L'ULTIMA IMPRESA E IL

RITORNO DI GARIBALDI (1848)

PREMESSA  

Fratelli,

"Avanti ieri ebbe luogo nei Campi di Santo Antonio, a una lega e mezzo da questa città, il più terribile ed il più glorioso combattimento. Le 4 compagnie della nostra Legione, e circa 50 uomini di cavalleria rifugiatisi sotto la nostra protezione, non solo si sono sostenuti contro 1200 uomini di Servando Gomez, ma hanno sbaragliato interamente la fanteria nemica che li assaltò in numero assai superiore. Il fuoco cominciò a mezzogiorno e durò fino a mezzanotte; non valsero al nemico le ripetute cariche delle sue masse di cavalleria, nè gli attacchi dei suoi fucilieri a piedi; senz'altro riparo che una casupola in rovina coperta di paglia, i legionari hanno respinto i ripetuti assalti del più accanito dei nemici; io e tutti gli ufficiali abbiamo fatto da soldati in quel giorno. Anzani, ch'era rimasto al Salto, ed a cui il nemico aveva intimato la resa della piazza, rispose colla miccia alle mani e il piè sulla Santa Barbara della batteria, quantunque lo avessero assicurato che noi tutti eravamo caduti morti o prigionieri. Abbiamo avuto 37 morti e 53 feriti; tutti gli ufficiali sono feriti. Io non darei il mio nome di legionario italiano per tutto il globo in oro".

G. Garibaldi.

DECRETO
"Desiderando il Governo (uruguayano) dimostrare la gratitudine della patria ai prodi che combatterono con tanto eroismo nei campi di Sant'Antonio il giorno 8 del corrente; consultato il Consiglio di Stato, decreta:
Art. 1. Il Generale Garibaldi, e tutti coloro che lo accompagnarono in quella gloriosa giornata, sono benemeriti della Repubblica.
Art. 2. Nella bandiera della Legione Italiana saranno iscritte a lettere d'oro, sulla parte superiore del Vesuvio, queste parole. "Gesta dell'8 febbraio del 1846, operate dalla Legione Italiana agli ordini di Garibaldi".
Art. 3. I nomi di quelli che combatterono in quel giorno, dopo la separazione della cavalleria, saranno iscritti in un quadro, il quale si collocherà nella sala del Governo, rimpetto allo Stemma Nazionale, incominciando la lista col nome di quelli che morirono.
Art. 4. Le famiglie di questi, che abbiano diritto a una pensione, la goderanno doppia.
Art. 5. Si decreta a coloro che si trovarono in quel fatto, dopo di esserne stata separata la[10] Cavalleria, uno scudo che porteranno nel braccio sinistro con questa iscrizione circondata di alloro: "Invincibili combatterono l'8 febbraio 1846".
Art. 6. Fino a tanto che un altro corpo dell'Esercito non s'illustri con un fatto d'arme simile a questo, la Legione Italiana sarà in ogni parata alla diritta della nostra fanteria.
Art. 7. Il presente decreto si consegnerà in copia autentica alla Legione Italiana, e si ripeterà nell'ordine generale tutti gli anniversari di questo combattimento.
Art. 8. Il Ministro della Guerra resta incaricato della esecuzione e della parte regolamentare di questo decreto che sarà presentato alla Assemblea de' Notabili: si pubblicherà e inserirà nel R. U.
"Suarez—Jose de Beia—Santiago—Vasquez Francisco-J. Mugnoz".

Augusto Elia - RICORDI DI UN GARIBALDINO dal 1847-48 al 1900 - ROMA TIPO-LITO DEL GENIO CIVILE 1904

CAPITOLO I.
Garibaldi in America (l'ultima azione)

Nato in Ancona il 4 settembre del 1829 e figlio d'un marinaro, Elia volle fin dalla tenera età di nove anni intraprendere esso pure la carriera del mare incominciando ad esercitarla da mozzo e percorrendola tutta, fino a diventare Capitano di lungo corso. Nei suoi viaggi più volte gli era occorso di entrare in relazione con patrioti italiani; nei loro discorsi aleggiava già la fulgida figura di Giuseppe Garibaldi. Si sentivano entusiasmati dal racconto delle eroiche azioni da lui compiute nell'America del Sud, ne apprendevano i particolari con avidità e ne facevano prezioso tesoro. Era tutta un'epopea che vedevano svolgersi intorno all'eroe, e loro sembravano omeriche gesta quelle compiute in difesa della piccola repubblica dell'Uraguay invasa dalle truppe del terribile Rosas, e fra le altre, la campagna del Paranà combattuta da Garibaldi con tre piccoli legni, male armati, contro tutta la flotta Argentina comandata dall'Ammiraglio Brown; e particolarmente il combattimento di Nuova Cava decantato quale uno dei più brillanti fatti navali. La gloriosa giornata di Sant'Antonio al Salto fu poi quella che illustrò il nome italiano e rese celebre quello di Garibaldi; combattimento di leoni che il Generale stesso descrisse così:

