ESICASMO

Disciplina dell'arcano e adattamenti storici

Comparazione con la tradizione sufista
 

 

La teologia ortodossa, in particolare la scuola di «teologia mistica» e l'orientamento «neo-palamita», è consapevole di una marcata differenza fra misticismo, secondo l'accezione cattolica moderna, e mistica esicasta. Tale differenza è sostenuta anche dall'«orientamento tradizionale» a partire da Guénon, che inclina a comprendere l'esicasmo fra le forme, ancora attive, di esoterismo cristiano. Naturalmente il punto di vista dell'esoterismo «tradizionale» non coincide con quello della teologia ortodossa. Non a caso Valsan osservò che, per capire come stanno le cose, «non è ai teologi o ai preti, e neppure a un monaco, che si potrebbe chiederlo». Lo stesso Guénon criticava molti interpreti moderni dell'esicasmo «che si sforzano di 'minimizzare' l'importanza del suo lato propriamente 'tecnico', sia perché ciò risponde realmente alle loro tendenze, sia perché essi pensa­no di sbarazzarsi così di certe critiche che procedono da una misconoscen­za completa delle cose iniziatiche». Reciprocamente, sarebbe facile trova­re passi in cui teologi ortodossi sconfessano esplicitamente la prospettiva guenoniana. Citiamo, a solo titolo di esempio, due grandi studiosi e divulgatori della preghiera di Gesù:
1) O. Clément: «(l'esicasmo) è l'asse discreto ma non segreto di tutta la vita ecclesiale dell'Oriente cristiano» (La prière du coeur, 1980, tr. it. Milano 1984,50); «l'esicasta non è al di là della Chiesa, si colloca al centro di essa» (ibidem, 52); «il ricorso allo scritto (nei testi del XII e XIV secolo) prova che i maestri erano scomparsi, o quasi, e anche che l’esicasmo non è un esoterismo (con le sue linee ininterrotte di maestri e di discepo­li, come il 'sufismo'), ma la realizzazione cosciente del mistero cristiano, sempre suscettibile di rinascere dalla vita sacramentale e dalla penetrazione spirituale delle Scritture» (ibidem, 89).
2) E. Behr-Sigel, (Le lieu du coeur, 1989, tr. it. Milano 1993, 115): «La pratica della preghiera di Gesù da parte di cristiani appartenenti a differenti confessioni non può essere collocata nella prospettiva 'guénoniana' della ‘unità trascendente delle religioni’. Un impiego della preghiera di Gesù al di fuori della confessione di fede di Pietro ci sembrerà sempre più inconsistente e sospetto [...], non vedendo in Gesù che una trasformazione del Divino impersonale, o l'imma­gine interiore del 'Sé'».  (Cfr. anche: I. Ioanszcu, L’esperienza della preghiera di Gesù nella spiritualità romena, Città del Vaticano 2002, 84ss.)

 Tuttavia, le rispettive dichiarazioni di principio non impediscono che la comparazione storico-religiosa rilevi significative somiglianze morfologiche dell'esicasmo con un esoterismo (in particolare con quello islamico).

      La prima riguarda il «padre spirituale» (geron, starec). Questa figura - che nasce dai «monaci del deserto» e che vede in Antonio Abate (ca. 250-356) un paradigma, forse anche un prototipo - viene chiaramente di­stinta, nella Chiesa Orientale, dalla figura del presbitero. A quest'ultimo, ministro, tra l'altro, del sacramento della confessione, si palesano i peccati realmente commessi, per i quali si chiede l'assoluzione. Allo starec invece, al di fuori di qualsiasi contesto sacramentale (dato che nulla esclude che que­sti sia un laico), si manifestano i desideri e le tendenze affioranti nel cuore e nell'immaginazione, anche se nessun peccato, in senso tecnico, è stato com­messo. Ciò che viene manifestato allo starec, insomma, sono soprattutto i logismoì. Questo termine indica i «pensieri», teoricamente neutri, della ra­gione discorsiva: ma nella prassi ascetica sono venuti a significare i pensieri impuri, «intrisi di passioni» e, al limite, le tentazioni connesse ai «vizi capi­tali». In proposito la patristica orientale (soprattutto Evagrio e Massimo il Confessore) ha elaborato una complessa «psicologia del profondo» riguar­dante l'origine (diabolica) dei logismoì, le modalità di azione di questi sullo spirito umano (originariamente immune dal male), i gradi di penetrazione dei «pensieri passionali» nel cuore e quindi dell'«indurimento» di quest'ultimo, l'individuazione della «passione radicale» nell'orgoglio (philautìa) che Massimo il Confessore definisce «amico di sé contro se stesso».

