Illusione e realtà, viaggio all’interno del conflitto più antico del mondo.

(Testo della tesina di Fabrizio Borgia per l’esame di maturità 2003 nel Liceo Classico “Amedeo di Savoia” di Tivoli)

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Premessa

La realtà che ci circonda è talvolta menzogna, illusione, rappresentazione, altre volte è cruda verità. Il conflitto verità – illusione è l’elemento portante del mio lavoro, che non poteva trovare spunto più adatto se non nella filosofia di Schopenhauer, nella poetica di Leopardi. Nella visione della tragedia di Nietzsche, nella tragedia di Medea, nello splendido mito di Amore e Psiche per giungere ai tempi nostri con Tolkien e “Il Signore degli anelli” ed infine trattare l’ambiguo rapporto tra reale e virtuale negli ultimi conflitti seguiti in diretta televisiva

 

“ “Il mondo è una mia rappresentazione”: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante…Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole, né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, o una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto con un altro essere, con il percepiente, con lui medesimo”

 

“Dal momento in cui appare questo strumento (il cervello)” “sorge d’un colpo il mondo come rappresentazione, con tutte le sue forme: Il mondo mostra allora la sua seconda faccia; prima era soltanto volontà, adesso è anche rappresentazione”. Nell’uomo. Che costituisce il grado più alto dell’oggettivazione della volontà, questa in sé stessa è incosciente, diventa cosciente in sé: “A quel modo che la luce diventa visibile solo per virtù dei corpi che la riflettono, e senza di ciò si perderebbe senza effetto nelle tenebre”.

 

“E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del Sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomi glia  alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente” [1] 

 

Schopenhauer

Tutto il nostro conoscere, afferma Schopenhauer, è sottoposto al principio della ragion sufficiente che esprime il collegamento universale e necessario di tutti gli elementi della nostra esperienza sotto le forme a priori. A parte la forma più generale dell’essere-oggetto-per-un-soggetto, le nostre rappresentazioni sono tutte sempre sottoposte a tre forme a priori: spazio, tempo e causalità.

In ciò Schopenhauer si discosta da Kant, perché delle dodici categorie di questi, egli ritiene come operante solo quella di causalità, mentre giudica tutte le altre come “finestre cieche”. Anche nel concepire la funzione dell’intelletto e della ragione Schopenhauer si discosta da Kant.

L’intelletto è la facoltà che, applicando il principio della ragion sufficiente al materiale bruto della sensazione, ci fornisce l’intuizione immediata degli oggetti. Esso è proprio così dell’uomo come degli animali. La ragione è, invece, la facoltà che forma i concetti in base alle intuizioni, Essa è proprio soltanto dell’uomo. Se i nostri concetti non corrispondono al contenuto concreto delle intuizioni, non si hanno più pensieri, ma solo parole.

Schopenhauer condivide l’idealismo trascendentale di Kant: le correzioni apportate da Schopenhauer alla filosofia di Kant non intendono modificare – anzi vogliono confermare – la tesi centrale kantiana: l’idealismo trascendentale, mondo che noi  ci rappresentiamo esteso nello spazio e nel tempo non ha esistenza che nel nostro intelletto. Tolto l’intelletto sarebbe tolto anche il mondo.

Il mondo, dunque, è solo un fenomeno, dietro cui è da porre un essere in sé delle cose, che però, per l’intelletto è inattingibile. Con il velo di Maya, espressione  tratta dalla filosofia indiana, Schopenhauer designa il fenomeno o mondo della rappresentazione, inteso come realtà illusoria, paragonabile al sogno, di cui ha la stessa consistenza. Esso, che è una costruzione dell’intelletto, è un’apparenza, la quale ci nasconde la vera realtà, la cosa in sé. All’essenza intima delle cose non è possibile pervenire muovendo dall’esterno dei fenomeni e nemmeno all’essenza di quel fenomeno che ciascuno è a se stesso, come oggetto tra gli oggetti.

Ma ciascuno di noi non è solo puro soggetto conoscente (“alata testa d’angelo senza corpo”). Di se stesso come corpo si può avere un’intuizione immediata, che si sottrae alle forme del principio di ragione e che ci rivela a noi stessi dall’interno nel nostro più intimo essere: come volontà di vita. La Volontà è libera, anzi essa è l’unica cosa che possa dirsi libera (gli esseri fenomenici non lo sono, perché sempre sottoposti alle leggi necessarie che governano la natura). Essa è libera di affermarmi o di negarmi. Dall’atto della sua affermazione è derivato il mondo presente. Di tutti i fenomeni, in cui la Volontà si manifesta, l’uomo è il più perfetto. Attraverso di lui la Volontà può pervenire alla chiara ed esauriente cognizione di sé.

La volontà di vivere (Wille zum leben) che è il principio infinito che pervade tutte le forme della natura con gradi di consapevolezza diversi[2]. Ma. proprio perché la volontà è infinita, la vita è dolore, perché è mancanza di qualcosa, è desiderio, bisogno, sofferenza, perché per ogni desiderio appagato ne rimangono molti altri insoddisfatti e il piacere che si prova  per l’appagamento è breve ed è solo una cessazione momentanea del dolore[3]. Alternativa a ciò è la noia che subentra quando viene meno il desiderio. Egli affermava che “tutto soffre”, dal fiore all’animale ferito e che gli uomini sono quelli che soffrono di più perché, avendo più consapevolezza, sentono di più la spinta della volontà. Giunge così ad un pessimismo cosmico, affermando che dietro le meraviglie del creato si celano esseri tormentati ed angosciati strumenti solo del perpetuarsi della specie. Egli dice che Cupido, il dio dell’amore, “il signore degli dei e degli uomini”, cela in realtà insidie ed inganni[4].  Infatti, proprio quando l’uomo crede di realizzare il godimento e la propria personalità attraverso l’amore, proprio allora è strumento dell’istinto sessuale e della volontà. Tale pessimismo cosmico[5] potrebbe far pensare che Schopenhauer giunga ad una filosofia del suicidio universale, invece egli condanna il suicidio perché è un atto di forza della volontà stessa.

Il suicidio non viene approvato, perché esso può aprire la strada alla cessazione del dolore. Il suicidio è la violenta soppressione del semplice fenomeno della volontà che lascia intatta quest’ultima. In effetti, il suicidio, lungi dall’essere un atto di negazione della volontà, è un atto di affermazione della volontà di vivere.

Schopenhauer è consapevole di capovolgere “per la prima volta dopo millenni di filosofare” il punto di vista di tutti i filosofi precedenti, che hanno considerato come essenza dell’uomo l’essere pensante, e come derivato il suo essere volente.

Questa tesi fondamentale ha permesso di definire Schopenhauer il capostipite dell’irrazionalismo filosofico. Schopenhauer sostiene che l’esistenza è sempre e necessariamente dolore e vuole darne una giustificazione metafisica.

La storia per Schopenhauer è la successione secondo il tempo di una serie di fatti che variano secondo le circostanze, ma sono pur sempre azione fenomenica di una Volontà che, nella sua affermazione, è sostanzialmente identica. Nella storia perciò non si produce nulla di realmente nuovo.

In verità, la storia tacerà sempre di ciò che è la cosa più reale, importante: la conversione della volontà nell’interno di coloro che si sono volti “verso un’esistenza interamente divina, anzi opposta”.

Schopenhauer è il filosofo nel quale è possibile rintracciare le più suggestive anticipazioni di Freud. Soprattutto nell’aver riconosciuto a fondamento della personalità dell’uomo l’elemento irrazionale, quale impulso cieco, mosso solo a procurare soddisfazioni ai bisogni istintivi, quell’elemento che, nella terminologia adottata da Freud, prenderà il nome di Es[6]. Insieme a ciò il dominio che la volontà inconscia esercita sulle motivazioni coscienti delle nostre azioni. Per cui un conto sono i motivi immaginari, che foggiamo consapevolmente, e un conto sono i motivi reali che ci spingono inconsapevolmente.

 Egli dice che la liberazione della volontà e del dolore deve partire proprio dalla presa di coscienza della dolorosa condizione dell’esistere, dalla quale nascono le tappe per liberarsi da essa attraverso l’arte, la morale e l’ascesi.

L’arte infatti è conoscenza libera e disinteressata si rivolge a modelli terni delle cose e proprio per questa sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne l’arte sottrae l’individuo alla catena infinita dei bisogni dando un appagamento immobile e compiuto, quindi grazie ad essa l’uomo si eleva al di sopra della volontà del bisogno e del tempo. Tra le arti spicca la tragedia, che è l’autorappresentazione del dramma della vita. Un posto a parte occupa la musica, perché non riproduce idee, ma si pone come rivelazione della volontà a se stessa, capace di metterci a contatto al di là dei limiti della ragione, con le radici stesse della vita e dell’essere.

L’arte ha però una funzione liberatrice solo temporanea, mentre la morale, l’impegno nel mondo a favore del prossimo, la pietà che sperimentiamo e giungiamo all’unità metafisica di tutti gli esseri che va oltre il velo di Maya e quel “principium individuationis” verso il quale gli enti si moltiplicano nello spazio e nel tempo. L’ultimo è l’ascesi ovvero il volere, il mortificare la volontà giungendo all’esperienza del nulla, al nirvana buddista che è un oceano di pace, in cui si dissolve la nozione stessa di “io” di soggetto.

Vedremo poi come Nietzsche, riprendendo il pensiero di Schopenhauer, approda ad una diversa visione della vita.

Schopenhauer e Leopardi

Vogliamo invece in questo momento soffermarci su un  parallelo quasi d’obbligo :quello tra i due grandi pessimisti del XIX secolo, che hanno tratto parimenti il dolore di vivere: il primo ad istituire un parallelo tra Schopenhauer e Leopardi è stato Francesco De Sanctis in un gustosissimo dialogo, intitolato ai due nomi. Leopardi avrebbe potuto leggere  “Il mondo come volontà e rappresentazione” nella sua prima edizione  del 1819, ma non risulta che lo abbia fatto. Risulta, invece, che Schopenhauer trovò consona al suo pensiero la visione della vita del poeta come è attestato, tra l’altro, dallo stesso De Sanctis. Schopenhauer cita Leopardi, manifestando profonda considerazione per l’ “italiano” che ha saputo rappresentare in maniera “profonda” il dolore.

Sulla sofferenza universale concordano che tutti gli esseri dotati di sensibilità siano condannati alla sofferenza: non solo gli uomini, ma anche gli animali, anche le piante. Anche una foresta o un giardino, dove sembra regnare la pace e la tranquillità, sono un luogo di tormento.

Schopenhauer: “No, nella foresta tranquilla, che sembra sognare in disparte, nella prateria che allieta lo sguardo del poeta, tutto è guerra intestina, sterminio implacabile, da albero ad albero, da filo d’erba a filo d’erba, da fiore a fiore…Osservate questa povera pianta secca e smorta (colloqui, Rizzoli, 1982, pagg. 274-275).

Leopardi: “Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sì, pur quanto volete ridente. Sia nella pia mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate dei patimenti. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di sofferenze, qual individuo più, qual meno. Là, quella rosa è offesa dal sole che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là, quel giglio è chiaro crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali punto” (Da Zibaldone, 11, Mondadori, 1945, pag. 1005).