 

L'ULTIMA IMPRESA - Sant'Antonio al Salto

"Nella mattina del 18 febbraio 1846 dalle ore 8 alle 9 sortii dell'accampamento del Salto alla testa di 190 legionari italiani divisi in quattro piccole compagnie e circa 200 cavalieri comandati dal Colonnello Baez che da pochi giorni si era a noi riunito. Costeggiando la sinistra dell'Uraguay un pò prima delle 12 si arrivò alle alture del Tapevi, fiancheggiato sempre dal nemico che fu tenuto in soggezione dalle nostre catene di Cacciatori. La fanteria prese posizione sotto tettoie di paglia, che altro vantaggio non ci offrivano fuorchè di ripararci dai cocenti raggi del sole; la cavalleria si spinse fino al Tapevi in esplorazione. Una mezz'ora passò senza nessuna dimostrazione ostile per parte del nemico; ma questo da tempo covava un inganno e ci aveva tratti nell'agguato, occultando accuratamente le sue forze nei boschi del Tapevi, per trarci in aperta campagna, cosa che non gli riuscì, causa l'azione della nostra batteria. La nostra cavalleria, attaccata da forze molto superiori, fu travolta e messa in fuga, meno pochi che ci raggiunsero. Io arringai con brevi parole i miei:-"I nemici sono molti, ma per noi sono ancora pochi-non è vero? Italiani! questo sarà un giorno di gloria pel nostro paese; non fate fuoco se non a bruciapelo. Grandi masse di cavalleria si avanzano su di noi, e per poco ci lusingammo di avere a fare con la sola cavalleria; ma fummo ben presto disingannati nel vedere scendere dalla groppa dei cavalli i fanti, ed ordinarsi in numero di oltre 300 : mille e più erano i cavalieri, tutti sotto il comando del generale Servando Gomez. Le nostre piccole compagnie furono ordinate in battaglia sotto le tettoie per trarre profitto di una scarica generale e caricar quindi alla baionetta; la cavalleria, ridotta in pochi, si tenne pronta ad agire ove più occorreva. A. Elia

La fanteria nemica ci assaliva di fronte; la cavalleria ci prendeva ai fianchi ed alle spalle: ma quando la fanteria fu a trenta passi da noi, l'accogliemmo con una scarica così concorde ed aggiustata, che s'arrestò di botto: e poiché anche il suo comandante era caduto da cavallo lo scompiglio del nemico crebbe a tal segno che noi pensammo di trarne profitto immediatamente. E ben n'era tempo, perché anche la cavalleria ci era sopra e pochi istanti di titubanza ci potevano riuscir fatali. Con l'esempio e con la voce, ci scagliammo all'attacco della fanteria impegnando una lotta corpo a corpo che terminò colla quasi distruzione del nemico. Anche la nostra cavalleria ci giovò in quel frangente, divergendo da noi parte delle truppe nemiche e caricando forze dieci volte superiori, quando già stavano per piombare su di noi. Distrutta la fanteria restammo padroni del campo; il nemico si ritirò a rispettosa distanza atterrito dalla nostra difesa. Non abbandonò però il pensiero di considerarci come cosa sua, e dispose tutta la sua cavalleria-metà della quale era armata di carabine - all'intorno del nostro campo, sicuro che la fame e la mancanza di munizioni ci avrebbero costretti alla resa. La nostra posizione era ben critica: scemati di numero, feriti la maggior parte dei superstiti, circondati da un nemico imponente e minaccioso, la nostra energia era pressochè esaurita; guai a noi se il nemico ci avesse attaccati un'altra volta in quel momento. In attesa della notte si diede opera a sollevare e curare i feriti. Era tanto il terrore del nemico per l'eroismo dei legionari, che i suoi capi non riuscirono a condurlo ad un secondo attacco. Infine venne la desiderata oscurità.
Ad un miglio circa dal luogo del combattimento eravi il bosco che costeggia l'Uraguay, porto di salvezza, che l'ignoranza del nemico aveva lasciato aperto. In gran silenzio si formò una piccola colonna- così dice Garibaldi - i feriti atti a camminare, furono posti nel mezzo, caricati sulle spalle!... Ad un dato segnale si partì compatti, a passo accelerato, decisi a tutto; si prese la direzione del bosco passando silenziosi avanti al nemico, che stupefatto, del nostro ardire ci lasciò libero il varco, e prima che si fosse riavuto o fosse stato in grado di seguirci noi avevamo raggiunto il bosco, porto tanto necessario e desiderato. Nessuno si sbandò - ubbidienti all'ordine, tutti si gettarono a terra, distesi in una lunga catena, in attesa del nemico che non si fece attendere molto. Il suono delle sue trombe ci avvisò del suo avvicinarsi, e poco stante comparvero i suoi squadroni, che noi, silenziosi e nascosti, attendemmo fino alla distanza di venti passi per salutarli con una salva che li colpì nel più fitto, e riuscì micidiale, tanto da metterli in scompiglio e deciderli a dar volta a briglia sciolta!. Soddisfatto il bisogno il più sentito, quello della sete, riprendemmo la ritirata verso il Salto. A poca distanza dal paese incontrammo il bravo Anzani, Comandante la legione italiana, che ci era venuto incontro per abbracciarci. Gli abitanti del paese presero amorevole cura dei nostri feriti. La nostra perdita ammontò a 43 morti, gli altri quasi tutti feriti; ma le perdite del nemico furono assai gravi, più di 500 fra morti e feriti, e fra i morti diversi ufficiali superiori. Appena si seppe che la campagna era libera dal nemico, sortimmo per raccogliere i corpi dei nostri fratelli per dar loro onorata sepoltura sul terreno ove caddero valorosamente, pugnando per tenere alto ed onorato il nome italiano. Una alta Croce colla modesta iscrizione:-37 italiani morti combattendo l'8 febbraio 1846 - indica il luogo ove queivalorosi riposano per sempre"! Salto 10 febbraio 1846.

