sforzo, e mi reggevo ai rami e aspettai. Quando mi sentii meglio feci forza sui rami del salice e mi riposai di nuovo, con le braccia intorno agli arbusti, tenendomi stretto con le mani ai rami. Poi strisciai fuori, mi aprii la via fra i salici verso la riva. Era quasi l’alba e non si vedeva nessuno. Giacqui bocconi sulla riva ad ascoltare il fiume e la pioggia. Dopo un po’ mi alzai e mi incamminai lungo la riva. Sapevo che non c’erano ponti sul fiume fino a Latisana. Pensai che forse ero di fronte a San Vito. Incominciai a pensare che cosa dovessi fare. Davanti a me c’era un fosso che finiva nel fiume. Mi avviai in quella direzione. Finora non avevo visto nessuno e sedetti accanto a qualche cespuglio lungo la riva del fosso e mi tolsi le scarpe e le vuotai. Mi tolsi la giubba, tolsi il portafogli coi documenti e il denaro tutto bagnato dalla tasca interna e poi strizzai la giubba. Mi tolsi i calzoni e strizzai anche quelli e poi la camicia e la biancheria. Mi battei e stropicciai e rivestii. Avevo perso il berretto. Prima di rimettermi la giubba strappai le stellette dalle maniche e le misi nella tasca interna col denaro. Il denaro era bagnato ma in ordine. Lo contai. C’erano tremila lire e qualche spicciolo. I vestiti erano bagnati e attaccaticci e mi battei le braccia perché non mi si fermasse la circolazione. Avevo la biancheria di lana e pensavo che muovendomi non avrei preso freddo. Mi avevano tolto la pistola sulla strada e nascosi la fondina sotto la giubba. Non avevo mantellina e faceva freddo nella pioggia. Mi avviai sulla riva del canale. Era l’alba e la campagna era bagnata piatta e lugubre. I campi erano nudi e bagnati. Molto lontano vidi un campanile che si alzava sulla pianura. Giunsi sulla strada, vidi delle truppe che scendevano la strada. Zoppicai lungo il ciglio della strada e mi passarono accanto senza accorgersi di me. Era un distaccamento di mitragliatrici diretto al fiume. Proseguii lungo quella strada.

Quel giorno attraversai la pianura veneta. È una campagna piatta e monotona e sotto la pioggia è ancora più piana. Verso il mare vi sono paludi salate e pochissime strade. Le strade vanno tutte al mare lungo le bocche del fiume e per attraversare la regione bisogna seguire i sentieri lungo i canali. Procedevo nella campagna da nord a sud e avevo attraversato due linee ferroviarie e molte strade e finalmente giunsi alla fine di un sentiero in una linea ferroviaria che costeggiava una palude. Era la linea principale da Venezia a Trieste con una solida scarpata alta, un solido letto stradale e un doppio binario. Un po’ più in là sul binario c’era un passaggio a livello e vedevo i soldati di sentinella. Più in su sulla linea c’era un ponte su un fiume che finiva nella palude. Vidi una sentinella anche al ponte. Attraversando il ponte verso nord avevo visto un treno passare su questa linea, visibile da lontano sulla pianura, e pensai che potesse arrivare un treno da Portogruaro. Tenni d’occhio le sentinelle e mi distesi sulla scarpata in modo da vedere le due direzioni delle rotaie. La sentinella sul ponte procedeva lungo la linea verso il punto dov’ero disteso, poi si voltava e ritornava al ponte. Ero disteso e avevo fame e aspettavo un treno. Quello che avevo visto era così lungo che la locomotiva procedeva molto lentamente ed ero sicuro che sarei riuscito a salire. Quando avevo quasi perduto la speranza che ne arrivasse uno, vidi venire un treno. La locomotiva