Il poeta giunge a questa visione della natura solo verso la fine della sua vita. Inizialmente, dopo la crisi del 1819, affermava che la natura è come una madre amorosa che ha voluto offrire un rimedio alle sue creature: l’immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato gli occhi degli uomini perché non vedano le loro effettive misere condizioni.

Leopardi dunque afferma che le società primitive dominate dalle illusioni e dalle “belle fole” erano epoche felici e che i moderni sono vittime della ragione che uccide le illusioni. Questo momento del pensiero del poeta è stato definito “pessimismo storico”.

Nel corso degli anni successivi egli mette in discussione tale visione della natura e nel 1824 approda con le Operette morali a quello che è stato definito con fortunata formula  il suo pessimismo cosmico e che costituisce l’assetto, all’incirca definitivo, del suo pensiero.

L’acquisizione è lenta e progressiva, non frutto di un’improvvisa illuminazione: se ne hanno tracce in numerosi pensieri dello Zibaldone, prima che trovi una più organica definizione in alcune Operette morali e soprattutto nel Dialogo  della  Natura e di un Islandese. In sostanza egli passa da una concezione positiva ad una radicalmente negativa del pensiero rousseauniano: non esiste più uno stato felice di natura (da cui l’uomo si sarebbe allontanato). L’uomo è soggetto ad una natura matrigna, che non è che l’immagine dell’intero universo come un ciclo di produzione-distruzione di materia, dall’assenza di qualsivoglia disegno provvidenziale.

Egli allora concepisce la natura come un meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature, si allontana quindi da una visione finalistica, secondo la quale la natura opera consapevolmente per il bene delle sue creature, ma la rappresenta come una sorta di divinità malagia che opera deliberatamente per far soffrire e distruggere gli individui (Dialogo della Natura e di un Islandese).

Leopardi e Schopenhauer non solo condividono la condizione di dolore in cui vive l’uomo, ma associano a questo la noia, anch’essa una forma di infelicità che subentra quando ha tregua il dolore, ovvero i bisogni e le cure. Entrambi condividono anche, di fronte alla lucida conoscenza della disperata verità, un atteggiamento contemplativo ironico, distaccato, stoico; la caratteristica è l’atarassia, il distacco imperturbabile dalla vita. Questo atteggiamento è espresso nelle Operette Morali, ma verrà poi superato dal poeta che tornerà ad un atteggiamento di protesta, di sfida, di lotta titanica che troveremo nella Ginestra.

La ragione, che nel pessimismo storico era considerata la causa dell’infelicità, avendo allontanato l’uomo dalla natura, ora è efficace strumento conoscitivo, in grado di svelare le contraddizioni del reale.

Ciò comporta la critica ai dogmi del cristianesimo, sulla felicità. “ La felicità che l’umano naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza…”, (Zibaldone), concetto questo che determina l’insufficienza della stessa illusione di una vita ultraterrena, rispetto ad altre più potenti illusioni, sulla materia pensante. L’approdo a Operette Morali, come Il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero e Il Dialogo di Tristano e di un Amico.

Soprattutto in La Ginestra, vera e propria summa e vertice della meditazione e della poesia dell’ultimo Leopardi (Binni), il Leopardi diviene apostolo di verità: è il titano e il nuovo Prometeo contro la natura. Sotto l’incombente, minacciosa mole del Vesuvio, nella desolazione di una pendice sterile dalla lava, cresce la ginestra “contenta dei deserti”. La ginestra è l’esempio del coraggio: anche se il vulcano la travolgerà essa rimarrà sotto, come atto di titanismo. Leopardi si oppone al secolo sciocco e vile, che mette al centro l’uomo, quando esso è infinitamente piccolo e fragile nell’universo. Il Leopardi qui sposa l’idea utilitaristica e solidaristica del poeta: solo solidariezzandosi e confederandosi contro il nemico comune, la natura, e combattendo le “superbe fole” l’uomo potrebbe vivere una convivenza civile più salda e duratura. La Ginestra completa la critica al cristianesimo e definisce il nucleo vitale e antiascetico dell’etica leopardiana: “Se il poeta insiste sulla necessità di riconoscere spregiudicamente la ostile crudeltà della natura e la radicale infelicità della condizione umana, se arriva a desiderare la morte, ciò non esclude, anzi presuppone proprio la ferma persuasione del diritto dell’uomo, di ogni uomo, a vivere la sua vita, a non patire e godere quella felicità terrena che gli spetta, e quindi la ferma convinzione del dovere rinunziare ad esperire fino in fondo le possibilità di esercitare tale diritto”. L’arido e disperato pessimismo leopardiano  può darci dunque alla fine della sua vicenda il messaggio di umana fratellanza.

La Ginestra qui appare simbolo del Leopardi stesso, e il profumo di essa simbolo della sua poesia: come osserva il Momigliano: “c’è tanta gentilezza, tanta dolcezza in quel fiore solitario, perché il Leopardi sentiva che anche la sua poesia era come il profumo della sventura umana, chè anch’essa, come la ginestra, cresceva sull’arido suolo della vita e cercava con il suo profumo il cielo”.    

La Ginestra

La ginestra è un ampio poemetto di ben 317 versi, in cui convergono i temi e i toni più diversi, in una vasta orchestrazione sinfonica.

“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”
                                                          Giovanni,III,19

 

Qui su l’arida schiena

del formidabil monte

sterminator Vesevo,

la qual null’altro allegra arbor né fiore,

tuoi cespi soltitari intorno spargi,

odorata ginestra,

contenta dei deserti….

(versi 1-7)

La prima strofa propone un paesaggio radicalmente antiidillico. Il paesaggio di A Silvia, delle Ricordanze e degli altri idilli è ricordato solo per  essere negato: “fur liete ville e colli”, qui invece domina il deserto, le immagini desolate dei dintorni di Roma che fanno pensare all’azione corrosiva del tempo e alla morte. A tali immagini si oppone la ginestra, che assume un valore simbolico; essa rappresenta la pietà verso gli esseri perseguitati dalla natura, la quale si esprime attraverso la poesia che per il Leopardi è l’unico conforto all’infelicità umana.

 

Così ti spiacque il vero

dell’aspra sorte e del depresso loco

che natura ci diè. Per questo il tergo

vigliaccamente rivolgesti al lume

che il fe’ palese:…

(versi 78-82)

 

Nella seconda strofa Leopardi, ormai materialista e sensista, manifesta tutta la sua opposizione alle correnti spiritualistiche e religiose del suo secolo , che per vigliaccheria non osavano guardare il vero e la sorte meschina che la natura ha riservato all’uomo. Egli giudica la sua come un’età di esaltati, che non ha il coraggio di guardare in volto il vero ossia la sorte infelice assegnata all’uomo. A questi atteggiamenti vili egli contrappone la sua figura eroica e combattiva, tipica dell’ultimo Leopardi.

 

Magnanimo animale

non credo io già, ma stolto,

quel che nato a perir, nutrito in pene,

dice, a goder son fatto,

(versi 98-101)

 

Nella terza strofa afferma che la nobiltà spirituale non è nell’affermare la grandezza dell’uomo e la sua infelicità, ma nel guardare coraggiosamente in faccia il destino e nel soffrire, saper essere fraternamente solidale con gli altri. E’ qui che si ha una svolta nel pensiero del Leopardi, che propone una posizione costruttiva, il suo pessimismo infatti non lo induce più alla rassegnazione, ma ad affermare la possibilità di un progresso che assicuri una società più giusta. Un progresso non basato  su riforme politiche o tecnologiche (Rousseau), ma un progresso autentico di tipo civile e morale, che si fondi proprio sulla consapevolezza degli uomini, ché  la responsabile delle loro miserie è la natura e ciò li induca a coalizzarsi contro la comune nemica e rinsaldare i legami sociali “social catena” e giungere così ad una società più giusta. L’uomo rimarrà infelice, ma non ci sarà più l’infelicità che nasce dall’ostilità degli altri uomini.

Nella quarta strofa Leopardi ripropone lo scorcio paesaggistico della prima: la distesa di lava; in essa però si affaccia il poeta. Negli Idilli egli è sempre separato dal paesaggio da una sorta di diaframma, spesso una finestra che lo allontana dal reale, lo filtra e permette lo scaturire dell’immaginazione; qui invece è immerso nella realtà esterna, desolata e orrida, non trasfigurato. Leopardi vuole fare poesia non con il “caro immaginar”, ma con il solo “vero”.

Il paesaggio si allarga poi alla volta stellata, ma questo cielo non evoca “fole” infantili, bensì una vasta meditazione sul nulla della terra e dell’uomo: l’infinito del vero ossia l’infinita piccolezza dell’uomo. Torna qui la polemica verso la religione che ritiene l’uomo signore dell’universo e dinanzi a questa posizione il poeta è incerto tra il “riso”per la stoltezza e la “pietà” per le sofferenze dell’umanità.

La quinta strofa riprende il motivo della potenza distruttiva della natura (già presente nella prima), che non si cura dell’uomo. Come il pomo cadendo dall’albero distrugge un formicaio, così il vulcano distrusse nel I secolo dopo Cristo le città di Pompei ed Ercolano.

 

…Caggion  i regni intanto,

passan genti e linguaggi: ella nol vede:

e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

(versi 294-296)

 

Nella sesta strofa il motivo centrale è il tempo, dove alla variabilità del tempo umano, fa contrasto l’immobilità del tempo della natura matrigna che incombe immutata. La prima metà della strofa riporta un paesaggio che potrebbe sembrare idilliaco “il villanello, “il piccolo campo”e nel contempo l’immagine della forza distruttrice della natura, che gli nega ogni quiete idilliaca. La seconda parte descrive le rovine delle città antiche, che tornano alla luce grazie agli scavi rappresentati con il gusto romantico delle rovine. La strofa è chiusa da una di quelle sentenze lapidarie: “ l’uom d’eternità s’arroga il vanto”, in cui risuonano scherno e commiserazione.