 
Garibaldi restò ancora alcuni mesi al Salto di Sant'Antonio, continuando a battagliare colla flottiglia e colla Legione, fino a che il Governo stesso lo chiamò a Montevideo. Sul cominciare di settembre il Generale Pacheco che aveva immensa affezione e stima di Garibaldi gli offrì il comando della Piazza. Per ubbidienza Garibaldi accettò l'arduo incarico, ma ben presto grandi e piccole gelosie, pregiudizi locali, permalosità spagnole, scoppiarono contro di lui e lo fecero accorto che era meglio deporre l'ufficio. Saputosi a Montevideo la notizia dell'assunzione al trono pontificale di Pio IX e delle sue idee riformatrici, nonchè delle apparenti sue intenzioni di promuovere guerra contro l'Austria, a Garibaldi ed ai suoi legionari sembrò giunta l'ora di combattere per la redenzione della loro terra natale, e senza indugio, in nome suo e dei suoi compagni d'arme, scrisse al Nunzio papale a Montevideo, offrendo i suoi servigi nella guerra contro lo straniero. Contemporaneamente scriveva al suo amico Paolo Antonini di Genova, concludendo così:... 

..."Io pure, con gli amici penso venire in Italia ad offrire i deboli servigi nostri, o al Pontefice o al Granduca di Toscana. Indi avrò il bene di abbracciarvi. Qui si aspettano notizie d'Europa. Amate il vostro" Montevideo 27 dicembre 1847 G. Garibaldi

 

Caprera, 18-3-76. Mio caro Elia, I fatti esposti nel vostro manoscritto sono esatti per ciò che riguarda quanto io ne conosco. Un caro saluto alla famiglia dal sempre vostro G. Garibaldi.

     
G.B. Cuneo Memorie di Garibaldi-..... Ma oramai per Garibaldi era diventato impossibile rimanere più a lungo lontano dalla patria; e veniva a mirabilmente secondare il di lui desiderio di ritornarvi e a dare probabilità di buon esito ad progetto concepito in tempi remoti, la straordinaria concitazione degl'Italiani residenti in Montevideo, i quali eransi al lieto annunzio dei primi moti in Italia, sollevati alle più sublimi speranze e cacciati da uno di quegli impeti di cuor generoso, avevano in poco tempo per mezzo d'una soscrizione nazionale raccolto una vistosa somma che essi destinarono fin dal primo momento “per la spedizione in Italia comandata da Garibaldi”. Accompagnato da un cento tra soldati, della legione ed altri volontari, salpava finalmente da Montevideo nel mese di aprile del 1848 e dopo una lunga navigazione e 14 anni d'esilio onorato rivedeva e toccava la patria. Approdò Garibaldi in Nizza ad abbracciarvi la vecchia madre con la moglie e i figli, che aveva qualche mese prima avviati alla casa patema , quindi s’affrettava a Genova per la via del mare con lo stesso legno, la Esperanza, che avevalo trasportato coi compagni da Montevideo. Garibaldi non si fermò che pochi momenti; prese difilato via per Torino ansioso di agire egli pure essendo già la guerra dell’indipendenza inoltrata. Ma l’uomo ch’erasi mosso dall'America, divorato dalla febbre di combattere per la gloria e l’Indipendenza italiana, trovava nel Ministero d'allora fredda accoglienza (prima però in Carlo Alberto), e parole che dovettero fare una ben triste sensazione su quell'animo non d'altro bramoso che d'opera, e persuaso che questo fosse titolo sufficiente ond'essere ben accetto ad uomini che reggevano un paese, combattente contro l'Austriaco. Noi lasciamo alla storia che dovrà trasmettere ai futuri la spiegazione di tanti avvenimenti accaduti in questi ultimi due anni tuttora avvolti nel mistero.  