avvicinandosi sul rettilineo ingrandì lentamente. Guardai la sentinella sul ponte. Camminava sul parapetto vicino del ponte ma dall’altra parte del binario. Non avrebbe potuto vedere quando il treno passava. Osservai la locomotiva avvicinarsi. Faceva molta fatica, vidi che vi erano molti vagoni. Sapevo che dovevano esserci delle sentinelle sul treno e cercavo di vedere dove fossero, ma tenendomi nascosto non mi riusciva. La locomotiva giunse al punto dove ero disteso. Quando mi fu di fronte sbuffante e arrancante perfino in pianura, e vidi passare il macchinista, mi alzai e mi avvicinai ai vagoni che passavano. Se le sentinelle mi osservavano: avrei destato meno sospetto stando in piedi accanto alle rotaie. Passarono parecchi carri merci chiusi. Poi vidi un vagone basso aperto, di quelli che chiamano gondole, coperto di teli. Rimasi in piedi finché fu quasi passato, poi feci un balzo e mi afferrai alle sbarre e mi issai. Strisciai tra la gondola e il riparo del carro merci che seguiva. Mi pareva che non mi avesse visto nessuno. Mi tenevo aggrappato alle sbarre e accoccolato sui ganci. Eravamo quasi di fronte al ponte. Ricordai la sentinella. Mentre passavo mi guardò. Era un ragazzo e l’elmetto era troppo grande per la sua testa. Lo fissai con disprezzo e lui guardò da un’altra parte. Pensò che fossi di servizio sul treno. Eravamo passati. Lo vidi, sempre con l’aria di trovarsi a disagio, guardare gli altri vagoni che passavano e mi curvai per vedere come fossero fissati i teli. Avevano delle asole ed erano fissati ai bordi con una corda. Presi il temperino, e tagliai la corda e infilai dentro un braccio. Vi erano masse dure sotto la tela indurita dalla pioggia. Guardai in alto e in avanti. C’era una guardia sul carro merci ma guardava in avanti. Abbandonai la presa delle sbarre e mi gettai sotto il telo. Battei la fronte sopra qualcosa che mi diede una botta violenta. Ero dentro, sotto il telo coi cannoni della III armata.

 

UN MESE SULLA DIFENSIVA TRA LE MONTAGNE DELLA CARNIA

Un anno prima sugli stessi luoghi che vedranno la rotta di Caporetto dal diario di

Benito Mussolini

25 Marzo 1916.
Cerco da cinque giorni il mio battaglione. L’ho lasciato a Serpenizza a riposo. So che è rimasto dieci giorni a Pinzano sul Tagliamento. Poi è partito per la Carnia, ma per destinazione ignota. Giro da cinque giorni, in lungo e in largo, la Carnia, a piedi e in ferrovia. Da Tolmezzo a Paluzza. La colonna dei bersaglieri che tornano dalla licenza invernale è scortata da due carabinieri a cavallo. Attraversiamo il ponte del But che « irrompe e scroscia ». Si marcia in ordine. Ecco Terzo, Cedarchis, Enemonzo, Arta. Ho appena il tempo di leggere l’epigrafe che ricorda il soggiorno di Giosue Carducci in questi luoghi.  Un po’ di sole. La strada s’inoltra fra abetaie foltissime e odoranti. C’è nell’aria il tepore della primavera. I torrenti ingrossati dal disgelo urlano tra le gole dei monti. Verso Paluzza, la valle del But si allarga. A Paluzza, il maggiore degli alpini, che sta al Comando di tappa, mi dice, finalmente, dove si trova il mio battaglione. Lo raggiungerò domani. Passo la serata a Paluzza, popolata da soldati di ogni arma. Il paese è intatto. L’artiglieria nemica non lo ha mai raggiunto. Timau, invece, secondo quanto mi dicono abitanti di Paluzza, è una rovina. Timau è l’ultimo abitato che si trova, prima di raggiungere le posizioni ormai famose del Pal Piccolo, Pal Grande, Freikofel.