      La penetrazione dei logismoì ottenebra e indurisce il cuore, alimenta la philautìa e con essa la coscienza dell' ”io psicologico”: con la sua pulsione carnale (thelema sarkikon); con l'inclinazione appetitiva (prospàteia) che sorge dopo la rappresentazione suscitata dal logismos nel cuore «che ama se stesso»; per ultimo, con la «pretesa di giustizia», con la «giustificazione di sé» (dikaìoma) che induce a trovare addirittura in passi delle Sacre Scritture una discolpa della propria deviazione interiore. Ora, a differenza del sacerdote, lo starec non deve «assolvere dai peccati» il fedele che si rivolge a lui (e che tornerà presumibilmente a peccare nonostante l'atto di contri­zione e le prescrizioni penitenziali); egli deve invece aiutare il suo discepo­lo a sradicare i logismoì dal proprio essere, dissolvendo così la philautìa una volta per tutte. Questo processo di purificazione è concepito come una du­rissima lotta ingaggiata contro il nemico annidatosi nel proprio cuore, co­me una vera e propria «fatica del cuore» (ponos kardìas). In precedenza abbiamo fatto riferimento alle numerose metafore guerriere dell'ascesi che costellano i trattati patristici orientali. In tutto ciò, lo starec svolge una funzione essenziale. Egli dispone della diàkrisis, un termine che significa in­sieme «discernimento» e «discrezione». Senza questo sostegno spirituale e «sottile» i praticanti, abbandonati a loro stessi, cadrebbero quasi inevita­bilmente nell'illusione demoniaca. Per altro verso il possesso della diàkrisis dispensa dalla scienza, sia sacra, sia profana: molti grandi Padri, come Cirillo di Scitopoli, Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio dì Nissa, Massi­mo il Confessore, etc., si dichiarano «illetterati» (agràmmatoi) e «ignoranti» (idiotai) anche quando (Massimo il Confessore) dispongono di una cultura enciclopedica, giacché «1a scienza di Cristo non ha bisogno di un'anima dialettica, ma di un'anima veggente; il sapere dovuto allo studio si può pos­sedere senza essere puri: la contemplazione appartiene soltanto ai puri». Inoltre la diàkrisis comprende dei gradi e, per conseguenza, «una gerarchia nei ranghi dei padri spirituali». Il «diacritico» infatti può disporre della «conoscenza del cuore» (kardiognosia), diventare un dioratikòs, provvisto di una sorta di «visione attraverso lo spazio e la materia», così come può di­sporre della correlativa proòrasis, «visione attraverso il tempo», ossia del dono della profezia.

Un punto essenziale sul quale Scrima si è soffermato è quello della «ge­nerazione spirituale» e quindi della successione tradizionale dei «padri spi­rituali». Il «vecchio» è eminentemente «padre», ad onta di ogni limitazione naturale. S. Paolo ricorda: «Potreste infatti avere anche diecimila peda­goghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante l'evangelo» (1 Cor 4,15). È stata rilevata la par­ticolare, quasi paterna», amorevolezza delle parole di S. Paolo; ad esempio l'uso di termini come thalpein (1 Cor 3,2) tradotto con «prendersi cura» ma che vale anche come «coccolare», «riscaldare», addirittura «cova­re» (lat. fovére); come trophòs «nutrice» (1 Tes 2,7); e perfino homeiròmenoi (1 Tes 2,8), indicante «un'inclinazione forte, languida, quasi morbosa», dunque un'ardita metafora d'amore rivolta ai figli spirituali. La tradizio­ne patristica è ricca di richiami alla filiazione dei discepoli intesa sia come paràdosis, sia come atto generativo simbolico. Già S. Paolo (Gal 4,19) si ri­volge alla comunità dei Galati come a «figli miei, per i quali continuo a sof­frire i dolori del parto, finché non sia formato in voi il Cristo». La genealo­gia dei Padri spirituali presenta la trasmissione del loro carisma utilizzando il verbo «generare» (cosi Macario genera Ammonas, Ammonas genera Si­soes... Arsenio genera Daniele, etc.). Lo starec è qualcuno che ha rag­giunto un livello spirituale - permanente o meno che sia - nel quale ha realizzato «la discesa della mente nel cuore» e, in virtù dell'illuminazione che ne è conseguita per grazia, può disporre del carisma della paternità. L'idea di paràdosis («tradizione») è, inoltre, ben presente nelle fonti: per Si­meone il Nuovo Teologo, ad esempio, «colui che non è ancora generato non è capace di generare i suoi figli spirituali; ed ancora «Per donare lo Spi­rito Santo bisogna averlo [...]»: espressioni che, come abbiamo visto, concordano perfettamente con quelle di Guenon.