chi non ha paura, ha un grande elemento di vittoria.

Come già fatto nei capitoli giovanili le memorie di G.B.Cuneo (in bianco) vengono intervallate da spiegazioni e precisazioni di questo sito (in giallo) su momenti in cui Cuneo sorvola  

 

Il 23 giugno 1848 la nave era entrata in porto (a Nizza, Piemontese) senza scontare la quarantena per lo sbarco dei passeggeri. Garibaldi ha appena il tempo di salutare Anita, la mamma e i figli e parte per Genova mentre l’autorità piemontese gli da assistenza per i compagni. Garibaldi non intende entrare nelle dispute dei partiti che da tre mesi si spartivano le prime pagine dei giornali sul futuro dell’Italia che non era ancora cominciato. Garibaldi sa che si sta combattendo contro l'Austria (che non è il Brasile sia come impero che come territorio). Le guerre si vincono unendo le forze e due giorni dopo l’arrivo emana un proclama dove dichiara di non essere mai stato monarchico ma, nella situazione attuale, bisogna passar sopra gli schieramenti e offrirsi, con i suoi, al re di Sardegna, «che si è fatto il rigeneratore della nostra penisola». Di tanti re ignavi e incapaci Carlo Alberto è il portabandiera, ma Garibaldi non poteva conoscerlo. Si decide si alla guerra ma Milano gli viene “offerta” libera ma di idee molto contrarie alle sue. Il 29 Garibaldi è a Genova coi legionari (a Nizza si sono arruolati molti giovani e sono aumentati), accolto dalla folla con battimani ed evviva. Ripete il proclama «Gli sforzi degl'italiani si concentrino in lui (Carlo Alberto). Guai a noi se, invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi e inutili e, peggio ancora, se cominciamo a sparger tra noi i semi della discordia». L’incontro fra Mazzini e Garibaldi (il primo) è fra sordomuti. Garibaldi che è vissuto nel suo culto per 15 anni d’ora in poi lo eviterà per le tante imprese, rivolte, insurrezioni senza senso vendute agli adepti (Mazzini come C. Alberto sembra stare su un altro pianeta). Si risente l’indottrinato Medici della nuova linea ma il moribondo Anzani li riunisce: “è un predestinato”, gli dice con parole profetiche. Francesco Anzani muore il 5 luglio lui più giovane di Garibaldi, lui che come disse il generale uruguayano Rodriguez non l’ho mai visto ridere, sbraitare. Anzani parlava sempre a bassa voce e Garibaldi lo chiamava "signor Anzani". Jessie White Mario disse che se Garibaldi era il condottiero militare della Legione Italiana, Anzani era "il suo capo e la sua guida morale". Per raggiungere Carlo Alberto a Roverbella, presso Mantova, dove ha il quartier generale, si fa prestare 500 lire da un amico. Il re lo riceve il 5 luglio. Lo accoglie freddamente. Ascolta la richiesta di affiancarsi alle truppe regolari coi suoi volontari. Gli fa osservare che i volontari devono confluire in battaglioni appositamente istituiti, che bisogna rispettare delle regole. Lo invita a rivolgersi al ministro della Guerra, a Torino e questo lo manda da quello degli interni che dovrebbe fornirgli «mezzi necessari per dirigersi altrove» (Venezia ?). Nel ritornare a Torino si ferma a Milano dove incontra il Governo provvisorio che nella disperazione lo fa generale. Davanti all'albergo il 14 luglio si raccoglie una folla osannante e pochi giorni dopo i suoi. Il 21 luglio Garibaldi forma il Battaglione Anzani, comandato da Giacomo Medici che ora ha il plauso di Mazzini. Ma questa gente non ha di che vestirsi e mangiare, non è il Sudamerica delle distese di mandrie. Il 25 luglio Carlo Alberto è sconfitto a Custoza, è in rotta e si ritira su Milano che ora è minacciata direttamente.  