Nell’ultima strofa ritorna la Ginestra come simbolo della pietà per la condizione degli uomini (creando così un movimento circolare con la prima strofa). Il fiore poi assume altri significati: indica un modello di comportamento nobile, perché essa se dovrà inevitabilmente piegarsi alla forza distruttrice della natura, non cancellerà la sua dignità, dal momento che non ha mai supplicato l’aggressore né ha mai pensato di eguagliarsi al cielo o di imporre il suo dominio sulle altre creature. Quindi il poeta nella Ginestra esprime l’immagine della nobiltà dell’uomo, che aveva già delineato nella terza strofa.Infinito scientifico

Leopardi nella Ginestra riconosce un valore positivo alla ragione, perché permette agli uomini di prendere consapevolezza del “vero”, ossia della loro misera realtà, per costruire una società più giusta; supera quindi la posizione iniziale, quella del pessimismo storico nella quale egli preferiva rifugiarsi nel “caro immaginar”, nell’illusione che, come afferma nell’Infinito, gli permetteva di naufragare dolcemente in una dimensione infinita sia nel tempo (“l’eterno”) che nello spazio (“immensità”). Tale dimensione infinita, nella quale l’uomo si sente una piccola cosa, ha attratto da sempre anche l’attenzione dello scienziato, il quale ha rivolto gli occhi al cielo con un atteggiamento diverso: ha notato analogie, coincidenze, ha indagato, ha calcolato ed è giunto a comprendere che l’infinito non esiste, che tutto è reale e calcolabile. Lo scienziato ha fatto sì che, esprimendo l’infinito in numeri, esso oggi sia qualcosa di meno sconosciuto, forse meno poetico, ma sicuramente qualcosa che sente meno distante e misterioso. In matematica infatti l’infinito………  

 

Nietzsche

Nietzsche, come ho accennato, accoglie l'impostazione di Schopenhauer e ricorda all'uomo: "La tua vera essenza non sta profondamente dentro di te, bensì immensamente al di sopra di te, o per lo meno di ciò che tu abitualmente prendi per il tuo io" (Ivi). Ma, lungi dal difendersi da questo doloroso destino, come aveva fatto Schopenhauer e come in seguito farà Freud, Nietzsche si abbandona all'incontenibile sovrabbondanza della vita, liberando tutte le maschere e tutte le illusioni attraverso cui questa si offre e si produce. La scelta non è arbitraria, ma risponde al bisogno di stabilire una coerenza tra premesse e conseguenze. La premessa schopenhaueriana era che noi siamo vissuti dalla vita di cui, solo per un inganno, ci pensiamo autori; la ragione è la tessitura di questo inganno. Nietzsche, nella premessa di Schopenhauer, coglie l'essenza del tragico, ma proprio per questo anche il beneficio dell'illusione senza il quale non potremmo vivere.

Egli infatti individua il simbolo del suo “sì” totale al mondo nella figura del dio greco Dioniso: dio dell’ebbrezza e della gioia che canta, ride e danza. In realtà il mondo per lui è una sorta di gioco estetico e tragico tra due opposti: vita e morte, gioia e dolore e solo l’arte riesce a comprendere veramente il mondo e con essa e attraverso di essa viene spiegato il mondo. Nella sua opera “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”, Nietzsche ritrova infatti quelle coppie di opposti attraverso le quali il mondo si esplica: l’apollineo e il dionisiaco, che sono alla base dello spirito e dell’arte greca. L’uno (apollineo) è l’impulso alla forma della fuga di fronte al divenire e si esprime in forme limpide e d armoniche tipiche della scultura classica e della poesia epica (Omero: poeta ingenuo, massimo della bellezza apollinea secondo periodo). L’altro il dionisiaco che scaturisce dalla forza vitale stessa costituisce il carattere originale del mondo greco, perché

 

La nascita della tragedia

“Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura [...] fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici”. Proprio gli dei olimpici sono il mezzo con cui i greci sopportano l'esistenza, della quale hanno visto la caducità, la vicenda dolorosa di vita e morte, soffrendone in modo profondo a causa della loro esasperata sensibilità; gli dei olimpici “giustificano la vita umana vivendola essi stessi”, perché la vivono in una luce senza ombre e fuori dall'angoscioso incombere della morte. La portata liberatoria delle figure degli dei olimpici si esercita solo se essi rimangono in un rapporto profondo con il dionisiaco, cioè con il mondo del caos al quale pure devono aiutarci a sfuggire.

Ed é la tragedia attica che si prospetta come la più perfetta ed equilibrata sintesi tra i due impulsi: secondo Nietzsche essa nasce dal coro dei Satiri, ossia la processione sacra in cui i partecipanti si trasformano in “finti esseri naturali”.

L'uomo di oggi va a teatro per rilassarsi, per scaricarsi dal peso di tutti i giorni, perché ha bisogno di qualcosa che sia soltanto spettacolo. Lo spettatore della tragedia greca veniva e "conosceva" qualcosa di più sulla natura della vita perché veniva contagiato dall'interno, investito da una contemplazione, cioè da una conoscenza, che già esisteva prima di lui, che saliva dall'orchestra e suscitava la sua contemplazione, si confondeva con essa.

Egli dice che nell’età della tragedia attica (Sofocle ed Eschilo) questi due elementi si armonizzarono, dando origine a capolavori sublimi dove l’apollineo è dato dalle parti sceniche e dal dramma e il dionisiaco dalla musica e dalla danza del coro. Egli dice che il dramma tragico diviene veramente tale quando attraverso una serie di immagini il vissuto di sofferenza dell’eroe, ovvero l’essenza caotica dell’esistere, giunge in un mondo di ideale bellezza e compiutezza.

Come abbiamo detto la sintesi tra dionisiaco e apollineo è per Nietzsche un “miracolo metafisico” della civiltà ellenica, della quale egli non ha una immagine di armonia e di serenità come proposta in epoca neoclassica, poiché egli ritiene che il suo carattere originale è da ricercarsi nel dionisiaco (ditirambo-satiro)., sintesi che si realizza unicamente con Sofocle e d Eschilo. Egli ritiene infatti che Edipo “rappresenta l’uomo nobile predestinato all’errore e alla rovina nonostante la sua saggezza che al termine della sua immensa sofferenza sprigiona attorno a sé una forza magica e benefica che perdura anche dopo la sua scomparsa”(pag. 78). Sofocle, come poeta, ci mostra un intreccio processuale mirabilmente aggrovigliato che il giudice, nodo dopo nodo, riesce a sciogliere, provocando la sua stessa rovina; la gioia puramente ellenica che scaturisce da questo processo dialettico è tale da “diffondere in tutta l’opera un’aura di eccelsa serenità che smussa i terribili presupposti di tale processo”(pag. 79). “E a questo proposito si dimostra che la concezione globale del poeta altro non è se non “quell’immagine luminosa che la natura risanatrice ci offre dopo che abbiamo dato uno sguardo nel baratro”(pag. 79).

Già Euripide tende ad eliminare dalla tragedia l'elemento dionisiaco, col predominio del raziocinio; poi Socrate e Platone sono "gli strumenti di dissoluzione greca, gli pseudogreci, gli antigreci". Socrate fu ostile alla vita, volendo dominare e soffocare l'istintività spontanea in nome della ragione

giunge alla nota conclusione che l'autore di questo suicidio é stato Euripide, che ha “portato lo spettatore sulla scena”: ha trasformato il mito tragico in un susseguirsi di vicende razionalmente concatenate e comprensibili, di stampo sostanzialmente realistico. E se Euripide trasforma in senso realistico e razionale il mito tragico, lo fa per soddisfare le esigenza di un determinato spettatore, Socrate, il quale inaugura nella mentalità greca una visione razionale del mondo e delle vicende umane, secondo la quale “al giusto non può accadere nulla di male”, né nella vita terrena né nell'aldilà. E la stessa introduzione euripidea del prologo, con il quale spiega fin da principio l'azione, toglie alla tragedia ogni “tensione epica e eccitante incertezza”.

Nietzsche dice che con Euripide l’uomo della quotidianità salì sulla scena e così morì la tragedia che fino ad allora era stata “specchio sul quale prima si riflettevano solo tratti grandi ed arditi, ora mostrava quella minuziosa fedeltà che riproduce anche gli aspetti meno riusciti della natura. Odisseo, il tipico greco dell’arte antica, si abbassa tra le mani dei nuovi poeti alla figura di greculo” “Ora era la mediocrità borghese, sulla quale Euripide costruiva tutte le sue aspettative politiche,  a prendere la parola, quando fino ad allora erano stati il semidio nella tragedia e il satiro ebbro o il mezzo uomo della commedia a determinare il carattere del linguaggio”(pag. 92-93). Euripide porta in scena il quotidiano, che tutti conoscevano e sul quale tutti potevano esprimere un giudizio, l’intreccio è un’insieme di furbizie e scaltrezze.

Nelle sue tragedie Euripide infatti propone al pubblico una nuova forma dell’uomo, conformato alle categorie della comune realtà, alle prese con i problemi concreti della vita quotidiana: si discute, ad esempio, del matrimonio, dei rapporti tra i sessi, degli assetti e dei vincoli sociali, della libertà. Si tratta di una sorta di profanazione della tradizione – e come tale la avvertirono i contemporanei, che non risparmiarono ad Euripide critiche di ogni sorta[7] -, e che gli studiosi moderni definiscono con un vocabolo non proprio bellissimo l’imborghesimento o la borghesizzazione del mito. La cosa è ben presente ad Aristofane che nelle Rane, rappresentate nel gennaio del 405, mette sulla bocca di Euripide alcune battute estremamente illuminanti.

“in ogni caso, a questa gente qui (indicando gli spettatori) – egli afferma- ho insegnato a parlare (..) a pensare, vedere, comprendere, buttare per aria, amare, escogitare, sospettare del male, considerare tutto (..) perché portavo sulla scena le cose solite, quelle che ci capitano, in mezzo a cui viviamo”(v. 954 e seguenti).

Nella Medea, che è del 431 e che temporalmente è la tragedia euripidea più vicina all’arte dei predecessori, questo itinerario intellettuale del poeta appare già sostanzialmente compiuto. Egli sceglie una variante del mito che gli consente di inserire nella leggenda problemi ad essa ignoti e di tratteggiare nella figura di Medea non solo uno degli elementi primordiali della natura e dell’anima femminile, cioè la gelosia; ma anche di mettere in risalto il tema dell’inferiorità sociale della donna. La Medea euripidea, quindi, cessa di essere il personaggio mitico che vive nella luce e nella prospettiva dell’eroe maschile; ma diviene l’eroina di una tragedia coniugale borghese che non doveva essere infrequente nell’Atene del V secolo.

Analizziamo rapidamente i celebri versi 230-234 del I° Episodio della Medea, che dicono: “ Di tutti gli esseri viventi e senzienti, noi donne siamo la specie più infelice.” Così Medea mette il dito nella piaga, scandendo poi con spietata sicurezza le recriminazioni comuni a più di una sposa ateniese: “Per prima cosa noi dobbiamo a suon di denaro comprarci un marito, prenderci un padrone del nostro corpo, e questo è un male ancora più doloroso del male”; i rischi del matrimonio (se il marito è cattivo, il divorzio non è praticabile in quanto può rovinare la reputazione di una donna) “E il rischio peggiore sta in questo: prenderne uno cattivo o buono; infatti le separazioni non sono onorevoli per le donne e non è ammesso rifiutare il marito.[Una donna] giunta poi tra nuovi costumi e leggi, dovrebbe essere un’indovina, non avendolo appreso a casa, [per sapere] con che compagno avrà davvero a che fare.”; l’indipendenza dell’uomo che, se, si stanca della famiglia, può uscire fuori a divertirsi, mentre  la moglie è costretta ad adorare una sola persona (“Un uomo, quando prova fastidio a stare insieme con i suoi familiari, esce fuori e libera il cuore dalla nausea, rivolgendosi ad un amico o a un coetaneo, noi dobbiamo guardare a un’anima sola”); la giustificazione che gli uomini ripetono quasi come un ritornello per difendere i propri privilegi (“Dicono che noi viviamo una vita priva di pericoli in casa, mentre loro combattono con la lancia”), con la relativa confutazione (“preferirei star tre volte accanto allo scudo piuttosto che partorire una volta sola”).

Anche a voler considerare l’eccentricità della figura di Medea, principessa di una terra lontana, barbara e maga, non ci si può sottrarre all’evidenza del suo argomentare che tocca troppo da vicino la realtà.