26 Marzo.
Giunge dal Freikofel il rombo ininterrotto del cannone. Si combatte. Ma l’eco della battaglia vicina non sembra turbare eccessivamente i cittadini di Paluzza. La caratteristica chiesetta, dinanzi alla fontana, rigurgita di gente che ascolta la messa. Gruppi, fra i quali sono molti soldati, stanno davanti alla porta principale e a quelle laterali. Un sergente maggiore del Comando di tappa mi informa che da Timau si sono chieste « tutte le ambulanze disponibili ». Ciò dà un’idea della gravità del combattimento (ndr: si tratta appunto della operazione in corso al Trincerone, al Pal Piccolo, che assurgerà agli onori di cronaca diversi giorni dopo) .
Alle11 ci raduniamo per partire. Siamo accompagnati dal sottotenente Menini, lombardo. Addio Paluzza! Attraversiamo il But e tocchiamo Cercivento. Segue Ravascletto, dove troviamo la neve. Siamo a 947 metri. Vecchi e donne sono nelle strade a godersi il sole e il riposo domenicale. Un particolare significativo che denota il patriottismo di queste popolazioni. A Ravascletto — paese di poche centinaia di anime — sono state sottoscritte ben 25 mila lire per il terzo prestito nazionale. Sosta per il rancio che confezioniamo in casa di un contadino che ci offre le marmitte. In marcia! Ora la strada riscende. Il panorama che si offre allo sguardo è sempre incantevole. Carnia pittoresca e ospitale!
- Breve tappa a Paularo (forse un passaggio in camion perchè è esattamente dalla parta opposta): un villaggio. Entriamo in una casa — che ha una certa grazia di villetta signorile — per bere un sorso d’acqua. Ci viene offerta, con gentilezza, dalle donne di casa. Tre ragazze: Mina, Antonietta, Maddalena. Noto un grande ritratto di Benedetto Cairoli e uno piccolo di Gabriele d’Annunzio. Donne italianissime. Cantiamo insieme l’inno di Oberdan. Saluti e auguri.
Ecco Comeglians, da dove comincia la valle del Degano. Tappa serale a Rigolato, pieno di alpini del 3°. Sono giovani del ‘96 provenienti da Torino. Le osterie sono affollate di soldati. Nelle strade non ci sono fanali. Buio pesto. Ma da un accantonamento, non lungi dalla strada principale, si leva un coro che si diffonde con una certa solennità nella notte stellata.
27 Marzo.
Da Rigolato a Forni Avoltri (siamo soto il Peralba) ci sono 7 km. e mezzo di strada maestra. A Forni c’è il Comando del mio battaglione. Lungo la strada, il solito movimento delle retrovie: biciclette, carri, camions. Incontriamo una piccola automobile della Croce Rossa inglese, guidata da uno chauffeur coll’inevitabile pipa corta in bocca. A Forni, dove giungiamo verso le 11, ci dicono dove si trova la mia compagnia. Ci mettiamo al seguito della colonna dei muli che portano i viveri. Di rimarchevole a Forni non ho visto che un palazzo delle scuole elementari, quasi grandioso. Siamo una decina di bersaglieri: con noi l’aspirante ufficiale Baldesi, toscano. Tre ore di marcia lungo una mulattiera che attraversa un’abetaia così folta, che impedisce al sole di giungere a terra. A quota 1576, alla destra del torrente Bordaglia, che nasce dal laghetto omonimo, trovo il 1° plotone della mia compagnia (33° btg dell'11° reggimkento). Sono arrivato. Il plotone è ricoverato — insieme con altri bersaglieri ciclisti del 10° — in una baracca di legno a tre piani. Di fianco c’è la cucina e uno sgabuzzino, sulla cui porta sconnessa sta scritto pomposamente: Sala convegno per fumatori. C’è il fumo, ci sono i fumatori, ma quanto alla sala è... un’esagerazione. La stanchezza mi concilia rapidamente il sonno.