I BERSAGLIERI PAVESI DELL'ALBERGO DELLA  BECCACCIA

Angelo Pigurina "Portoghesi". Fra i vari personaggi che costituivano la cerchia guerresca del biondo Eroe c’era anche questo Pigurina cagliaritano (1815) già compagno di moti mazziniani (1834) ed esule come lui in Sudamerica. Nel 1848 era ritornato e qui sul lago era finito nel combattimento di Luino al comando dei Bersaglieri Pavesi del 2° corpo dove trovarono la morte Franzini Benedetto, Lanza Urbano Pietro, Marangone Emilio, Sora Angelo ed altri ricordati nel monumento eretto a Garibaldi. ... segue sotto

Angelo Bassini (Pavia 1815 - 1889), patriota poi colonnello dei Mille.

 

 

 

D’Aspre, generale austriaco, ebbe poi a dire della prima guerra d'Indipendenza “L’uomo che avrebbe potentemente  giovato alla vostra guerra, voi (Italiani) non  lo avete conosciuto e questi  è Giuseppe Garibaldi”

     
Angelo Pigurina (detto Portoghesi)
Pigurina era nato a Cagliari nel 1815 poi come molti isolani era entrato nella marina sarda. L'amicizia con Garibaldi risaliva al 1834 quando l'appena diciannovenne Pigurina aveva partecipato al tentativo rivoluzionario di Genova e della Savoia. In quella circostanza fu catturato e finì in prigione. Liberato nel 1836 si trasferì a Montevideo e ritrovò Garibaldi che nel frattempo era diventato comandante della Marina uruguayana. Garibaldi lo volle con sè a bordo di una delle sue navi e poi gli offrì di comandare una delle compagnie della Legione italiana che nel 1846 andava costituendo con l'obiettivo di rientrare a combattere per l'unità del Regno sardo. Il nome di Pigurina compare per la prima volta in una lettera del 1843 che Garibaldi inviò al ministro della Guerra del governo di Montevideo. Il Generale all'epoca era a capo della Escuadrilla nacional, la flottiglia da guerra impegnata nella difesa della capitale uruguayana. Nella lettera Garibaldi proponeva la promozione al grado di capitano del tenente di Marina Angelo Pigurina proponendo per lui il comando di una delle navi. Qui aveva anche formato una famiglia (numerosa) con una tredicenne uruguayana, Maria Dadana, nel 1845. Ne ebbe quattro: il maggiore lo chiamò Efisio, in onore del santo della sua città a cui rimase sempre legato. Quando Garibaldi parte per l'Italia con 65 legionari Pigurina è del gruppo. Durante la prima guerra d'Indipendenza il giovane cagliaritano ebbe il comando di una compagnia composta interamente da studenti dell'Università di Pavia. «A me toccò l'onore di comandare questo battaglione di volontari tanto intelligenti che valorosi» scrisse Pigurina nel suo Memoriale. E Garibaldi conferma nelle Memorie l'eroico comportamento dei pavesi che assalirono gli austriaci con la baionetta durante lo scontro della Beccaccia nei pressi di Luino. Era il 14 agosto, quattro giorni dopo l'armistizio di Salasco che in seguito alla sconfitta di Custoza aveva posto fine alla prima fase della guerra. Dopo la prima fase della guerra ci sarà la Repubblica Romana nella quale, il 3 giugno, fu ferito gravemente mentre combatteva sul bastione San Pancrazio per respingere l'attacco dei francesi. Non poté seguire Garibaldi nella sua fuga con Anita . Con le ferite ancora aperte Pigurina riuscì a fuggire da Roma e a rifugiarsi in Sardegna. «Non rividi Garibaldi - scrisse l'ufficiale - se non tre mesi dopo quando giunse in Sardegna a bordo di una nave militare del Governo Sardo che lo conduceva in esilio nell'isola di La Maddalena. Garibaldi lo invito ad unirsi a lui sperando di averlo come compagno d’esilio ma gli ordini erano di far proseguire Pigurina per Genova. . «Allora Garibaldi mi consigliò di tornare in America, nostra seconda Patria». «Non è lontano il giorno - gli disse - in cui la nostra Patria avrà bisogno di noi e, allora, mio buon amico torneremo a riunirci». Pigurina si riuniva quindi di nuovo alla famiglia sudamericana e ritornava al mestiere di soldato. . Nel 1860 ricevette da Garibaldi un'ultima lettera con la quale lo invitava a raggiungerlo in Italia per una nuova campagna risorgimentale. Ma il sardo, a malincuore, gli rispose di esser invalido per la vecchia ferita e soprattutto di non poter lasciare la moglie e quattro figli piccoli senza sostentamento. Dismessa la divisa si dedicò all'allevamento e alla campagna, circondato dall'affetto dei familiari e dei tanti amici ex legionari. Morì in Uruguay senza più aver rivisto il Generale e la sua amata Sardegna nel 1878. Aveva 63 anni.
 