 A riprova, ecco come il coro delle donne corinzie commenta i propositi di vendetta annunciati da Medea vv. 410-420: “All’indietro tornano le sorgenti dei sacri fiumi, e l’ordine e tutto è rovesciato; gli uomini hanno pensieri ingannatori e la fede degli dei non è più salda. Ma i racconti cambieranno la mia vita, così che avrà una buona nomea: viene onore alla stirpe femminile, non più una fama che suona ingiuriosa graverà sulle donne (proprio per la vendetta che compierà Medea). Le Muse dei poeti antichi cesseranno di cantare la mia inaffidabilità. (le invettive antifemminili sono in effetti normali nella poesia arcaica e tardo arcaica da Omero a Esiodo a Semonide). Ché nella nostra mente l’incantevole canto della lira non infuse Febo, maestro di melodie: altrimenti avrei fatto risuonare un inno contro la stirpe dei maschi. ”.

E’ del tutto palese come qui si tratti di una critica che corrode la tradizione alle fondamenta; e questo è tanto più significativo se si pensa che accade in un momento in cui viene illustrata la rappresaglia di una moglie offesa nei termini normalmente riservati al mondo maschile. E la figura di Medea non ha nulla in comune con quella delineata con rapidi tratti nella IV Pitica (vv.221 e seguenti) di Pindaro:

“ (Cipride) al saggio figlio di Esone (cioè Giasone, figlio di Esone) insegnò le preghiere d’incantesimo perché rapisse a Medea il rispetto pei suoi genitori, e l’amore dell’Ellade la scuotesse, infiammata nell’animo, con la sferza di Peito. Ed essa gli indicò subito i mezzi per compiere le prove che suo padre esigeva: con olio mescolò erbe recise[8], rimedi ai dolori durissimi, glieli diede perché se ne ungesse. E convennero insieme d’unirsi in un mutuo soave connubio” .

La dimensione borghese del personaggio è ulteriormente messa in luce dalla rissa domestica fra i due coniugi dei vv.446/626 drammaticamente e pateticamente realistica. A Giasone che si preoccupa di spiegare a Medea gli accorgimenti da lui messi in opera per renderle l’esilio più sopportabile ( “che tu non te ne vada con i figli priva di mezzi o bisognosa di alcunché”), la donna risponde enumerando tutte le sue benemerenze verso il marito (“Comincerò a parlare per prima cosa dall’inizio. Ti ho salvato…quando fosti mandato a governare con il giogo i tori che soffiavano sangue per seminare il campo mortale…E proprio io, tradendo mio padre e la mia casa, sono venuta a Iolco Peliotide insieme a te, più appassionata che saggia; ho ucciso anche Pelia, nel modo in cui è più doloroso morire, per mano delle sue figlie, e ho eliminato ogni paura”) delle quali egli ora è completamente dimentico. Giasone ribatte che  è stato l’amore con la sua potenza invincibile a costringere Medea a salvarlo (“Io, dato che ammucchi anche troppo i tuoi crediti, credo che l’unica salvatrice della mia spedizione, fra gli dei e gli uomini, sia Cirpride”): in cambio Medea ha ricevuto il vantaggio di vivere in Grecia anziché in terra incivile, ed è divenuta celebre per la sua sapienza.

Quanto al proposito di sposare la figlia del re, Giasone afferma di averlo maturato per poter assicurare a tutti una vita bella e senza privazioni[9]: “Dopo che mi trasferii qui dal paese di Iolco, portando con me molte sciagure insormontabili, che cos’avrei potuto escogitare di più propizio di questo, sposare la figlia del re, io che sono un esule?”. Ma, conclude, “ non lo diresti nemmeno tu, se non ti tormentasse il lechos[10]. Ma voi donne arrivate a tal punto che se il lechos è salvo ritenete di avere tutto , ma se qualche disgrazia vi accade riguardo al lechos considerate con la massima avversione ciò che c’è di più lodevole e bello. Bisognerebbe che i mortali procreassero figli in qualche altro modo e che non esistesse il genere femminile; e così non ci sarebbe alcun male per gli uomini” (vv.568/575). E’ un diverbio sin troppo umano, anzi vi si nota quasi la tendenza a scivolare verso il meschino. 

In questa prospettiva va collocata anche la reinterpretazione euripidea dell’infanticidio operato  da Medea: non più effetto di un rito antichissimo, il cui significato era oramai perduto, ma il risultato di un conflitto interiore condotto alle estreme conseguenze. Amore materno e vendetta, pietà parentale e smisurata coscienza di sé, istinto materno e passione amorosa: questi gli ingredienti che scatenano nell’animo di Medea il gesto estremo ed orribile dell’uccisione dei figli con cui si chiude la tragedia. E’ evidente, a questo punto, come Euripide abbia manipolato la figura mitica di Medea fino a condurla al polo estremo della scala del realismo, così come esprime Nietzsche.

In realtà la figura di Medea è frutto del suo tempo: occorre considerare un importante fatto culturale

verificatosi  fra la fine del VI e gli inizi del V secolo: la  crescente materializzazione e istorizzazione” del mito[11] messa in luce dalla dissoluzione della forma epica nella prosa dei logografi[12]; ma in Euripide  (figlio del proprio tempo)  l’aspetto sopra riportato ben si fonde con l’altro aspetto, questa volta di natura politica e sociale  verificatosi nello stesso periodo e cioè  le trasformazioni politiche, sociali e culturali indotte  dalle guerre persiane, guerre che segnarono una vera e propria frattura fra due epoche.

  Per ciò che attiene al primo aspetto, va notato che il mito costituisce sempre più uno “ sfondo”, un elemento di erudizione, con il quale gli scrittori in prosa, i logografi, cercano di ravvivare l’interesse per l’argomento; il mito, cioè, rappresenta sempre meno le grandi idee che caratterizzano questa epoca, e, benché non completamente materializzato, adempie ad una funzione ideale di natura convenzionale e decorativa.

Quanto al secondo aspetto, occorre dire che le guerre persiane comportarono un radicale cambiamento della religiosità tradizionale, per effetto del quale la religione divenne sempre più un fatto politico e  sempre più andò colorandosi di razionalismo. Di fronte agli improvvisi mutamenti delle vicende umane, si trovò sempre più confermata l’idea (già espressa da Teognide[13]) che l’azione divina non segue una linea sicura; ed al sacro si attribuì con convinzione sempre maggiore un doppio valore, come ad una forza che può operare tanto il bene quanto il male. Un indifferentismo di valore che propose al conoscere umano, chiamato a decidere davanti a questa ambivalenza, un momento altamente tragico, puntualmente verificabile proprio nei tragediografi del V secolo. Ed è in Euripide, in modo particolare, che si ripropone il tragico processo tra l’uomo e la divinità: un problema antico, certo, ma al quale Euripide applica i nuovi criteri critici suggeritigli dalla coscienza inquieta  dello spirito razionalistico, affermatosi nello scorcio del V secolo, che promuoveva indagini nuove in ogni campo e che metteva in discussione ogni certezza. Euripide, certamente, non prescinde dal mito, dal quale la poesia, specie quella tragica, attingeva i suoi personaggi; ma neppure può fare a meno di avvertire l’urgenza della realtà della vita, quale è avvertita dalla sua età.(Viene qui spontaneo sottolineare che per Tucidide la ricerca della verità equivale all’eliminazione dell’elemento mitico.[14]) Nel mito, allora, Euripide riversa un nuovo e diverso senso della realtà, infondendo nelle “figure larvali” del mondo mitico i propri sentimenti e la propria esperienza della vita. Questi nuovi contenuti portano, come primo e più vistoso effetto, alla trasformazione del mito che cessa di essere il mondo ideale o lo sfondo estetico-convenzionale così come fissato nella tradizione. Ma Medea rimane pur sempre un’eroina, al di là di tutte queste considerazioni: Medea infatti si offre subito come personaggio dal carattere eroico[15],  non tocca cibo, divorata dalla passione[16], non ascolta consigli e non è intimorita dalle minacce, chiusa nel dolore medita e conclude da dominante l’azione, inflessibilmente concentrata, fermamente risoluta sul suo proposito, sola nella disperazione, dapprima inviando alla nuova sposa una veste incantata che divora le carni di lei e del padre che l’abbraccia, poi, pur di straziare il cuore di Giasone, uccide i loro figli. Quando Giasone arriverà, per cercare di preservare i figli dalla vendetta non troverà altro che i loro cadaveri coi quali, sul carro di Helios, tirato da dragoni alati, trasvola Medea[17].

Abbiamo già detto come inizialmente il Leopardi avesse una visione positiva della natura, come colei che ha velato gli occhi degli uomini attraverso l’illusione e l’immaginazione, affinché essi non vedano le loro misere condizioni. Leopardi interpreta infatti  la novella di Amore e Psiche secondo valutazioni ispirate al Romanticismo e personali: vede nella curiosità di conoscere di Psiche le cause della sua rovina e nel mito la prova di una verita' dolorosa, già nota, come egli afferma, agli antichi e cioè, secondo le sue parole: "l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura".

Scrive infatti testualmente nello  Zibaldone (637-638): 10 febbraio 1821

"La favola di Psiche, cioè dell' Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell'uomo e di questo mondo... E forse l'allegoria sopradetta sarà stata osservata anche dagli altri, e così credo. Certo è che o la non significa nulla o significa quelch'io dico e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro sistema la non si spiega. Del resto, combinando questa osservazione col racconto della Genesi, dove l'origine immediata dell'infelicità e decadimento dell'uomo si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove, mi si fa verisimile che insomma queste gran massime: l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda e della più perfetta e perfettibile filosofia che possa mai essere, fossero non solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell'antichissima sapienza, se non altro di quell'arcana e misteriosa come l'orientale e come l'egiziana, dalle quali è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca”.

Particolarmente interessante mi sembra l’accenno, nell’ultima parte di questo scritto, all’antica sapienza orientale, egiziana e greca, le quali si affidavano al mito coscienti già che la ragione era nemica della natura, tema che sarà poi ripreso da Nietzsche a proposito degli dei dell’Olimpo.

In verità l’eroina Psiche (che non ha nessun contatto con la Medea, calata da Euripide nella realtà del V secolo avanti Cristo) proprio per questa ricerca della verità, subisce una serie di vicissitudini, prima di approdare ad un lieto finale.

Infatti l’episodio di “Amore e Psiche”, così come l’intero romanzo le “Metamorfosi” (Metamorphoseon Libri XI), opera di Apuleio (125 dopo Cristo-170 circa), romanzo conosciuto subito dopo la sua diffusione anche con il titolo di  “Asino d’oro” (Asinus aureus), titolo offerto per la prima volta da Agostino (354-430) [18], è leggibile a due livelli. Ad un livello  più immediato e semplicistico, il romanzo è fruibile in chiave erotico-avventurosa; un pubblico più dotto, grazie alla chiave di lettura offerta proprio dalla fabula di “Amore e Psiche”, può invece penetrare nell’allegoria e giungere al significato più recondito.