30 Marzo.
Mussolini alla stazioine CarniaNevica da sedici ore. Tutto è bianco. La mulattiera è sommersa. Pomeriggio: nevica sempre. La posta non è giunta. Ore lunghe. Nella baracca, al primo, al secondo, al terzo piano — totale altezza quattro metri o giù (su) di lì !!! (anche 5)— si gioca a carte, si fuma, si canta. Io, col ventre a terra, scrivo queste note. Tipi di soldati: Melosi Piacentino, lucchese, tornato dall’America. Classe 1893. È il vero tipo dei toscano medio: asciutto, intelligente e provvisto di una buona lingua snodata, — Sono tornato in Italia per l’onore — egli mi dice, iniziando la nostra conversazione. — Cinque anni or sono andai in America e quando fu chiamata la mia classe, non essendomi presentato, fui dichiarato disertore. In America, a Richmond, capitale dello Stato di Virginia, avevo un piccolo commercio di confettiere. Gli affari non andavano male. Scoppiò la guerra europea. Quando l’Italia entrò in campo, sentii che non potevo più oltre restare lontano dalla mia patria e sono tornato. Potevo entrare nella Sanità, ma ho preferito un’arma combattente e sono qui a fare il mio dovere. È un fatto, che i soldati tornati dall’America costituiscono la parte migliore delle truppe al fronte. Domattina, sveglia alle quattro. Dopo gli attacchi al Pal Piccolo, bisogna vigilare. Tale è l’ordine telefonico del capitano. L’eventualità di un’azione lusinga i soldati. Nevica sempre. Sono cadute due valanghe con un boato tremendo. Non si ha notizia di vittime. I morti in seguito a valanghe non sono stati molti in questa zona: cinque e alcuni feriti.
31 Marzo.
Dopo tanta neve, ecco una mattinata meravigliosa di sole. Nella chiarità diafana, trasparente dell’orizzonte, si stagliano netti i profili e le merlettature delle montagne bianchissime. Lontano si vedono le guglie dolomitiche del Cadore. Una linea sottile di porpora annuncia il sole. Se fossi un poeta! Intanto, al lavoro. La mulattiera è colma di neve. Anche i sentieri d’accesso alle « ridotte » della prima e della seconda linea sono ostruiti. Dai costoni quasi perpendicolari dei monti di Vas e Omladet che ci stanno di fronte, si staccano frequenti valanghe. Da lontano sembrano cascate mugghianti. Turbinìo di neve sulle cime. Pare che la montagna fumighi. Pomeriggio solatìo e calmo. Qualche fucilata solitaria. Verso le tre, abbiamo notato due palloni bianchi, altissimi, che il vento spingeva verso di noi, dalle linee nemiche. Si tratta di uno dei soliti trucchi austriaci; il cesto del pallone recava una poesia contro Cadorna — scritta in italiano — e due cartine geografiche: Ciò che otteneva l’Italia senza la guerra e ciò che ha ottenuto in dieci mesi di guerra. Il Comando austriaco che ci fronteggia è rimasto alla tesi del « parecchio» di giolittiana, nonchè ignobile memoria.  — Ma se i tedeschi — commenta un arguto bergamasco — non hanno altri « balloni» da sparare, presto son fritti.