Una insolita iconografia di un Garibaldi benedicente

     
Dopo avere inutilmente vagato e perduto un prezioso tempo, Garibaldi recavasi alla fine in Milano, ove il Comitato di pubblica difesa non esitava un solo istante a trar profitto dell'Illustre guerriero, al quale dava subito l’incarico di arruolare i volontari e formare un corpo che destinava a difendere la provincia bergamasca. In breve tempo affidati al nome del capo, correvano sotto i di lui ordini circa 3000 uomini che immantinente venivano spediti alla volta di Brescia. Non ancor bene aveva egli disposto le cose nella suddetta provincia che era in tutta fretta chiamato a Milano, cui le sorti avverse della guerra facevano temere guai che purtroppo si sono poi realizzati. Senza frapporre indugio rapidamente avviavasi alla minacciata città. Garibaldi giungeva a Monza, distante dodici miglia da Milano, quando l'infausto annunzio dell'armistizio Salasco gli rivelava la tristissima condizione delle cose nostre. Garibaldi che aveva veduto un sì fiorente esercito e i soldati correre bramosi come a festa alla battaglia, e gioire al tonare delle artiglierie e affrontare con tanto valore la morte, sospettò quell'armistizio una trama di pochi codardi, sdegnò, piegarsi a tanto infortunio e preferì alla Vergogna di scendere a patti coll’Austriaco, incontrare coi pochi suoi fidi la morte contro il soverchiante nemico.
Coll’intento adunque di scieg1iere un terreno su cui gli fosse dato protestare solennemente ed un modo onorevole per L’Italia contro gli avversi destini, egli avviavasi da Monza alla volta di Como e di la prendendo la via dei monti dirigevasi ad Arona , ove tolti all'Austriaco i due vapori S. Carlo e Verbano imbarcava su questi le sue truppe e con esse navigando pel Lario giungeva alla spiaggia di Luino inaspettato, mercè le rapide marce con ch’erasi accelerato per giungere in Arona. Era Luino occupato in quella circostanza da un numero di truppe austriache forte quattro volte più delle sue. Nonostante egli risolvevasì ad attaçcarlo ne' suoi propri alloggiamenti; e l'Incredibile audacia sortendo esito fèlice veniva a riconfermare la nota sentenza: chi non ha paura, ha un grande elemento di vittoria.
 

Giuseppe Cesare Abba - Storia dei Mille - L'ottava compagnia

 

..... e l'ultima era l'ottava. L'aveva raccolta quasi tutta nella sua Bergamo Francesco Nullo, che la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini pavese, certo di darla a chi l'avrebbe condotta da bravo. Era il Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in aria, quel cuore avrebbe mandato luce come il sole; e se lo avesse lanciato nell'inferno, avrebbe fatto divenir buono Satana stesso. A Roma il 3 giugno del '49, nell'ora dello sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi di Villa Corsini, percotendo,  insultando, gridando a chi volesse ammazzarlo, e nessuno lo aveva ucciso. Aveva una testa che sembrava una piazza d'armi, ma l'espressione della sua faccia ricordava quella di certi santi anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco; ostinato nell'idea che gli si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove gridava: "Appiccati!" ma lo abbracciava e gli dava subito ragione, intenerito e devoto.

Garibaldi lancia un nuovo proclama. Si rivolge ai giovani: «L'Italia ha bisogno di voi .. Accorrete, concentratevi intorno a me .. ». II 29 luglio ha l'ordine di difendere Brescia. Si uniscono a lui altri volontari ma non c’è più nulla da fare e le fila si assottigliano. Prende la via dei monti dove secondo lui potrebbe fare la guerriglia come in Brasile, ma si vede che lui marinaio non conosce le Alpi. Da Monza si porta a Como. Lungo il cammino si uniscono a lui Medici e Mazzini, semplice milite, che non reggerà alle fatiche, e si rifugerà subito in Svizzera.