“Le Metamorfosi si caratterizzano per la compresenza di due livelli di lettura, attivi sin dalla formula apparentemente frivola lector, intende: laetaberis, posta a suggello del proemio. Possiamo intenderla, infatti,  nel senso di attento, lettore, perché c’è da divertirsi oppure di presta attenzione, lettore, perché ne ricaverai beatitudine. Un primo livello più superficiale e meno impegnato mira a un brillante intrattenimento del lettore, con la comicità implicita nell’ambiguità uomo-asino del protagonista ed esplicita negli episodi novellistici (le fabulae) intrecciati al racconto. Il secondo livello, più profondo – e nascosto, fino alla rivelazione del libro XI -, riguarda l’interpretazione complessiva del percorso esistenziale di Lucio e appare strettamente collegato ai culti misterici delle divinità orientali, che proprio nel II secolo andavano prepotentemente affermandosi nel territorio dell’impero”(Giovanni Cipriani, Storia della letteratura latina, II Volume, Milano, 1999, pag.224).

Queste ultime interpretazioni possono essere pensate perciò come il  prodotto di alcuni influssi culturali già presenti in Apuleio (culti misterici delle divinità orientali, citati dal Cipriani) o a lui contemporanei, oppure come il tentativo di associare il contenuto della favola ad idee e tendenze posteriori all’autore latino.

Brevemente la trama: il romanzo delle Metamorfosi  narra le avventure del giovane Lucio che si reca in Tessaglia, patria della magia, per apprenderne le tecniche. Da Photis, l'ancella di una maga, riceve un unguento che lo trasforma in asino con mente e sentimenti umani. Come antidoto dovrebbe mangiare delle rose; ma è rapito dai briganti e iniziano così le sue numerose e complicate avventure.
Finalmente Lucio riesce a fuggire e a mangiare le sospirate rose, che gli vengono offerte da un sacerdote di Iside, la dea egiziana. Ridiventato uomo, si reca a Roma, dove si dedica al culto della dea che gli ha fatto recuperare sembianze umane. L'intreccio è spesso interrotto dall'inserzione di numerose novelle; la più ampia, quella di Amore e Psiche, abbraccia circa due libri (IV,28 - VI,24). Nella trama generale la novella è inserita così: anche una ragazza, Carite, è rapita dai briganti ed è in preda alla paura; una vecchia, per consolarla, le racconta la favola di Amore e Psiche.

Psiche era la più giovane delle tre figlie di un re… la sua bellezza era tale da rendere gelosa persino la dea Afrodite che comandò ad Eros, suo figlio, di farla innamorare di un orribile mostro; invece Eros, mentre stava per scoccare la freccia si ferì lui stesso e si innamorò perdutamente di Psiche. Per poterla amare la fece trasportare da Zefiro in un castello incantato e lì la visitava tutte le notti senza però mai mostrarsi . La curiosità spinse Psiche, sollecitata anche dalle sorelle invidiose della sua fortuna, a cercare di "vedere" il suo misterioso e divino amante… ma fu punita e abbandonata.
 Disperata cercò Eros dappertutto, ma non lo poté trovare perché la madre intanto lo aveva imprigionato; giunse infine al palazzo di Afrodite che la tenne come schiava e la sottopose alle più crudeli e impossibili prove: quella dei semi (separare, raggruppandoli secondo la loro specie, enormi mucchi di semi tutti mischiati); quella dell' oro (procurare la lana d' oro di  alcuni arieti assai feroci); quella dell' acqua ( riempire un'anfora con l' acqua sacra di una montagna irraggiungibile); quella del vaso della bellezza (scendere agli inferi e farsi dare un po' della  sua "oscura" bellezza da Persefone); aiutata dalla Natura (formiche, pianta di canna, aquila e torre), Psiche riuscì nelle quattro prove, ma poi, disobbedendo agli ordini di Persefone, aprì il vaso della bellezza e si addormentò di un sonno letale… intanto però Eros, liberatosi dalla prigione, soccorse la sua amata e, ottenuta da Zeus l' immortalità per la sua Sposa, fu unito per sempre a Lei…

il mito di Amore e Psiche è narrato da Apuleio all' interno del romanzo "le Metamorfosi" che traccia un chiaro "percorso iniziatico" :gli insegnamenti esoterici sono velati quel tanto che basta a incuriosire. Come Lucio diviene "Sacerdote" della Dea Iside, ovvero suo "Sposo" mistico dopo tante peripezie e sofferenze, così Psiche, l'Anima diviene la "Sposa" immortale di Amore, inteso come Spirito, in quanto si e' emancipato dai legami, o lacci di Venere ed e' divenuto adulto.
Prendiamo in esame più dettagliatamente la storia di Psiche, che per la sua eccessiva "Bellezza" da' fastidio ad Afrodite ed e' costretta dall' oracolo ad abbandonare il Regno paterno, ove era tranquilla e amata, per  iniziare la sua avventura verso l' Ignoto. L' incontro con Eros e' fatale per entrambi. Nel Castello costruito per lei essa vive l'esperienza del Divino in una prima forma inconscia,  notturna, in cui la realtà  può essere solo "sogno". Ma e' uno stato che non può durare, infatti le sorelle, interpretando la parte del serpente o del mentale razionale, curioso e insoddisfatto, la spingono verso la conoscenza dello sconosciuto, verso la trasgressione, la disobbedienza che la "perde" e la fa cadere da quello stato felice nella dura realtà della solitudine e del rimpianto. Ma  qualcosa e' cambiato in Psiche, ora che ha conosciuto Amore, ha acquisito anche una determinazione incrollabile: recuperare il Bene perduto e lo stato di Beatitudine già sperimentato e per questo essa e' disposta a qualunque sacrificio, a qualunque umiliazione e sofferenza. Volontariamente si sottomette alla crudeltà di Afrodite, la madre di Amore,  diviene sua schiava, sicura in cuor suo di riuscire alla fine nel suo scopo, ritrovare Eros e la felicità perduta.
La prima prova le impone di "separare" i semi che sono stati mescolati… corrisponde ad avere acquisito la capacità di coagulare ciò che prima e' stato sciolto,  e Psiche con l'aiuto delle Formiche (pazienza, perseveranza, umiltà) riesce a superare l' esame, i "semi" simboleggiano le esperienze passate che vengono qui ordinate e separate secondo la loro specie e qualità.
La seconda prova le impone di raccogliere la lana d' oro di alcuni feroci arieti…questa lana, che e' poi la materia prima per la formazione del "mantello" di protezione contro le forze del male, deve essere d' oro puro e ricavata dall' ariete (coraggio, volontà, incrollabile, sacrificio); l' aiuto indispensabile alla riuscita dell' impresa le e' fornito da una "Canna d' acqua" (flessibilità e adattamento, leggerezza e forza). La terza prova le impone di attingere l' acqua sacra che sgorga su una montagna irraggiungibile, Psiche deve saper distillare l' acqua sacra del pensiero fecondante dalla roccia della razionalità e solo l' Aquila amica la può salvare dal pericolo e portargliela direttamente, perché  l' Aquila rappresenta il pensiero puro capace di librarsi ad alte quote. La quarta prova e' quella della passaggio dell'Abisso e porta con sé la morte e la conseguente discesa agli inferi: qui e' la Torre, che da' i consigli su come e dove trovare il "passaggio" che permette la discesa occulta e  consiglia  cosa portare per la discesa stessa (due monete per Caronte e due focacce per Cerbero). Ma questa prova anche quando sembra superata, cela in sè un' insidia: una volta che Persefone ha donato a Psiche un po' della sua "oscura" Bellezza e' molto difficile resistere alla tentazione di usarne un piccola quantità per se stessi e Psiche "cede" alla tentazione ancora una volta …la disobbedienza porta al sonno, e il sonno alla morte. Tutto sembra perduto, ed ecco il miracolo: l'Amore stesso si muove, si libera dalla prigione di Venere e, sublimato dalla Pietà , va a soccorrere l’Anima sua. La natura di Psiche e il suo "merito" non bastano per conquistare l' Immortalita' ,  la Grazia deve scendere e in questo mito  "scende" con l' aiuto di Zeus affinché le Nozze Regali si possano celebrare e L'Anima trovi l' Unione definitiva col suo legittimo Sposo, l'Amore Cosciente.

Come si è detto la novella ha avuto molte interpretazioni: platonica, aristotelica,neoplatonica, cristiana, etc. Precedentemente, seguendo l’argomento della tesina, ho citato la visione del Leopardi, ora voglio evidenziare che la novella di Amore e Psiche rappresenta anche uno dei primi esempi nella letteratura occidentale di “fiaba di magia”, cioè un tipo di narrazione che conserva l’eco di antichi riti di iniziazione durante i quali, attraverso racconti “esemplari”, le popolazioni primitive trasmettevano alle nuove generazioni la loro concezione del mondo, il loro patrimonio mitico religioso, le loro “regole” sociali.  La novella presenta infatti lo schema narrativo tipico di tutte le fiabe di magia (messo in luce per la prima volta da V. Propp in Morfologia della fiaba di magia)[19], che è assai semplice, ripetitivo e strutturato su una serie di sequenze obbligate: 

·     l’eroe/l’eroina è costretto ad allontanarsi dall’ambiente familiare per inoltrarsi in un ambiente nuovo e sconosciuto (un bosco, una foresta, un castello...);

·     deve quindi affrontare situazioni pericolose (“prove”), che riesce a superare solo grazie all’intervento di “donatori”, cioè grazie all’aiuto offerto da persone, o anche da animali, piante parlanti o da oggetti magici; 

·     infine, dopo aver superato le prove, si ritrova in una nuova condizione (ad esempio corona il suo sogno d’amore con il matrimonio) e vive una nuova esistenza, per definizione felice (il lieto fine è infatti d'obbligo).