Se dall'esicasmo ci vol­giamo alle turuq islamiche, osserviamo che il richiamo alla tradizione è mol­to avvertito anche nella pratica del sufismo (tacawwuf). La linea di succes­sione fra «maestri» (shuyùkh) è segnata con scrupolosa precisione. Tutte le turuq iniziatiche fanno capo a Maometto. E' attraverso lui, nella sua qualità di Uomo Universale (al-insdn al kamil), che Dio vede tutte le cose. Nelle turuq la benedizione discende, oltrechè dai santi delle rispettive confraterni­te, anche dalla «realtà muhammadiana»  che si identifica col Logos universale. Questa «influenza spirituale» (barakah) ha un valore iniziatico, al quale si accompagna la attribuzione del wird («formula di orazione») assieme all’«autorizzazione» (idhn) del maestro a recitarla. Senza questa autorizzazione il praticante non potrebbe fruire dell’aiuto spirituale trasmesso dalla catena iniziatica (silsilah): inoltre, la sua iniziativa puramente individuale rischierebbe di essere in flagrante contrad­dizione con il carattere essenzialmente non individuale del simbolo, donde il pericolo di reazioni psichiche incalcolabili, simili a chi intendesse pra­ticare la «preghiera del cuore» nella sua forma «tecnicizzata» senza il soste­gno del «padre spirituale».

In proposito, alcune fonti accennano al carattere segreto che in origine doveva possedere anche l'esicasmo. Olivier Clément, citando anche l'Avènement philocalique di Scrima spiega alcune allusioni simboliche dei Pa­dri del deserto come riferentisi ad un insieme già costituito ma trasmesso fi­no al XIII secolo per tradizione orale e affidato ad una pratica segreta (ad es. le immagini della colomba e dell'aquila, che suggeriscono la tecnica del sof­fio e della respirazione; il riavvicinamento del cuore e della preghiera «ignea», frequente soprattutto nell'insegnamento pseudo-macariano, etc.). Già Giovanni Cassiano (sec. IV-V) a proposito della «preghiera pura» affermava:

«E' un segreto [...] che ci hanno trasmesso i rari sopravvenuti fra i Padri antichissimi e che noi non riveliamo egualmente che al piccolo nu­mero di anime che hanno veramente sete di conoscerlo».

Analogamente, Niceforo il Solitario e lo pseudo-Simeone «sembrano solamente divulgare delle pratiche molto antiche, radicate nel tufo originario del monachesimo cristiano. Anche Vladimir Lossky nota che Simeone viene definito «Nuovo Teologo» perché «la mistica veniva considerata come la teologia per eccellenza», che tuttavia «appartiene a un fondo per così dire segreto e misterioso, che non deve essere divulgato. Gli scritti di S. Simeone, per esempio, erano destinati solo ai monaci già sperimentati nella vita contem­plativa».

Ancora nel XIX secolo il vescovo Brjancaninov osservava che, nel passato, la preghiera compiuta «con arte» (ottenere la discesa della mente nel cuore mediante l'invocazione del Nome, coordinata con visualiz­zazione e ritmo respiratorio) veniva «tenuta segreta come un grande miste­ro di cui non si parla [...]». Ai suoi tempi, invece, non solo i monaci ma tutti i cristiani, grazie alla pubblicazione della Philokalia, avevano e potevano praticare la «preghiera di Gesù». Nell'esicasmo il tema della segretezza si lega - come può notarsi - con la forma «tecnicizzata» della «preghiera del cuore». Come notava lo stesso Valsan, l'invocazione del Nome divino in se stessa non è affatto «esoterica». Essa può (nel contesto islamico deve) essere compiuta da qualsiasi fedele ed in Russia è da molti secoli fra le preghiere più popolari. La situazione cambia quando la formula è inserita in un ambito di pratiche respiratorie, di visualizzazio­ni, di genuflessioni, di posture; esse servono come supporto per una medi­tazione profonda che, attraverso la «fatica del cuore» congiunta alla grazia, può portare all'illuminazione. Ovviamente tali pratiche, come si è detto, non possono essere eseguite senza l'ausilio (la «benedizione») di un «padre spirituale»: questi, oltre a penetrare «dioraticamente» nei logismoì e a con­tribuire a purificarli, darà al discepolo la formula da ripetere, talora per mi­gliaia di volte al giorno. Allo starec spetta il compito di affidare al novizio la ripetizione anche di una sola parte dell'invocazione, ovvero di indicare il numero di invocazioni da ripetere in sostituzione delle liturgie ordinarie. Ora, tutto ciò trova rispondenza nell'ambito dell'esoterismo islamico. In ambedue i casi è esiguo il numero degli aspiranti all'iniziazione» ed an­cor più ristretto quello di coloro che riescono a conseguirla. I principian­ti riceveranno una formula, di solito corrispondente al primo membro del-la shahada; i più avanzati si applicheranno al solo nome di Allah. Stati ul­teriori di rapimento in Dio prevedono espressioni di omaggio all'ineffa­bilità divina, dal semplice Huwa (Lui) a at Haqq (Verità), al-Havy («il Vivente») etc., fino alla massima «concentrazione» in cui potranno essere pronunciate separatamente le lettere componenti il nome di Allah, «o an­che un suono non sostenuto da una lettera». Ad ogni stato raggiunto, la formula dello dhikr di solito cambia, sotto la direzione dello shaykh. Ed ogni stato, o meglio ogni «stazione» (maqàm), è caratterizzata da una illu­minazione e da una «realizzazione» progressiva del mistero (sirr) degli at­tributi divini.