Così dice Garibaldi nelle sue memorie: Mentre marciavo da Monza verso Como, comparve Mazzini con la sua bandiera "Dio e Popolo". Egli si riunì a noi in marcia e seguì fino a Como. Da Como passò in Svizzera, mentre io mi disponevo a tener la campagna dei Monti Cremaschi. Molti dei suoi aderenti o supposti tali lo accompagnarono e seguirono in terra straniera. Ciò naturalmente servì di stimolo ad altri per abbandonarci e si diradarono (ancor più) quindi le nostre file....

E' ai laghi quando viene dato notizia dell'armistizio Salasco del 9 agosto. E’ inferocito e non desiste dai suoi propositi. E’ lo stesso Re ora che dovrebbe fermarlo pena la nullità dell’accordo (ma Garibaldi non è un suo sottoposto). Ad Arona tassa la città (e con questo chiude col favore popolare) 1.286 razioni di pane, 20 sacchi di avena e riso (oltre ai soldi) in zone che pur ricche vi si faticava a mettere assieme il pranzo con la cena. Sequestra due vapori e tenta un colpo di mano di qua dal lago a Luino.
Varese all’inizio del 1848 era una piccola cittadina industriale. Gli austriaci vi tenevano due compagnie comandate dal colonnello Kopal, la cui residenza era casa Robbioni, l’attuale municipio, per difendere le provenienze da Piemonte e Svizzera. A due giorni dalla insurrezione Kopal fece fagotto. Il comitato civico insediatosi decise di mandare a Milano 800 uomini. Ma ora i tempi son cambiati e gli austriaci di ritorno. Il 15 agosto Garibaldi si scontra con una colonna austriaca. E il primo combattimento in Italia. Secondo le sue abitudini, attacca per primo, carica a cavallo alla testa dei suoi. Dopo più di un'ora gli avversari si ritirano. La banda raccogliticcia, formata da giovani in gran parte nuovi alla guerra, ha risposto bene. Il brillante successo dà fiducia ai soldati e alle popolazioni. Però gli austriaci sono stati messi sull'avviso.

 

Ndr: Il racconto della campagna militare di quei mesi del '48 si fa impreciso, man mano che ci si distacca dalle grandi unità di linea del Regio Esercito Sardo. Sarà stata una assenza-manchevolezza dei vertici, un disinteresse del governo provvisorio poi degli storici che non erano per nulla interessati a vicende militari minori ma il risultato di un diffuso "confusionismo" nei ruoli a seconda dei reduci, commentatori più o meno interessati (Garibaldi stesso che non largheggiava in testimonianza quando perdeva), non cambia.

     
Il nome di Garibaldi e l'accanimento con cui sentivasi attaccato, persuadevano il nemico a ritirarsi dall'occupata città; ma il concepito divisamento non poteva così presto mandare ad effetto, che non vi penetrasse Garibaldi e giungesse ancora a tempo da fargli prigione un distaccamento ricoveratosi nella locanda della Beccaccia. Quanto più il nemico ravvisava a sè vergognosa quella ritirata, tanto maggiore era la pertinacia che ei metteva ad evitare un simile sfregio: la resistenza fu quindi ostinata e sanguinosa, ma dovette finalmente cessare all'impeto dei nostri, che guidati da Garibaldi in persona, segui vano più che mai bramosi il loro capo che coll'esempio e con infiammate parole inferocivali contro l'Austriaco.
Né a questo primo esperimento collo straniero si acquetava Garibaldi che lasciate alcune ore di riposo nella notte ai compagni, allo spuntar del sole conducevali nuovamente ad inseguire il nemico, il quale concentrate le molte forze che teneva in quei dintorni, aveva formato una cerchia in cui i nostri furono rinserrati. Rimasero in quella difficile posizione per quattro interi giorni senza alcun serio attacco. Nel frattempo Garibaldi avendo avuto agio a ben conoscere il terreno ed a studiar modo ad evadersi colle sue truppe , di notte tempo mettevasi in moto e perveniva con accorte marce a sfuggire al nemico ed entrare in Morazzone: da dove meditava lanciarsi sopra Varese nella speranza di sorprendere
il gen. D’Aspre acquartierato in quel punto con 10.000 uomini, mentre egli comandava appena a 1.300. …G.B. Cuneo

"Un uomo libero vale per dieci schiavi"