Più avanti presenterò il famoso gruppo di Amore e Psiche del Canova, conservato al Louvre. Intanto vorrei presentare un testo che ormai da diversi anni sta incontrando un interesse sempre più vasto tra lettori, fino ad essere diventato un vero e proprio oggetto di culto, rafforzato ed ampliato dalla versione cinematografica che ha diffuso in tutto il mondo ancora di più il nome del suo autore e della sua più famosa opera: “il Signore degli Anelli”. Maestro incontrastato del fantasy moderno e osannato autore di molti altri romanzi , lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien è considerato da molti il vero innovatore del genere nonché padre assoluto della favola contemporanea. L'elemento fiabesco che Tolkien esplora con i suoi lavori ricalca senza dubbio sentieri già percorsi da illustri predecessori, aggiungendo però una notevole e originale veste personale, elaborata dopo attenti studi e ricerche in campo favolistico e nella letteratura anglosassone (in particolare la cultura celtica e scandinava). Se prima il fantasy si identificava fra gli altri con l'epico Ciclo di Conan di Robert Erwin Howard o con le opere medievali di William Morris che dipingevano figure barbariche ed eroiche talvolta estremizzando il genere, adesso l'ottimismo sembra esser ritornato la parolad'ordine nonché giusto equilibrio di ogni cosa. Nella fiaba tolkieniana infatti, la distinzione fra bene e male salta subito all'occhio del lettore, in modo schietto e chiaro.
Nella Terra-di-mezzo vige solo questo violento ma naturale contrasto fra le forze del bene e le orde delle tenebre, tutto retto in una sorta di armonia grottesca ma stranamente stabile, ricolma di sfaccettature di carattere. Tolkien annovera come esponenti del male per antonomasia gli Orchi, brutti ceffi trasandati o ancora gli Elfi Silvani cattivelli e astuti come da tradizione. E la descrizione di questi personaggi è talmente ben fatta che presto sovviene l'incredibile impressione di conoscere da sempre tali ostili creature,e molto bene anche! É un mago Tolkien nel solcare il divario fra ciò che è giusto e cosa invece non lo è affatto, e sistemare i protagonisti e i comprimari nell'esatto ordine ai due lati del confine. Il senso della fiaba antica e tradizionale con il binomio bene/male reso alla perfezione è fedelmente utilizzato nelle opere più importanti dell'autore, dove è strabiliante e a volte addirittura sconcertante la bravura di Tolkien nel delineare sottotrame o trame principali (come nel caso di The Hobbit) estremamente semplici e all'apparenza banali (il motivo del viaggio o la caccia al tesoro), ma che riservano sorprese e colpi di scena a non finire.
Il tutto condito da una miriade di buffi personaggi contornati da un difficile territorio inesplorato da sondare.
Tolkien è estremamente abile nel rendere certi stati d'animo talvolta solo con piccoli dialoghi e spesso perfino con esclamazioni semplicissime (ne sono un esempio i puff! per le sorprese e/o le sparizioni, i plink! plink! per la caduta delle gocce o ancora i memorabili clanke! clanke! per le serrature di vecchie e cigolanti porte). Qualcuno obiettò l'uso di tali espressioni, svelandone un significato infantile o di natura puerile, ma senza alcun dubbio efficaci e quindi funzionali ai fini della scorrevole narrativa dello scrittore. Incredibile è infine il maestoso lavoro dell'autore nel ricreare totalmente e fedelmente un mondo alternativo (ovvero la Terra-di-mezzo), con tanto di monti, villaggi, pianure e insignificanti fiumiciattoli. Tutto orchestrato alla perfezione e con estrema cura. Il lavoro "quasi maniacale" di Tolkien raggiunge l'apice nell'accurata descrizione di ogni albero genealogico dei personaggi principali (con tanto di avi e discendenti), narrazione storica degli avvenimenti passati e addirittura la creazione di un intero alfabeto, formato dalle famose rune. Tuttavia c'è forse un altro aspetto dell'opera, meno evidente ad un prima osservazione ma pervasivo della sua struttura, come il sistema nervoso in un corpo, che ne costituisce la forza e la ragione d'essere profonda. Parliamo dell'ambientazione del romanzo, della sua collocazione geografica e paesaggistica. Parliamo,insomma,della Terra di Mezzo.Al di là delle magnifiche cartine geografiche, disegnate dallo stesso Tolkien, che ci danno il senso di una terra reale, nella sua distribuzione, perfettamente casuale, tra pianure e montagne, deserti e mari, laghi e fiumi, zone desertiche e zone densamente popolate, l'impressione di realtà è molto maggiore ad aprire le pagine del romanzo stesso. Lo scrittore vi dispiega tutta la sua particolare abilità di fisiologo, la capacità di rendere un intero ecosistema, totalmente alieno rispetto ai parametri del nostro pianeta reale, e insieme improntato al profondo simbolismo che rende il romanzo una possente raffigurazione del dramma cosmico che contrappone i principi del bene e del male.
La narrazione stessa, poi, porta i personaggi a muoversi in scenari sempre diversi, la cui descrizione diventa in qualche modo obbligata; è chiaro che il racconto del viaggio, o della battaglia campale, giocano moltissimo sull'effetto-ambiente; ma non bisogna dimenticare anche il carattere rurale della civiltà degli hobbyt, degni simboli, col loro attaccamento alla terra e alle rispettive origini, della polemica antiindustriale e in certo modo antimodernista di Tolkien. Tale predominio dell'ambiente campagnolo si esprime nella raffigurazione di paesaggi mai monotoni, sempre diversi, e soprattutto animati da una loro intima sacralità, da un loro valore spirituale inestimabile che tocca, per dir così, ogni singola zolla di terra.
Ma vediamo, scorrendo il romanzo, qualche esempio di tale magica presenza dello sfondo, che emerge quasi a personaggio dominante. Nel capitolo In tre si è in compagnia leggiamo:

"I boschi che fiancheggiavano il sentiero diventarono più fitti; gli alberi erano ora più giovani e folti e, lungo il viottolo che scendeva a precipizio in una falda della collina, molti cespugli di noccioli crescevano sulle pendici da ambedue i lati. Infine gli Elfi deviarono a destra, fuori del sentiero. Una pista erbosa correva pressochè invisibile nella fitta foresta, ed essi la seguirono, nel suo ripido serpeggiare su per le pendici boscose, fino alla sommità delle creste dei colli che si ergevano nella fertile pianura della grande vallata. Uscirono all'improvviso dal buio denso degli alberi, e si trovarono in una vasta radura colorata di grigio dalla notte. Era circondata su tre lati dai boschi, ad est si apriva uno strapiombo, ove crescevano alberi scuri le cui chiome ondeggiavano nella brezza. Ancor più sotto la pianura si stendeva piatta ed offuscata, dominata dalle stelle." (S.d.A. pg.120)

E' una pagina di oscura magia descrittiva, non inferiore a quella che emana dalle sottili, efebiche figuredegliElfi.Nel capitolo L'Anello va a Sud leggiamo:

"I viaggiatori giunsero ad una bassa cresta ove crescevano antichi alberi d'agrifoglio i cui tronchi grigioverdi sembravano costruiti con la pietra stessa delle colline. Le foglie erano scure e lucenti, e le bacche ardevano rosse ai raggi del sole nascente.
All'estremo sud Frodo intravedeva i vaghi contorni di alte montagne che parevano ora ergersi in mezzo al sentiero che la Compagnia stava per percorrere. Alla sinistra dell'imponente catena s'innalzavano tre vette; la più alta e vicina era come un dente aguzzo incapucciato di neve; la grande e spoglia parete nord a precipizio era ancora in gran parte immersa nell'ombra, ma là dove i raggio obliqui del sole si posavano, brillava di un rosso acceso"
(S.d.A. pg. 355/356)

Dal paesaggio qui descritto promana il senso della tremenda difficoltà, degli enormi ostacoli, non solo naturali, che la Compagnia deve affrontare nel suo viaggio fino a Mordor.
La descrizione del paesaggio e dell'ambiente naturale si carica di ulteriori suggestioni, ricche di pensosa malinconia, in molte delle poesie (mirabilmente tradotte) che Tolkien inframmezza alla narrazione, come leggiamo, per esempio, nello stesso capitolo L'Anello va al Sud

"Seduto accanto al fuoco, rifletto
Su tutto quel che ho visto,
Sulle farfalle ed i fiori dei campi
In estati ormai da me distanti;
Penso a foglie gialle e a tele di ragno
In autunni che più non torneranno;
Alle nebbiose mattine, e la sole d'argento,
E ai miei capelli agitati dal vento.
Seduto accanto al fuoco, rifletto
Al mondo che sarà,
Quando l'inverno un giorno giungerà,
Ma della primavera io non vedo l'aspetto.
Vi sono infatti tante e tante cose,
che purtroppo io ancora non conosco:
Diversi in ogni prato e ogni bosco
Il verde ed il profumo delle rose.
Seduto accanto al fuoco, rifletto
Ai popoli vissuti tanto tempo fa,
Ed a coloro che vedranno un mondo
che per me sempre ignoto resterà.
Ma mentre lì seduto rifletto
sui tempi che fuggono veloci,
ascolto in ansia ed aspetto
Il ritorno di passi e di voci."
(S.d.A. pg. 350/351)

Il famoso gruppo di Amore e Psiche del Canova si inquadra nel culto delle scoperte archeologiche che nel neoclassicismo contribuirono non poco ad arricchire la nostra conoscenza dell’arte e dal cui influsso non fu esente il Leopardi quando scrive la Ginestra. ambientandola in una zona nella quale era tutto un fiorire di ritrovamenti. La vicenda del neoclassicismo inizia infatti alla metà del XVIII secolo (1750), per concludersi con la fine dell’impero napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistingue lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai princìpi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani che, proprio in questo periodo, come abbiamo detto in premessa, fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte archeologiche. I caratteri principali del neoclassicismo sono diversi:

1.      esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità;

2.      fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che teorizzò il ritorno al principio classico del «bello ideale»;

3.      fu una riscoperta dei valori etici della romanità, e ciò soprattutto in David e negli intellettuali della Rivoluzione Francese;

4.      fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari;

5.      fu un vasto movimento di gusto che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e d’arredamento.

I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (1771-1844).

Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne, nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane.

L’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour» che rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche il David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico.

Con l’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone. E dalla fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi.

Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato il neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il neoclassicismo di fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi classicismo.

Uno dei motivi di questo rinato interesse per il mondo antico furono le scoperte archeologiche che segnarono tutto il XVIII secolo. In questo secolo furono scoperte prima Ercolano, poi Pompei, quindi Villa Adriana a Tivoli e i templi greci di Paestum; ed infine giunsero dalla Grecia numerosi reperti archeologici che finirono nei principali musei europei: a Londra, Parigi, Monaco. In particolare, con queste campagne di scavo, non solo si ampliò la conoscenza del passato, ma fu chiaro il rapporto, nel mondo classico, tra arte greca e arte romana. Quest’ultima rispetto alla greca apparve solo un pallido riflesso ed un epigono, se non addirittura una semplice copia. La vera fonte della grandezza dell’arte classica venne riconosciuta nella produzione greca degli artisti del V-IV secolo a.C. Quel periodo eroico che vide sorgere la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, fino a Lisippo. E la perfezione senza tempo di questa scultura influenzò profondamente l’estetica del Settecento, divenendo modello per gli artisti del tempo.

La razionalità illuministica e il rifiuto del barocco

Il neoclassicismo nacque come desiderio di una arte più semplice e pura rispetto a quella barocca, vista come eccessivamente fantasiosa e complicata. Questo desiderio di semplicità si coniugò alla constatazione, fornita dalle scoperte archeologiche, che già in età classica si era ottenuta un’arte semplice, ma di nobile grandiosità. Il barocco apparve allora come il frutto malato di una degenerazione stilistica che, pur partita dai principi della classicità rinascimentale, era andata deformandosi per la ricerca dell’effetto spettacolare ed illusionistico.

Il barocco è complesso, virtuosistico, sensuale; il neoclassicismo vuole essere semplice, genuino, razionale. Il barocco propone l’immagine delle cose che può anche nascondere, nella sua bellezza esterna, le brutture interiori; il neoclassicismo non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una razionalità interiore. Il barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il neoclassicismo cerca l’equilibrio e la simmetria; se il barocco si affidava alla immaginazione e all’estro, il neoclassicismo si affida alle norme e alle regole.

Il principio del razionalismo è una componente fondamentale del neoclassicismo. È da ricordare che il Settecento è stato il secolo dell’Illuminismo. Di una corrente filosofica che cerca di «illuminare» la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’arte barocca ha sempre perseguito l’illusionismo come pratica artistica.