Questa analogia di forme sottende, tuttavia, delle differenze rilevanti. Esse riguardano anzitutto la figura dei «maestri» e la loro linea di successio­ne- Nell'Islam lo shaykh riceve sempre un'iniziazione, a prescindere dalla funzione che lo abilita ad impartire, a sua volta, iniziazioni; in ambito cri­stiano invece il «padre spirituale» riceve un carisma dallo Spirito, che non gli viene trasmesso «iniziaticamente» ossia nell'ambito di una confraternita ristretta da parte di co-iniziati -, ma che egli acquisisce per grazia, attraverso l'assidua frequentazione di un altro «padre» o anche per diretta elargizione divina. Di solito l'«illuminazione» (photismòs) dello Spirito Santo nel cuo­re si affianca al carisma di paternità: lo stato interiore accompagna e giustifi­ca la funzione. E tuttavia anche la funzione di starec si può perdere assie­me a un decadimento complessivo delle qualità spirituali. Inoltre, ancor più che nell'Islam, quella di «padre spirituale» può considerarsi una funzione vicaria. Tutte le turuq fanno capo a Maometto, che ebbe un'estesa famiglia, il che ammette discendenze genealogiche, sovente non solo «spirituali», a partire dal Profeta. Nel Cristianesimo Orientale l'esicasmo fa capo diretta­mente alla divinità di Gesù, conformandosi all'esortazione evangelica: «Non chiamate nessuno «padre» sulla terra perché uno è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9). Ciò spiega l'umiltà dello starec come requisito assoluto del suo compito, perfino più vincolante dell'obbedienza alla quale è tenu­to l'allievo. «Come potrebbe giudicare gli altri chi invoca continuamente «abbi pietà di me peccatore?»: cosi il padre Eutimio dell'Athos giustificava la sua mitezza nei confronti dei discepoli. Se il discepolo riceverà ordini severi sarà solo per misurare la sua ubbidienza; per il resto, il «padre» appli­ca all'allievo la sua diàkrisis, il discernimento, del quale quest'ultimo è sprovvisto. Tale discernimento non si esprime necessariamente in parole. «Al discepolo che lo interroga,  l'anziano risponde generalmente con un apoftegma che è un'autentica parola profetica, una risposta messa da Dio sulle labbra dei padri che ne ha uno ricevuto il carisma». E tuttavia «quando i discepoli non sono nelle disposizioni necessarie per accogliere con fede questa parola, gli anziani ricorrono facilmente al silenzio, a una bat­tuta di spirito, a una risposta volutamente ambigua o enigmatica». Liberi da ogni spirito di dominio e non avendo il compito di garantire il buon andamento di una comunità, essi non esercitano alcuna pressione sulle anime, cercando di essere «un modello, non un legislatore». Questa «discrezio­ne» dei «padri spirituali» - che, come abbiamo visto (supra, p. 147) è un al­tro aspetto della diàkrisis - spiega forse più delle varie (presunte o reali) fasi di «decadenza» il fatto che talvolta, nel corso della storia, la presenza dei «padri spirituali» sembri ridursi fin quasi a scomparire. In realtà essi sono, nella loro funzione, dei «vicari» e quindi, entro certi limiti, «sostituibili» con un accesso diretto alle Sacre Scritture e alla tradizione. Un caso esemplare è rappresentato da Paisij Velickovskij (1722-1794). Quando conduceva la sua vita da monaco, egli era alla ricerca di un padre spirituale: ma dove trovarlo? In una lettera al suo amico Bessarion confessa la sua desolazione e il suo proposito: «Non ci resta che una sola via d'uscita: studiate giorno e notte le Sa­cre Scritture e gli scritti dei Padri, domandare consiglio ai fratelli che pensa­no come noi e ai Padri più anziani, imparare a mettere in pratica i comanda­menti di Dio e ad imitare gli asceti di un tempo». Da questa decisione for­zata nasce l'immenso sforzo compiuto nel monastero romeno di Neamtz, dove Paisij sarà igumeno, per raccogliere manoscritti - quelli del Monte Athos erano particolarmente deteriorati - e per tradurre in slavonico gli scritti dei Padri, assieme allo sforzo di vivere insieme e di mettere in opera ciò che si studiava nel monastero.