3 Aprile.
Grande sole. Stamani nella solita «ricognizione» ci siamo spinti ancora più in là. Erano con me i caporali Pietroantonio, un giovane abruzzese tornato dall’America per fare il soldato, e Serrato Antonino, un valido e animoso siciliano del distretto di Cefalù. Verso le 11, l’artiglieria nemica ha battuto con granate shrapnels le nostre posizioni della Selletta fra il But e l’Omladet. Le granate, scoppiando, schiazzavano di nero la neve. Pomeriggio di silenzio alto, interrotto soltanto dal rombo delle valanghe. Le quali non sono le valanghe dirò così -classiche- che si formano col « sasso che dal vertice» rotola giù nella valle. Sono, invece, grandi strati di neve che slitta dai costoni più ripidi, per effetto del vento o del peso della neve stessa. Qua e là, la montagna comincia a mostrare le sue rocce. È la primavera? Un tenente del battaglione ciclisti mi regala, come suo ricordo, una fotografia delle posizioni del Passo di Giramondo e del Volaja. Ieri, mentre gli alpini operavano il «cambio » dei piccoli posti in Bordaglia Alta, furono scoperti dalle vedette austriache. Tre morti dei nostri sono caduti nel camminamento, fra la neve.
4 Aprile.
Ricognizione mattutina al valico del Volaja. Siamo ridiscesi per il torrente omonimo sepolto sotto la neve, Nel pomeriggio, nuova ricognizione su Bordaglia Alta. Siamo saliti per un pendìo ripidissimo. 
- Erano con me il tenente Santi e tre alpini della “compagnia volontari alpini”.
Indossavano il camice bianco. Questi volontari sono in gran parte carnioli e friulani. Gente del paese. Di tutte le età. Di tutte le condizioni sociali. Sbarrando i passi ai confini d’Italia, essi difendono le loro case, le loro famiglie, i loro villaggi che sarebbero i primi a subire le violenze dell’invasore.
Gente simpatica. Siam giunti al laghetto di Bordaglia (da Forni con strada forestale verso Nord), completamente gelato. Dal laghetto ha origine il torrente omonimo che si getta a Pierabech nel Fleons o Degano, dopo aver ricevuto, come confluente, il Volaja. Il tenente Santi — che oltre ad essere il mio superiore, è un mio amico carissimo — ci ha fatti sostare per alcuni minuti in posizione conveniente per vedere, senza essere visti, le linee nemiche. Col binocolo si vedono benissimo, anche nei dettagli, i «blockhouses» austriaci che presidiano il Passo di Giramondo. Il tenente Barnaba, territoriale, della compagnia dei volontari alpini, è stato lieto di incontrarmi, e ci ha offerto un sorso di cognac. Di lassù, lo sguardo abbraccia un panorama di montagne meraviglioso. Le Dolomiti della sinistra del Cadore lanciano al cielo le loro guglie sottili. L’anima — dinanzi a questa visione — si dilata e si esalta. La montagna, come il mare, fa « sentire » l’immensità.

6 Aprile.
Giornata movimentata quella d’oggi. Scrivo queste righe, a notte alta, nel « blockhouse » illuminato da un mozzicone di candela. I miei compagni dormono. Stamani ho compiuto la solita ricognizione. Siamo giunti sino al costone che per la sua strana conformazione viene chiamato « spina di pesce » In quel punto la neve è alta oltre dieci metri. Ha colmato gli scoscendimenti e formato una specie di pianoro. Durante tutta la mattinata, violento duello delle artiglierie di medio e grosso calibro. All’una del pomeriggio ho ricevuto un ordine-fonogramma di intensificare la vigilanza e di lavorare attorno al « blockhouse » essendoci probabilità di un attacco nemico. Ci siamo messi immediatamente al lavoro. Mentre le artiglierie ricominciavano il loro bombardamento reciproco, abbiamo scavato una trincea a destra e una a sinistra della ridotta. Qui opporremo la prima resistenza. Poi ci chiuderemo nel « blockhouse » che ha tante feritoie quanti sono gli uomini di guardia. La consegna è semplice e categorica. I « blockhouses » devono resistere a oltranza, sino all’ultima cartuccia. Abbiamo infatti un’abbondante dotazione di munizioni.  Il tenente ci ha detto: — In caso di attacco, voi siete i « sacrificati » se i rinforzi non giungono in tempo.