Il neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu un ritorno all’arte antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la razionalità rinascimentale era di matrice umanistica e tendeva a liberare l’uomo dalla trascendenza medievale, la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica e tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla ignoranza e dalla falsità barocca. Il ritorno all’antico, per l’artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento naturalistico, nei confronti della rappresentazione, che lo liberasse dal simbolismo astratto del medioevo; per l’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie di norme e di regole che servissero ad imbrigliare quella fantasia che, nell’età barocca, aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza.

La scultura, più di ogni altra arte, sembrò adatta a far rivivere la classicità. Le maggiori testimonianze artistiche dell’antichità sono infatti sculture. E nella scultura neoclassica si avverte il legame più diretto ed immediato con l’idea di bellezza classica. Una pittura classica, di fatto, non esiste, anche perché le testimonianze di quel periodo sono quasi tutte scomparse. Le uniche pitture ad affresco, a noi note, comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei. Esse, tuttavia, per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una semplificazione stilistica (definita compendiaria) inutilizzabile per la moderna sensibilità pittorica. Così che i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente più alla pittura rinascimentale italiana, in particolare Raffaello, che non all’arte classica vera e propria.

I caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, la estrema levigatezza del modellato, la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza scatti dinamici. La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo rinascimentale: la costruzione prospettica, il volume risaltato con il chiaroscuro, la precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce ad effetto, la mancanza di tonalismi sensuali.

I soggetti delle opere d’arte neoclassiche divennero personaggi e situazioni tratte dall’antichità classica e dalla mitologia. Le storie di questo passato, oltre a far rivivere lo spirito di quell’epoca, che tanto suggestionava l’immaginario collettivo di quegli anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali, di alto contenuto civile, che la storia antica proponeva come modelli al presente. La storia antica, quindi, divenne un serbatoio di immagine allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni del presente. Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come il David nei cui quadri la storia del passato è solo un pretesto, o una metafora, per proporre valori ed idee per il proprio tempo.

Il neoclassicismo in Italia

Il ruolo svolto dall’Italia nella nascita del Neoclassicismo fu determinante. In Italia vennero effettuate le maggiori scoperte archeologiche del secolo: Ercolano, Pompei, Paestum, Tivoli, che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che, dal Cinquecento in poi, si erano costituite un po’ ovunque.

Roma divenne la capitale del neoclassicismo e fu un ruolo centrale che conservò fino allo scoppio della Rivoluzione Francese. Ed infine Roma fu anche la città ove lavorò il maggior artista italiano neoclassico: Antonio Canova.

Antonio Canova (1757-1822) originario di Possagno, compie il suo apprendistato di scultore tra Asolo e Venezia dove ha le prime committenze. Dal Veneto si trasferisce a Roma nel 1779 dove studia e disegna le statue antiche e frequenta assiduamente la scuola del nudo all'Accademia di Francia e quella al Museo Capitolino. Egli assorbe i classici orientamenti del mondo antico e fa propie le teorie di Winckelmann, ricercando nelle opere un ideale di bellezza fondato sui valori di " nobile semplicità e quieta grandezza”.Famoso presto per le sue sculture, apprezzato in tutta Europa, sempre diplomaticamente distaccato dalle vicende politiche della sua epoca, lavora per molti committenti: per i nobili romani e veneti, per il pontefice, per Napoleone e per gli Asburgo d’Austria e i Borbone di Napoli. Tra i soggetti del sue opere è presente soprattutto il tema mitologico, in particolare si ricorda il successo di alcune opere, che ha replicato più volte: due gruppi di Amore che risveglia Psiche ( Parigi Louvre e Hemitage San Pietroburgo), ancora con il il tema tratto dalla favola di Apuleio due gruppi Amore e Psiche in piedi (Parigi Louvre e Hemitage San Pietroburgo), cinque Amori, tre Veneri italiche( Firenze Pitti, Monaco Residenzmuseum, collezione Lansdowene), quattro versioni di Ebe (Berlino, San Pietroburgo, Chatsword, Forlì) e due gruppi delle Le tre grazie (Malibu J.Paul Getty,San Piertroburgo Hermitage).
Egli è anche autore di una serie di ritratti, tra cui quello di Paolina Borghese sorella di Napoleone Bonaparte, raffigurata come Venere vincitrice del 1804/08, e di Napoleone riprodotto sotto l'aspetto di antica divinità greca del 1811.
Spiccano inoltre le realizzazioni di monumenti funebri, in particolare quello dedicato a Maria Cristina d'Austria 1798/1805 nella chiesa degli Agostiniani a Vienna:
Pittore e progettista, oltre che scultore ha ideato il tempio di Possagno 1819/33, un edificio neoclassico che tende a fondere, in un unico organismo le soluzioni del Pantheon e quelle del Partenone.

Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come oggetti puri ed incontaminati secondo i princìpi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: «Teseo sul Minotauro», «Amore e Psiche», «Ercole e Lica», «Le tre Grazie»; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria.

Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche è scoperto ed immediato: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di «Teseo sul Minotauro». Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno.

 Il gruppo di Amore e Psiche, invece, oggi conservato al Louvre, appartiene alle allegorie mitologiche della produzione canoviana. Esso rappresenta Amore e Psiche nell’atto di baciarsi. Eseguita in marmo bianco, la scultura ha superfici levigate ed un modellato molto tornito. La composizione ha una straordinaria articolazione: la donna, Psiche, è semidistesa, rivolge il viso e le braccia verso l’alto e, per far ciò, imprime al corpo una torsione ad avvitamento; l’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con l’altra gamba si spinge in avanti inarcandosi e contemporaneamente piegando la testa di lato per avvicinarsi alle labbra della donna. Il soggetto è tratto naturalmente dalla leggenda di Apuleio. Il soggetto è qui utilizzato come allegoria del potere dell’amore, visto soprattutto nell’intensità del desiderio che riesce a sprigionare: da qui la scelta di fermare la rappresentazione all’istante prima che il bacio avvenga ed il desiderio si consumi. Per comprendere lo spirito della cultura neoclassica è utile confrontare il gruppo scultoreo di Amore e Psiche con un’altra famosa allegoria mitologia: l’«Apollo e Dafne» di Gian Lorenzo Bernini. Quest’ultimo gruppo scultoreo fu realizzato tra il 1622 e il 1625, agli inizi della diffusione del barocco, e rappresenta indubbiamente uno dei maggiori esiti di questo stile di cui Bernini fu uno dei maggiori rappresentanti. Dafne, secondo la mitologia, era una bellissima fanciulla di cui si era innamorato Apollo. Dafne, per sfuggirgli, scappò ai piedi del Parnaso e qui, nel momento in cui stava per essere raggiunta da Apollo, chiese aiuto alla madre che la trasformò in una pianta di alloro. Il gruppo del Bernini rappresenta indubbiamente un attimo fuggente: Dafne viene appena sfiorata da Apollo ed ha già i capelli che stanno divenendo dei rami di alloro. È giusto un attimo: l’istante successivo Dafne non ci sarà più. Per enfatizzare ciò Bernini dà al gruppo un’apparenza di equilibrio instabile, evidente soprattutto nella curva ad arco che forma il corpo di Dafne. Il gruppo del Canova ha invece una fermezza ed una staticità molto più evidenti. Lo si osservi soprattutto nella visione frontale. Il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore formano uno schema ad X simmetrico. Al centro di questa X le braccia di Psiche definiscono un cerchio perfetto che inquadra al centro il punto focale della composizione: quei pochi centimetri che dividono le labbra dei due. In quei pochi centimetri si gioca il momento pregnante, ed eterno, del desiderio senza fine che l’Eros sprigiona. La differenza tra le due sculture non è da ricercarsi sulla differenza stilistica o formale, risultando entrambe di notevolissima fattura per tecnica esecutiva, ma sulla diversa cultura che le ispira. Lo sforzo del Bernini è di cogliere la vitalità della vita in continuo movimento, e per far ciò cerca di annullare la materia per lasciare solo la sensazione del divenire. Canova mostra invece tutta a tensione neoclassica di giungere a quella perfezione senza tempo in cui nulla più può divenire, e per far ciò pietrifica la vita dando alla materia una forma definitiva ed eterna.

 

Reale e virtuale

Come ho detto, il tema portante del mio lavoro è il rapporto tra verità ed illusione ed ho voluto dimostrare come l’uomo abbia avuto sempre l’impellente necessità di farsi delle illusioni, di arredare illusoriamente il mondo, rendendo irreale il reale e viceversa; infatti una delle carreristiche più distintive della nostra specie è quella di generare illusioni e credere e far credere che siano reali. E’ proprio per messo delle diverse pratiche creative che l’uomo è riuscito a rappresentare il mondo reale a partire dai dipinti rupestri nelle caverne preistoriche o attraverso la narrazione letteraria da Omero ai giorni nostri.

Cero i mezzi tecnici della raffigurazione sono cambiati, da quelli meccanici a quelli chimici, tecnici, fotochimica, radiotecnici, e siamo giunti oggi a quelli informatici, i quali ci forniscono una nuova rappresentazione della realtà: la realtà virtuale, ossia uno spazio tridimensionale creato al computer, in cui un soggetto può entrare ed esplorarlo.

In realtà anche un quadro può essere considero una realtà virtuale ed essere oggetto di navigazione; l’osservatore può percorrere tutti gli spazi rappresentati dai personaggi principali allo sfondo e ai piccoli particolari, ma è un virtuale soggettivo: una cosa mentale; mentre lo spazio generato dal computer sembra molto meno virtuale, dà la sensazione di una effettiva navigazione in uno spazio reale.

Il punto nodale del rapporto reale e virtuale è proprio nel problema di individuare quali siano i criteri più o meno affidabili a cui possiamo richiamarci nel rapporto conoscitivo con la realtà, ovvero il problema dell’affidabilità o meno della nostra percezione del mondo reale, dal momento che la nostra percezione visiva può essere causa di sconcertanti abbagli. Infatti tra la percezione di un oggetto virtuale, di elevata resa veristica, e la percezione del medesimo oggetto nel mondo reale, quale delle due è più attendibile dal punto di vista conoscitivo ? Sicuramente queste riflessioni sulla realtà virtuale aprono nuovi orizzonti e nuovi ambiti filosofici, che coinvolgono anche la cultura e l’arte. Tra i campi in cui la realtà virtuale trova ed ha trovato maggiore applicazione ci sono quelli degli armamenti, delle tecnologie militari e quello dei videogiochi. E’ su questi ultimi che desidero soffermarmi e mostrare delle immagini trasmesse dalla televisione in diretta relative alla prima e seconda guerra del golfo e nel contempo altre tratte da videogiochi.

Come potete notare distinguere le une dalle altre è cosa pressoché impossibile, la realtà drammatica della guerra, le case distrutte, gli uomini che cadono; ovvero tutte le immagini che sono entrate per giorni nelle nostre case sono state veramente percepite in tutta la loro drammaticità ? O, agli occhi di chi è abituato a giocare con videogiochi, come me, hanno perso il loro reale valore per entrare in una realtà virtuale nella quale il gioco ricomincia le case tornano in piedi e gli uomini si rialzano. Verso quali orizzonti le menti degli uomini si vanno avviando ? Questo conflitto tra reale e virtuale, realtà e illusione, che ha sempre accompagnato l’uomo, verso quali pericoli e quali inganni può portarci.