Da Felice Venosta … Sconfitti a Custoza e in fuga da Milano, ai piemontesi non resta che chiedere l’armistizio. Non potevano ripassare il Ticino quei corpi (volontari e Garibaldi) che avevano preso la strada della Brianza e che si trovavano nella zona dei Laghi. - Privi di vestimenti, di pane, di denaro, que’ valorosi in parte si dispersero raminghi, in parte, capitanati da Griffini, poterono, per la via dei monti, condursi a mala pena fuori dal passo d’Aprica, ove chi li comandava lasciava i cannoni, consegnando poscia ai Grigionesi (svizzeri) uomini ed armi. Soltanto il generale Giuseppe Garibaldi volle sino all’estremo combattere. Dopo la battaglia di Custoza, i volontari capitanati da lui, i quali sommavano a 5.000, erano dal Comitato di Pubblica Difesa chiamati a Milano
Il 14 agosto 1848, Garibaldi era ad Arona dove chiedeva al Municipio la somma di 10,000 lire, e ne aveva sette con venti sacchi di riso, un migliaio e più di razioni di pane; indi tratteneva i due piroscafi, il San Carlo e il Verbano e nove barche. Salito sul Verbano co’ suoi ufficiali, dava l’ordine della partenza, facendo rimorchiare dalle due macchine i barconi carichi di armati, di munizioni e di vettovaglie. Lungo le rive del Lago veniva dalle popolazioni salutato coi più vivi applausi che mai. Le truppe sbarcavano verso le ore nove di sera a Luvino (Luino). Garibaldi era da più giorni malato di febbre terzana; e quello era il giorno del tremito. Egli nullameno disponeva gli avamposti sulla strada di Germignaga e sul lato opposto del paese. In sull’annottare, mentre aveva chiuso gli occhi al sonno, era avvisato che circa settecento Austriaci appressavansi alla borgata. Senza porre tempo in mezzo, balzava dal giaciglio, poneva in agguato cento uomini dietro una siepe tra la casa Crivelli e l’albergo della Beccaccia; altri cento mandava su di un colle che domina la strada di Varese; il resto lasciava come corpo di riscossa sulla ripa del Lago.
 

Ndr: L’agguato riuscì. Il capitano Vecchi e il maggiore Angelo Bassini con una compagnia di bersaglieri pavesi correvano all’assalto, sfondavano l’uscio di sotto, e nell’ebbrezza del trionfo, a quanti entro trovavano, facevano pagar caro gli stupri, le rapine, le devastazioni d’ogni sorta tollerate da Radetzky durante i mesi di guerra.
Contro di lui il maresciallo Radetzky manda un intero corpo d'armata al comando dell'energico generale Konstantin D'Aspre. Garibaldi teme di essere sorpreso da forze preponderanti. Fraziona il battaglione in varie compagnie, sia per ragioni logistiche, sia per non essere individuato facilmente. Una è al comando di Medici. Incalzate dagli austriaci, si rifugeranno una alla volta nella vicina Svizzera. A Varese l'imposizione di contribuzioni gli aliena gli animi. Riprende il cammino, destreggiandosi abilmente tra i reparti austriaci che cercano di stringerlo in una morsa. A Morazzone il 26 agosto, durante una sosta, è sorpreso da una forte colonna nemica. Come a San Antonio, si difende disperatamente, e nella notte riesce a sottrarsi all'accerchiamento per sentieri impervi. Con lui ormai sono rimasti una trentina d'uomini.

 

- Le bombe, le granate, i razzi, che cadevano sui tetti, che ardevano le case; le strida de’ terrieri, i lamenti de’ feriti, gli urli de’ combattenti; il trarre degli schioppi e de’ cannoni; il frastuono delle campane a martello; la luce sinistra degli incendi; le fumanti rovine, tutto ciò compiva tale uno spettacolo che solo l’immaginazione di Dante avrebbe saputo adeguatamente ritrarre. L’onore dell’italico vessillo era salvo; onde Garibaldi ordinava a’ suoi che, per vario cammino, si riducessero a Stabio, ultimo paese di confine con quello di Svizzera italiana. Garibaldi giungeva quindi in Lugano con ventinove individui, avendo seco la bandiera forata da una palla di cannone. Il nobile suo tentativo aveva così fine, senz’essere stato un istante coadiuvato dagli abitatori delle terre in cui erasi effettuato. Tutti gli altri si erano persi. Il 27 agosto attraversa il lago di Lugano, travestito da contadino in viaggio per la Svizzera. E’ finita.

Dumas padre, il suo biografo

     

Tancredi Scarpelli Arresto Garibaldi in Brasile

Tancredi Scarpelli Roma 1849

 

Teano 1860

dossier completo Garibaldi http://digilander.libero.it/trombealvento/indicecuriosi/garibaldi.htm    

GARIBALDI: LA GIOVENTU', LA FORMAZIONE POLITICA, LE IMPRESE SUDAMERICANE,  IL MATRIMONIO CON ANITA, .... 

 

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