Posa di reticolati. Oltre i posti di vedetta, i fili di ferro dentato sono intricatissimi. Il bombardamento nemico sul Volaja è durato sino a notte. Due granate sono cadute poco lungi da noi, ma senza scoppiare. — Vigilare! Occhi aperti, stanotte, e orecchie spalancate!
7 Aprile.
Solita ricognizione. Ci siamo spinti oltre il costone Lambertenghi, così chiamato in onore del tenente degli alpini, che scendendo dal Volaja in ricognizione, vi fu colpito a morte da una fucilata austriaca. Qui, alcuni mesi fa, venne catturata dai bersaglieri una piccola pattuglia nemica. Cielo nubiloso. Pochi colpi di cannone nel pomeriggio.
IL MORALE
Il « morale ». Posso scriverne dopo tanti mesi di consuetudine coi soldati? Che cosa è il « morale »? Definirlo in maniera precisa, racchiuderlo in un breve giro di frasi come un ordine di servizio è impossibile. Il « morale » appartiene alla categoria degli « imponderabili »: non lo si misura, lo si sente, lo si avverte, lo si intuisce. Il « morale » è il maggiore o minor senso di responsabilità, il maggiore o minore impulso al compimento del proprio dovere, il maggiore o minore spirito di aggressività che un soldato possiede. Il « morale » è relativo, variabile da momento a momento; da luogo a luogo. Questo stato d’animo che si riassume globalmente col termine « morale » è il coefficiente fondamentale della vittoria, preminente in confronto dell’elemento tecnico o meccanico. Vincerà chi vorrà vincere! Vincerà chi disporrà delle maggiori riserve di energia psichica volitiva. Centomila cannoni non vi daranno la vittoria, se i soldati non saranno capaci di muovere all’assalto; se non avranno il coraggio — a un dato momento — di « scoprirsi » e di affrontare la morte. Non si può giudicare il « morale » dei soldati da un semplice episodio o da un contatto occasionale. Il gesto di un soldato vi può far credere che tutto l’esercito sia composto dì eroi, la parola di un altro vi può far pensare esattamente il contrario. L’errore della « generalizzazione » è quello nel quale cadono coloro che parlano di morale senza aver vissuto coi soldati ed essendosi limitati, invece, ad una rapida visita o ad un fugace colloquio. Il « morale » dei soldati in prima linea è diverso da quello dei soldati delle retrovie; le classi anziane e le classi giovani hanno un « morale » diverso; i soldati contadini presentano differenze di morale in confronto dei soldati nati e vissuti nelle città. Il « morale » dei soldati che hanno battuto le vie del mondo, è più alto di quello dei soldati che non mossero mai piede oltre la cerchia del borgo natio; le sfumature sono infinite, come innumerevoli sono i tipi umani. Rivendico il diritto di trattare la questione, perché ho « studiato » coloro che mi circondano, che dividono meco il pane, il ricovero, i disagi, i pericoli; ho « sorpreso» i loro discorsi, fissati i loro atteggiamenti spirituali e nelle più svariate contingenze di tempo e di luogo che la guerra impone al soldato: in prima linea e in seconda linea; in trincea e in riposo; durante il fuoco, prima e dopo il fuoco; nel treno attrezzato; all’ospedale, nelle tradotte; al deposito di rifornimento, durante le marce di giorno e di notte; sotto la pioggia, sotto la neve, sotto la mitraglia... E la mia conclusione è questa: il « morale » dei soldati italiani è buono: i soldati italiani sono disciplinati, coraggiosi, volonterosi. Sapendoli prendere per il loro verso, considerandoli capaci di ragionamenti e non semplici numeri di matricola, si può ottenere dai soldati italiani tutto ciò che si vuole; dal lavoro oscuro della corvée all’assalto irruente e