 

 

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[1] Da Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819, traduzione italiana di N. Palanga, a cura di G. Riconda, Milano, 1969, pp. 39-41

[2] Miliardi di esseri (vegetali, animali, umani) non vivono che per vivere e continuare a vivere. E’ questa, secondo Shopenhauer, l’unica crudele verità sul mondo.

[3] Quello che gli uomini chiamano godimento (fisico) e gioia (psichica) è nient’altro, come avevano sostenuto Pietro Verri (Discorso sull’indole del piacere e del dolore, 1773) e Leopardi (vedi oltre) che una cessazione del dolore, ossia lo scarico di uno stato preesistente di tensione, che ne rappresenta la condizione indispensabile.

[4]Eros con la torcia e le frecce appartiene al simbolismo postomerico, ma ai tempi, per esempio, di Apollonio Rodio il suo malvagio modo di comportarsi e la disperazione di Afrodite (Venere) erano un luogo comune nella letteratura. Quest’ultimo aspetto fu sviluppato poi da Apuleio nel suo “Amore e Psiche”. Il carattere malvagio è evidente nel mito degli Argonauti, in particolare nell’innamoramento di Medea.  “Sull’Olimpo, Era ed Atena discutevano angosciate i mezzi da suggerire al loro protetto, Giasone, perché egli potesse impadronirsi del Vello d’Oro. Infine decisero di chiedere l’aiuto ad Afrodite, e costei indusse il suo malvagio figlioletto Eros a far sì che Medea, figlia del re Eete, concepisse un’improvvisa e violenta passione per Giasone. Afrodite dunque trovò Eros che giocava ai dadi con Ganimede, barando ad ogni tiro,…..”(R. Graves, I miti greci, Milano, 1977, pag. 754)

[5] Ritiene infatti che il male non sia solo nel mondo, ma nel Principio stesso da cui esso dipende.

[6] Freud, buon lettore di Schopehauer, è stato un cattivo lettore di Nietzsche come confessa in una lettera a Lothar Nickel del 1931, ma questo non gli impedì di prelevare da Nietzsche del materiale linguistico, come ad esempio, l’espressione “Es”, per designare l’inconscio.

[7] Dei tre poeti tragici fu il meno accetto da vivo agli Ateniesi: e su questa circostanza Aristofane commise l’imprudenza di scrivere nelle Rane (v. 868 seg.) e di far dire all’ombra di Eschilo: “la mia poesia non è morta con me: la sua [di Euripide] è morta con lui”: Mai giudizio letterario fu più avventato perché a breve distanza di tempo vi fu la vittoria con le Baccanti (rappresentata postuma nel 405 insieme all’Ifigenia in Aulide, le uniche che rimangono della tetralogia presentata appunto postuma dal figlio, Euripide il giovane. Nell’anno precedente, il 406, erano morti infatti sia Sofocle che Euripide)

[8] Farmaco distillato dal croco caucasico color zafferano, che avrebbe protetto Giasone dalle fiamme uscenti dalle narici dei tori; questo magico fiore infatti sbocciò dal sangue di Prometeo torturato. Il croco caucasico di Medea è il velenoso colchicum, ossia il colchico, considerato dagli antichi come il più efficace rimedio contro la gotta e lo è ancora9. Esso contribuì a creare la misteriosa fama di Medea.

[9] Giasone esprime  con cinismo motivazioni, sorrette dalle convenienze sociali, ben note al pubblico ateniese: in Atene infatti una moglie è solo la madre dei figli legittimi, senza i quali un cittadino è socialmente sminuito. Potevano avere diritto di cittadinanza solo i figli nati da genitori ateniesi, perciò Giasone non capisce la ragione per cui Medea si ribella alla condizione in cui molte donne straniere vivevano felicemente, quella di pallakè (concubina), che concede al proprio uomo di avere anche una moglie e dei figli legittimi dal punto di vista giuridico. La situazione in Atene era precipitata con il fatto che i combattenti, tornando dalla guerra, oltre agli schiavi e al bottino, portassero con sé anche donne straniere, legate loro da vincoli più o meno regolari con numerosa prole.Ciò aveva fatto aumentare il numero dei cittadini con grave disagio sociale e grande allarme delle fazioni più conservatrici, tanto che Pericle nel 451 aveva emanato un decreto secondo il quale il diritto di cittadinanza era limitato a coloro che fossero figli di genitori ateniesi. La cosa comportò una serie di ripudi, nello stesso tempo in cui una serie di unioni venivano ad essere confinate ai margini della legalità.

[10] Eva Cantarella (L’ambiguo malanno, Editori Riuniti, pag. 100)  ha dimostrato inequivocabilmente che per lechos (il letto) si deve intendere lo status coniugale, e che solo la forza del “letto” è capace di provocare la ribellione delle donne”. in quanto unica forma di "sicurezza sociale per la moglie e sicurezza economica per la concubina" . Non è da intendersi il lechos sotto il profilo semplicemente sessuale. Il tradimento del lecoV giustifica la vendetta, perché costituisce un oltraggio alla dikh coniugale, e si tratta di un' “ adikia” non unicamente circoscritta a colui che l'ha promossa con la sua azione, ma che coinvolge anche coloro che l'hanno favorita o assecondata. Perciò Creonte e sua figlia Glauce sono corresponsabili della stessa colpa

 

 

 

[11] Nietzsche dice : “Infatti è destino di ogni mito rintanarsi a poco a poco nell’anfratto di una presunta realtà storica e di essere considerato da una qualsiasi epoca storica come un evento straordinario che rivendica una sua storicità…Ed è così che si estinguono le religioni: quando cioè i presupposti mitici vengono organizzati sistematicamente…Con la tragedia il mito..si rialza per l’ultima volta”(La nascita…., pag.89)

[12] Citiamo per tutti Ecateo di Mileto, vissuto dal 550 sino a dopo il 470, con cui la storiografia ionica sembra ripudiare il passato leggendario ed acquistare chiara coscienza del suo ufficio e delle sue possibilità. Al di là per la curiosità per le tradizioni antiche suscitavano larghi interessi le nuove esperienze di quanti nei viaggi e nella quotidiana osservazione dei più disparati costumi degli uomini nutrivano amore per l’indagine della vita presente e degli usi nazionali od esotici,

. L’interesse etnografico e storiografico distolgono Ecateo dalle favole del passato alla realtà del presente. Nel primo frammento delle Genealogie così recita “…queste cose scrivo nel modo che a me paiono vere, perché i racconti dei Greci mi sembrano ridicoli e discordanti tra loro”. Si tratta di un ingenuo razionalismo, che non avendo la forza di negare la tradizione, si limita ad amputarla dei suoi particolari risibili con procedimento soggettivo, arbitrario e perciò pericoloso: ma con quell’affermazione Ecateo ha, si può dire, fondato la scienza della storia. (Gli altri logografi, pur preparando la via ad Erodoto, segnano un lieve regresso rispetto al razionalismo di Ecateo nel modo di concepire la storia e di assumere posizione dinanzi la tradizione). Nello stesso Erodoto (484-425) poi il logos non ha ancora interamente abdicato alle seduzioni dell’epos, alla gioia tutta ionica di un raccontare e novellare svagato. E sarebbe infatti procedimento non giusto paragonare l’opera di Erodoto a quella di Tucidide (460/455-403/399)

[13] Teognide di Megera Nisea, sull’istmo di Corinto ebbe l’akmè nel 544-541, perciò nel pieno VI secolo. Un tratto saliente della sua personalità e della sua poesia è l’appartenenza al ceto aristocratico ; egli ne difende ideali ed ideologia, sdegnato di fronte ad una società  nella quale i nuovi strati mercantili emergono conquistando ricchezza e potere, mentre la storia decreta un inesorabile declino per la vecchia aristocrazia e i suoi rappresentanti. Riguardo l’aspetto religioso vero e proprio, riscontrabile nelle poesie di carattere personale, troviamo che Teognide domanda a Zeus con atto di ribellione presagio di crescente individualismo, nell’ardore della sua fede, perché mai permetta che l’innocente paghi ingiustamente per colpe non proprie, perché la punizione divina giunga in ritardo a colpire perché giusti ed ingiusti siano trattati nello stesso modo (vv. 731-752). Nello sconforto e nel peso della miseria e dell’esilio Teognide trova la forza di superare la morale comune.

[14] Cfr il I° libro delle Storie  (capp. 20-22) quando Tucidide supera il motivo erodoteo: “Sulla scorta degli argomenti riportati, tuttavia, non si sbaglierebbe considerandoli, più o meno, tali quali io li ho riferiti, piuttosto che prestar fede a quanti di essi cantarono i poeti, abituati ad abbellire ed esagerare, o a quel che scrissero i logografi (così Tucidide chiama gli storici che lo hanno preceduto, e vi è nel termine una certa sfumatura di disprezzo, cui non sfugge nemmeno Erodoto), più piacevoli alla lettura che veritieri.Trattandosi di avvenimenti non controllabili, molti dei quali, per il tempo trascorso, sono sconfinati nel mitico, suppongo di aver fatto ricerche, tra le prove più evidenti, sufficienti per fatti tanto antichi……”

[15] L’immagine tragica di Medea che rimane è certamente data dalla doppia metafora che unisce due degli animali simbolo per forza e ferocia: il toro e il leone, anzi la leonessa “che ha appena partorito”: “Eppure infuriata come un toro volge sui servi uno sguardo di leonessa partoriente, quando qualcuno le si avvicina e le rivolge la parola” (vv. 187-189).

[16] A giustificare il delitto è proposto uno spunto che suona come antitesi all’insegnamento di Socrate: “E mi rendo conto di che mali sto per compiere, ma i miei progetti li domina la passione, che è la piu’ grande causa di mali per i mortali” (vv. 1078-1080).

[17] Per l’uccisione dei figli da parte della stessa madre, crimine mostruoso e addirittura impossibile per i Greci dell’età di Pericle, alla Medea di Euripide, presentata sulla scena nel 431, i giudici ateniesi non assegnarono il primo premio, eppure già allora forte fu l’impressione lasciata nel pubblico. Quando poi, durante il IV secolo, nell’arte si cominciò ad attribuire maggior importanza ai valori umani piuttosto che a quelli eroici, il dramma di Medea fu compreso nella sua vera grandezza ed ancora oggi continua ad affascinare.

 

 

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[18] La fabula di “Amore e Psiche” d’altronde riproduce come un modello in scala ridotta l’intero percorso narrativo del romanzo. E’ possibile stabilire un parallelo tra Psiche e Lucio. Entrambi, infatti, all’inizio del loro percorso si trovano in una situazione positiva e tranquilla, i due, in seguito, per aver cercato di conoscere una nuova realtà (Psiche vuole scorgere il volto dell’amato contro la sua stessa proibizione, Lucio tenta di trasformarsi in uccello come aveva fatto Panfile) cadono in disgrazia e solo attraverso esperienze degradanti e numerose prove giungono a recuperare la felicità ed una condizione migliore di quella inizi.

[19] V. Ja. Propp, russo vicino alla corrente formalista, nella sua opera dedicata alla struttura delle fiabe di magia "Morfologia della fiaba" (Torino, Einaudi, 1966; prima ed. originale 1928) ha mostrato come in tutte le fiabe agisca uno schema invariante, riconducibile a trentun funzioni narrative disposte sempre nello stesso ordine.
 

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