Secondo il vescovo Brjancaninov, Paisij avrebbe ottenuto il dono della preghiera del cuore da teodidatta, per un favore speciale della grazia divina, senza seguire la via ordinaria (relazione filiale con uno starec) che invece raccomandava ai suoi discepoli. Proprio per questo non osava insegnare a praticare la «preghiera del cuore» ai fratelli e affidava questi insegnamenti ad altri padri che avevano ottenuto la preghiera per "via normale". Nonostante ciò egli si dichiarava pronto a subire le pene eterne a vantaggio dei «figli spirituali» (anche qui una funzione «vicaria» ad imitazione di Cri­sto!), chiedendo a Dio di consentirgli di vedere da lontano «come il ricco epulone vide Lazzaro, la felicità dei suoi nel Regno celeste».

Dalla «crisi» di paternità spirituale (dovuta largamente al diffondersi dell'illuminismo nel mondo politico e culturale della Russia del '700), Pai­sij promosse dunque una «ripresa» che presto diede i suoi frutti. Da lui se­guirà, come si è visto, una vera e propria «catena» di starcy ispirati: tra que­sti, le «guide» del monastero di Optina - padri Leonid, Macarij ed Amvro­sij - dai quali discenderà la generazione spirituale che condurrà fino ad Ivan Kulygin e, forse, allo stesso Andrei Scrima. La successione degli starcy, a differenza di quella degli «sceicchi» delle confraternite islamiche, può dunque paragonarsi ad un percorso carsico: sembra ad un tratto scomparire per poi riaffiorare, rinvigorita, e continuare il suo cammino. Nulla esclude che se, all'inizio del percorso, la via esicasta era «segreta»  es­sa sia divenuta «discreta», ma visibile e praticabile da un relativamente mag­gior numero di adepti, per conservare aperta, anche in climi storici deterio­rati una regolare via verso la «deificazione» (e non la semplice «salvezza») nel mondo cristiano.

 

Un altro punto in cui le divergenze fra esicasmo e sufi­smo sono più evidenti riguarda l'importanza attribuita alle «tecniche» psico-fisiche. Anzitutto nell'Islam tali tecniche sono molteplici variando a se­conda delle turuq che le praticano, e sono sempre rigorosamente tramanda­te. Inoltre esse costituiscono una componente irrinunciabile del «metodo» operativo, simbolico-rituale. Nell'esicasmo invece le varie applicazioni pratiche della tecnica psico-fisica sono meno formalizzate. Esse raggiungono forse il massimo della loro strutturazione nel trattato di Niceforo, falsamen­te attribuito a Simeone il Nuovo Teologo. Tra l'altro, la pratica dell'«onfaloscopia» suscitò la riprovazione di Barlaam Calabro e dei «tomisti orienta­li» e provocò l'efficace reazione difensiva di Gregorio Palamas. Tuttavia la difesa dei santi esicasti promossa da Palamas riguardava i principi teologici e spirituali e inquadrava strumentalmente, entro tali principi, le pratiche sotto accusa. Col tempo, una linea prevalente di teologi ortodossi ha ridimen­sionato l'importanza delle tecniche psico-fisiche (non senza, peraltro, rico­noscerne e valorizzarne i significati simbolici). Ciò, a nostro avviso, non di-pende tanto dalla misconoscenza delle scienze iniziatiche di cui parla Guénon, quanto dalla cognizione del carattere non essenziale di tali «appoggi», oltreché dal tentativo di non accentuare le distanze rispetto al mondo latino e, soprattutto, dalla consapevolezza dei rischi connessi alla loro utilizzazione in assenza di un «padre spirituale». Senza dubbio la ridotta importanza delle tecniche psico-fisiche è parallela alla diminuita reperibilità di autentici starcy. Ma più che di «decadenza» pura e semplice dell'esicasmo, occorre­rebbe forse parlare di mutate condizioni storico-culturali (e spirituali). Do­po il rinnovamento promosso da Paisij e dalla redazione greca della Phi­lokalia di Macario di Corinto e di Nicodemo Aghiorita (Venezia, 1782), nel Monte Athos vennero redatti diversi trattati anonimi riguardanti la «pre­ghiera del cuore». Uno di questi, L'Insegnamento e metodo della preghiera mentale (ca. 1835), pur presentandosi come un'«epitome priva di una effet­tiva originalità» indica, forse proprio per questo, alcune linee di tendenza consolidate. Vi è sottolineata la portata antiereticale della orazione esicasta e la sua origine apostolica: ma la parte più significativa dell'opuscolo consiste nella trattazione «aggiornata» della tecnica psico-fisica. L'autore si sofferma sui rischi legati all'abuso «diabolico» di queste tecniche e accosta i temerari che le applicano malamente ai «falsi monaci maomettani», ossia ai «dervisci dei maomettani che danzano in cerchio, schioccando la lingua, sbavando ed eruttando numerose bestemmie come il loro maestro Maometto»". Eviden­te è il riferimento ai «dervisci danzanti» risalenti a Jalàl ad-Din Rùmi (XIII sec.): qui, il monaco richiama a suo modo un caso di «dhikr collettivo» mol­to popolare. Paradossalmente però, la sua invettiva sembra confermare una prossimità delle due tecniche, paventando il rischio di una certa «osmosi» che poteva essersi verificata in epoche anteriori, non lontanissime, e che rischiava di presentarsi ancora. Ma l'anonimo estensore del trattatello non si ferma qui. Egli raccomanda anche di praticare l'attenzione nel cuore e non nell'ombelico. In questo modo il monaco travisava la méthodos indicata dallo pseudo-Simeone, ma, di fatto, anche la difesa dell'«onfaloscopia» pro­nunciata da Palamas. Un ridimensionamento complessivo delle tecniche non risparmiava neppure l'esercizio di introduzione e ritenzione forzata del re­spiro. Il «farsi violenza per il Regno dei cieli» viene qui abbassato ad una pratica innaturale che «può recar danno alla salute fisica» fino al punto di «contrarre la tisi» (!), a meno che - come al solito - non vi sia un «maestro spirituale» a guidare il neofita.

