Sperimentazioni selvagge

Sempre più spesso le case farmaceutiche avviano le sperimentazioni sui nuovi farmaci nei paesi poveri.Cavie umane a bassissimo costo, poche regole , tempi brevissimi.Per la popolazione locale nessun vantaggio e moltissimi rischi.Questo articolo tratto da http://www.zadig.it/ svela i meccanismi crudeli e i disatrosi effetti.

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Malati poveri e docili cercansi

Siamo nel 1996 e gli analisti di Wall Street valutano il nuovo antibiotico della Pfizer, il Trovan, un miliardo di dollari l’anno. Lo si vuole sperimentare anche contro la meningite. Il caso vuole che, non trovando abbastanza candidati negli Stati Uniti, in Nigeria sia in corso un’epidemia che falcerà 15.800 vite. Con un controllo pressoché nullo da parte della Food and Drug Administration, l’ente che dà il via libera ai farmaci ma che ha poca voce in capitolo sugli esperimenti fuori confine, i ricercatori della Pfizer allestiscono l’esperimento nella città di Kano.

Così mentre nella corsia a fianco i medici di Medecins sans frontières curano i disperati con un antibiotico il cloramfenicolo, i ricercatori della multinazionale americana assoldano 200 bambini per provare il nuovo prodotto. I sospetti nascono subito a causa della rapidità del test, che viene messo a punto in appena sei settimane, contro l’anno circa richiesto dalle autorità statunitensi. A dire il vero la Pfizer dichiara di aver ottenuto un parere favorevole al disegno della sperimentazione dal comitato etico dell’ospedale di Kano. Esce però in questi giorni (17 gennaio) la notizia secondo la quale l’azienda farmaceutica si sarebbe fatta rilasciare dai medici locali una lettera predatata di formale accettazione di un esperimento in realtà già iniziato e che procedeva a tempo di record. Desta interrogativi anche il fatto che non venga richiesto un consenso scritto, ma solo verbale, adducendo i costumi del luogo.Ma soprattutto sconcerta che la terapia a base di questo antibiotico venga mantenuta anche molti giorni dopo che i piccoli pazienti non rispondono. Undici bambini muoiono. Difficile dire quanti per la malattia e quanti per il mancato intervento. Sta di fatto che anche a causa a questo trial le autorità statunitensi permetteranno l’uso del farmaco solo agli adulti a causa dei frequenti danni al fegato e alle morti osservate anche in Occidente. In Europa la medicina verrà ben presto tolta dal commercio.

Che cosa insegna il caso Trovan, magistralmente raccontato nella prima di una serie di reportage sulle sperimentazioni farmaceutiche nei paesi in via di sviluppo dal Washingon Post ("Cacciatori di corpi” è il titolo della serie, che si può consultare sul sito internet del quotidiano http://washingtonpost.com/)? Le conclusioni sono riassumibili in due semplici punti: le case produttrici cercano sempre più spesso di sperimentare i nuovi farmaci nei paesi dell’Africa, dell’America latina, dell’Est europeo e dell’oriente meno sviluppato; lo spostamento nel campo d’azione della ricerca comporta un alto rischio (o la certezza?) di violazione dei diritti elementari delle persone e di cattiva qualità dei risultati.

MATERIA PRIMA PREZIOSA A BASSO COSTO

La tendenza va inquadrata nell’evoluzione recente dell’industria farmaceutica, un settore in rapida crescita e concentrazione (negli ultimi anni fusioni a ripetizione hanno prodotto giganti di dimensioni impressionanti) che deve rispondere con profitti adeguati agli investimenti sempre maggiori che richiede. Per reggere la concorrenza, nuovi farmaci a ripetizione devono essere messi sul mercato, per ciascuno dei quali è necessario un lungo, complesso e costoso percorso, dalla ricerca di base sino alla sperimentazione nell’uomo, prima su volontari sani e poi su malati. In un giorno qualsiasi, ormai, sono in corso nel mondo centinaia di prove cliniche diverse, per ciascuna delle quali sono necessari centinaia, se non migliaia (talvolta anche decine di migliaia) di soggetti da esperimento. La mancanza di materia prima umana è dunque la prima molla che spinge ad allargare il reclutamento fuori dalle sedi tradizionali, che sino a pochi anni fa erano esclusivamente le corsie delle Università e degli ospedali nei paesi ricchi. La ricerca si è spostata prima negli ambulatori dei singoli medici degli stessi paesi e ora, in cerca di territori sempre più vergini, verso le grandi masse di popolazione delle aree geografiche in via di sviluppo. Dove, oltre tutto, essendo assai peggiori le condizioni di salute, è più facile trovare in gran numero sofferenti di ogni singola malattia. E medici disposti ad arruolarli dietro compensi che superano di gran lunga le normali paghe mensili locali.

REGOLE PIU' LASSE E COMPRENSIVE

Se le motivazioni fossero solo queste, le preoccupazioni potrebbero essere ancora contenute. Ma c’è dell’altro. In questo settore vale più che mai il motto secondo cui il tempo è denaro. In un recente articolo sul New England Journal of Medicine si riferisce che, secondo stime della stessa industria, ogni giorno di ritardo prima dell’entrata in commercio di un nuovo medicinale costa in media al produttore 1,3 milioni di dollari in mancate vendite. Il che significa che sono enormi le risorse che possono essere investite con la speranza di affrettare i risultati. Così come sono infinite le possibilità di tagliare tempi e costi spostando la ricerca dove gli standard etici e normativi sono assai meno vincolanti di quelli in vigore negli Stati Uniti o nella Comunità europea. Sono i prodigi della globalizzazione. Per di più, l’estrema frammentazione delle competenze nell’organizzazione delle grandi sperimentazioni cliniche consente ai grandi gruppi di scaricare la responsabilità di tutti i comportamenti disinvolti su piccole società che si incaricano di svolgere il lavoro sporco. In Svizzera è in corso un’inchiesta giudiziaria su una di tali organizzazioni, che, alla disperata ricerca di malati (aveva decine di contratti firmati con grandi case produttrici), era arrivata a utilizzare tossicodipendenti, rifugiati e persino a importare charter di pazienti dall’Estonia.

CHI SI FA PENA DEL CONSENSO INFORMATO?

Con tutto ciò, i giornalisti del Washington Post sembrano scandalizzati soprattutto dal fatto che nella maggior parte dei casi il "consenso informato” di chi si presta alla sperimentazione è inesistente o fittizio. E’ un approccio molto anglosassone, che risulta di fatto inapplicabile, se non addirittura incomprensibile, in buona parte dei paesi poveri. Leggendo per esempio le condizioni in cui i bambini nigeriani decimati da un’epidemia di meningite si affollavano nelle corsie disperate di un ospedale con i muri "imbrattati di escrementi e di sangue”, e dove medici statunitensi si erano catapultati a sperimentare un nuovo antibiotico, ci si domanda se la preoccupazione formale per il consenso informato non sia un alibi morale per eludere questioni più sostanziali, a cominciare dalla povertà e dalla fame. Oppure, se proprio si vuole restare nell’ambito della ricerca medica, ci si potrebbe chiedere almeno come si possa fare in modo che le nuove scoperte arrivino a beneficiare anche coloro che si sono prestati, più o meno consapevolmente, a fare da cavie.

Ma la regola è un’altra: dopo poche settimane i medici stranieri scompaiono, all’improvviso come erano arrivati. Di loro e dei loro farmaci, in Nigeria come in altri cento paesi, nessuno sa più nulla.

Roberto Satolli, Luca Carra