micidiale della baionetta.fregio del 19°, su conglomerato di cemento (tracce rosse licheni) che prenderà le trincee l'anno successivo dal sito Grande Guerra sotto Una compagnia in guerra ha circa 250 uomini. Dal punto di vista del «morale» si possono dividere in gruppi nella maniera seguente. Ci sono 25 soldati — artigiani, professionisti e volontari italiani — che sentono le ragioni della nostra guerra e la combattono con entusiasmo. Altri 25 sono quelli tornati volontariamente dai paesi d’Europa o da quelli d’oltre Oceano. Gente che ha vissuto; gente che ha acquistato una certa esperienza sociale. Sono soldati ottimi sotto ogni rapporto. Ci sono una cinquantina d’individui — giovani — che fanno la guerra volentieri. Il grosso della compagnia — un centinaio — è rappresentato da coloro che stanno fra i rassegnati e i volonterosi: accettano il fatto compiuto, senza discuterlo. Sarebbero rimasti volentieri a casa, ma ora la guerra c’è e sanno compiere il proprio dovere. Ci sono in ogni compagnia una quarantina di individui indefinibili, che possono essere valorosi o vigliacchi, a seconda delle circostanze. Il rimanente si compone di refrattari, di incoscienti, di qualche canaglia che non sempre ha il coraggio di rivelarsi, per la paura del Codice Militare. Queste cifre possono variare, ma la proporzione è quella. In definitiva, il «morale» dei soldati dipende da quello degli ufficiali che li comandano. Non è il caso -ora - di dire ciò che si è fatto per tenere alto il « morale» dei soldati italiani e ciò che non si è fatto. Verrà il tempo anche per questo discorso.
11 aprile
Fatto due trincee e un sentiero che unisce tutta la linea delle nostre ridotte.
12 aprile 1916.
Questa è la guerra del buio, della notte. Le giornate trascorrono in una grande tranquillità: le notti invece sono sempre movimentate. Si comincia a combattere nel crepuscolo e si continua a tenebre alte. Stanotte fuoco vivo di fucileria in Bordaglia Alta. Lo scoppiettare secco dei fucili era, di quando in quando, coperto dal fragore delle bombe a mano. Stamani leggera nevicata.  Poi, sole. Siamo andati a ultimare le trincee. Quando si tratta di questi lavori i soldati non battono la fiacca. Le due trincee dominano tutta la valle del Volaja. Me lo ha detto il cap. Ricchieri, dei bersaglieri ciclisti, che conosce a meraviglia queste posizioni. Poiché l’ultima trincea in alto è stata disegnata da me e scavata sotto la mia direzione, il cap. Ricchieri mi tributa un piccolo elogio. Ho preparato due tabelle di legno, che abbiamo inchiodato su due tronchi mozzati, i nomi delle trincee. La più lunga, che è quella più in basso sarà chiamata d´ora in poi il Trincerone dei bersaglieri, quella in alto Trincea Cadorna in onore del nostro generalissimo.
 

(tratto da Benito Mussolini, Il mio diario di guerra 1915-1917, Edizioni FPE Milano, 1966) http://www.lagrandeguerra.info/articoli.php?i=44 
Bordaglia di Sotto: postazione in caverna nei pressi della casera con iscrizione datata agosto 1933. Venne realizzato un trinceramento che scendeva fino a raggiungere i pascoli di Bordaglia d.S. allo scopo di sbarrare e proteggere il fianco destro, rivolto al lago di Bordaglia. Dalla casera il sistema proseguiva con una serie di blockhouse e piccoli posti mentre la linea principale la ritroviamo più arretrata sulla dorsale della cima Ombladet.

QUI/ BENITO MUSSOLINI/ SOLDATO D´ITALIA COMBATTENTE
AFFERMO´LA NOBILTA´DEL SACRIFICIO/ PER LA PATRIA/
MONITO INCITAMENTO/ ALLE FUTURE GENERAZIONI/
COMANDO FEDERAZIONE F.G.C. FRIULANI/
MARZO 1916 – AGOSTO 1933 – XI

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