Le annotazioni dell'anonimo monaco athonita    mostrano una perdita del significato simbolico delle pratiche corporali esicaste, non disgiunta da un certo «salutismo» in cui potrebbe scorgersi una qualche influenza occiden­tale: probabilmente il volumetto «fotografa» una situazione di fatto, in cui la pratica andava svincolandosi dal rigoroso rapporto col padre spirituale e, forse, si apriva anche pericolosamente a tecniche esterne. Sta di fatto che an­che i grandi maestri russi del XIX secolo, da Brjancaninov a Teofane il Reclu­so, ridimensioneranno l'importanza degli esercizi respiratori ed esclude­ranno l'onfaloscopia dalla tecnica esicasta, riservando tutta l'attenzione e la concentrazione del praticante al cuore e in particolare alla ricerca del «luogo del cuore»: punto d'incontro fra lo spirito individuale e lo Spirito Santo, al momento del Suo intervento illuminativo elargito per grazia. Questa «semplificazione» non equivale necessariamente a un decadimento. L'erme­neutica del XX secolo ha promosso una comprensione in chiave simbolica di tutte le componenti della tecnica esicasta: dal «cuore» stesso (Vyseslavcev,  Guénon), al «respiro», fino alla stessa «onfaloscopia» (Clément); al tempo stesso, sul piano teologico, ha chiarito che la riduzione al «cuore» non equi­vale ad una effusione sentimentale, ma richiama la stretta fusione dell'intel­ligenza e dell'amore, simboleggiata dalla «discesa» dell'intelletto nel cuore. Questo sforzo di comprensione non ha comportato un recupero dell'antica «arte della preghiera»: una tradizione viva si adatta ai tempi e non necessita di ricostruzioni artificiose. Piuttosto, la semplificazione delle tecniche ha comportato una riduzione all'essenzialità dell'esicasmo, che in ogni tempo, e certamente fin dai suoi inizi «segreti», è stato centrato sulla invocazione con­tinua e interiorizzata del Nome di Gesù.

Una simile adattabilità sembra meno evidente nello dhikr. La sua pratica prevede il raggiungimento di condizioni interiori denominate «stati» (ahwal) e «stazioni» (maqamat). Lo hal è una condizione tran­sitoria, puro dono di Dio; maqam invece è il frutto del «lavoro spirituale» dell’iniziato, ottenuto grazie ai suoi sforzi, ed ha un carattere permanente: essa è acquisita una volta per tutte, dal momento che implica il raggiungimento pieno di un grado spirituale. Nell’esicasmo, all'opposto, non vi è nulla (tranne forse lo stato finale di «orazione pura») che possa avvicinarsi a una maqam. Tutto il percorso che intercorre tra l'inizio della pratica e la «preghiera pura» è, semmai, ragguagliabile ad una serie di ahwal, di «stati» spirituali elargiti da Dio, ma revocabili ad ogni istante: in ciò consiste una delle «prove» più dure per l'esicasta. Egli può anche conseguire una théosis in vita: ma sa che questa non è che una «caparra», una anticipazione della vera e piena «deificazione» per assimilazione delle energie divine, che avverrà nel Giudizio finale. Que­sto non significa che l'itinerario dell'esicasta non sia articolato. Come abbiamo visto, esso conosce varie «tappe», anche se non fissate in rigida successione. Lo stato iniziale, legato a una preghiera ancor tutta «mentale», può essere sog­getto alle fluttuazioni della phantasia e può indurre - per insidia del «nemico» - false visioni e perfino stati estatici dai quali i Padri raccomandano di liberarsi. Contro queste perniciose ebbrezze dell'anima viene raccomandata una continua, sobria vigilanza (nèpsis) che accompagnerà il praticante per tutto il percorso. Ciò non impedirà che talvolta il discepolo sia provato dall'«ab­bandono di Dio» (parachòresis), da non confondersi con le «notti dell'anima» del misticismo occidentale. A volte nelle fonti si parla di «abbandono peda­gogico», affinché l'intelletto non si esalti e si procuri l'umiltà necessaria per discendere «nel cuore». Lentamente, grazie allo sforzo ascetico, alla «fatica del cuore» (ponos kardiàs), la preghiera puramente mentale determinerà l'«aper­tura dell'occhio del cuore». Perché ciò accada, come si è detto, dovrà com­piersi una rigorosa purificazione dai logismoì, fino a raggiungere i recessi più profondi della forza basale che inclina verso la materia. Una volta com­pletata questa purificazione non solo morale ma «essenziale», si perverrà all’apatheia, ossia all'«impassibilità attiva», ad una forma di padroneggiamento e non di estinzione del sentimento (condizione, quest'ultima, definita anaisthesìa e considerata per lo più negativa). Questa sensibilitis rigenerata e protet­ta da tentazioni (ma mai del tutto: può sussistere, inconscio, l'«amore di sé», il più insidioso e «basale» dei difetti), viene di solito accompagna­ta, o sigillata, dal «dono delle lacrime» (dakryon doron). Questo, più che uno stato, è un segno indicatore della trasformazione che sta verificandosi nel cuore. In proposito, molte fonti accennano al passaggio da un cuore «di pie-tra» a un cuore «di carne»- I sentimenti si conservano, ma purificati e subli­mati dalla grazia: le lacrime indicano lo <e stupore» dell'anima che comincia ad avvertire, quasi per una seconda nascita, sensazioni di pace, di serenità, di gioia. Da parte di alcuni autori si parla di «battesimo delle lacrime». In Simeo­ne il Nuovo Teologo il dono delle lacrime assume il carattere di un «battesimo dello Spirito»: egli stesso confessa di aver ricevuto la teologia delle lacrime co­me un lascito tradizionale» dal suo padre spirituale Simeone lo Studita e di averlo trasmesso a sua volta al suo discepolo Niceta Stethatos. Come si ve­de, non si tratta di un mero trasporto sentimentale o emozionale, ma di un ve­ro e nuovo carisma dello Spirito, integrabile nella méthodos esicasta. Simeone attribuisce alle lacrime il potere di rinnovare la grazia battesimale: esse sono l'effetto doloroso della penitenza che monda l'anima dalle conseguenze del peccato e scioglie la sua «durezza di cuore» (sklerokardìa) e al tempo stesso sono il segno gioioso della «1uce di conversione» (phòs metànoias) che si manife­sta nel cuore intenerito (divenuto «di carne») e pronto a ricevere lo Spirito.

       Questa compresenza di sofferenza e di letizia fa parlare dello stato d'a­nimo che accompagna la ricezione del dono delle lacrime nei termini di una «dolorosa gioia» derivante dalla compunzione (katànyxis). Queste lacri­me non saranno più «psichiche» (ossia legate ai moti passionali dell'anima), bensì «pneumatiche». Queste lacrime, di cui si dice che sono capaci di «spegnere il fuoco della geenna», sono anche fisicamente diverse dal pianto: in quanto sopraggiunte come una gratia gratis data dello Spirito Santo, esse colano, dolci e silenziose, «senza sforzo né contrazione dei mu­scoli della faccia» e in questo senso più che apparire «innaturali» esse son dette appartenere alla più profonda natura dell'uomo.

Non deve dunque sorprendere se le fonti richiamino, in proposito, l'im­magine delle «lacrime del parto». Isacco di Ninive parla del versar lacrime come di «doglie del parto di questo figlio spirituale» nel quale «la grazia, madre comune, si affretta a far nascere misticamente l'anima, immagine di Dio, alla luce del mondo futuro»; e aggiunge che il bimbo che nasce, anco­ra non assuefatto al nuovo mondo, «muove il corpo con il pianto misto a una gioia che supera la dolcezza del miele».

Tutti questi riferimenti ad un «nuovo battesimo» e a una «nuova nascita» sono insieme reali e metaforici. Reali, perché indicano l'avanzamento lungo un cammino di perfezione: metaforici, perché nessuna delle condizioni sopra indicate è assimilabile ad una «iniziazione», nel senso di una trasmutazio­ne ontologica acquisita una volta per tutte. Perfino Giovanni Climaco, che parla del dono delle lacrime come «secondo battesimo», è lo stesso che suggerisce la formula della «perfetta mai perfetta perfezione dei per­fetti».

        Dal punto di vista cerimoniale il battesimo ortodosso, impartito a per­sone consapevoli, sotto la forma della triplice immersione, per di più soli­tamente associato a cresima ed eucaristia, presenta una somiglianza morfologica con una iniziazione di tipo «esoterico». Osserva Pavel Ev­dokimov che «il battesimo per immersione riproduce tutta la curva figu­rativa della salvezza [...]. La triplice immersione fa passare attraverso il triduum, e la discesa, poi l'emersione, è ritorno verso il giorno senza declino. In tal modo il sacramento del battesimo è la discesa reale con Cristo nella sua morte, ed è pure la «discesa agli inferi», come affermano Giovanni Crisostomo ed altri Padri. Anche Simeone il Nuovo Teologo è coerente con questa linea dottrinale, laddove osserva che «al momento stesso del battesimo c'è chi ha versato lacrime preso da compunzione per la discesa su di sé dello Spirito»: l'iniziazione battesimale non è necessariamente «virtuale» se si accompagna, da adulti, ad una preparazione e a una con­sapevolezza che l'immissione della grazia ex opere operato può far «fiori­re» speditamente (tanto più se a questo insieme di sacramenti si accompa­gna la «preghiera costante»). D'altronde, al di là di somiglianze di forma, nella sostanza anche il battesimo per aspersione praticato dalla Chiesa d'Occidente ha le stesse valenze simboliche di quello per immersione; il riconoscimento della validità del battesimo ricevuto in una delle due Chiese da parte dell'altra è prova ulteriore dell'equivalenza delle due pra­tiche sacramentali.

       Se si torna al confronto con lo dhikr, si noteranno due fondamentali dif­ferenze: una più rigida «strutturazione» delle condizioni di progresso spiri­tuale e una minore incidenza dell'amore nel processo conoscitivo che porta alla «realizzazione» finale. Per quanto riguarda la prima differenza, la pratica islamica della «preghiera del cuore» (salat al qalb) comporta una inizia­zione preliminare (talqin) consistente nell'attribuzione del wird («formula rituale») da parte del «maestro». Attraverso l'invocazione-«incantazione» inizia la pulitura (tasfiya) dello specchio del cuore dalle immagini sensibili (qualcosa di non lontano dalla rimozione dei logismoì), mediante l'invoca­zione dei Nomi divini in cui solitamente consiste il wird. Quando lo spec­chio del cuore sarà del tutto lucido mediante la pulitura che avviene con l'in­vocazione costante, allora l'individuo otterrà la gnosi intuitiva (ma'rifa) ed avrà accesso agli Attributi divini. Questa è ancora una conoscenza indiretta, una visione (mushàhada) attraverso lo specchio del cuore. L'itinerario iniziatico proseguirà, tuttavia, per ottenere la manifestazione della Luce divina, che avverrà mediante lo dhikr degli ultimi tre dei Nomi divini (Wahid, «Unico», Ahad, «Uno», Samad, «Fonte», «Pienezza onnicomprensiva»). Soltanto allora l'occhio del cuore vedrà (e non più lo specchio rifletterà) la «luce dell'Unità» (nùr al tawhid) realizzando lo stato di isolamento (tajrid), conseguente alla «estinzione dell'estinzione» fana al-fana), nel quale la crea­tura si è spogliata di tutto tranne che di Allah. Questo processo, tuttavia, non conosce soltanto la metodica «lentezza» dell'esicasmo: esso si formaliz­za, come abbiamo detto, in «stati» e «stazioni» senza i quali è di fatto im­possibile conseguire la condizione finale. In questo senso le «stazioni» (maqamat) sono «altrettanti [...] gradi di consapevolezza che conducono all'u­nione e che sono connessi l'un l'altro in ordine gerarchico, sicché, anche quando vengono successivamente trascesi, restano in possesso permanente di colui che, procedendo sulla Via, li ha attraversati»; per questo «il conse­guimento di una maqam superiore presuppone la permanenza, non la priva­zione, della maqam inferiore». Vi è ovviamente una logica in questa suc­cessione gerarchica: se la prima «stazione» è quella del pentimento (tawbat), la seconda quella della conversione (inabat), la terza quella della rinuncia (zuhud) la quarta quella della fiducia in Dio (tawakkul), etc., ciò dipende dal fatto che non è concepibile che qualcuno possa pretendere di convertirsi senza pentimento, o di rinunciare senza convertirsi, o di fidare in Dio senza rinuncia. Dalla differenza tra «stato» e «stazione» dipende anche la diversità di linguaggio propria dei gufi, dal momento che ognuno di essi parla dalla maqam che ha raggiunto (anche se il significato interiore dei loro detti converge sull'identica «realtà»).

    Ora, l'esicasmo certamente non conosce «stazioni» paragonabili a quelle dello dhikr: ciò contraddirebbe al presupposto per cui tutto è concesso da Dio per grazia in aggiunta agli sfor­zi compiuti dall'uomo. In un ceno senso però non coincide con l'orienta­mento esicasta neppure lo hal («stato»): Esso ha in comune il fatto di essere una condizione interiore donata da Dio: i «passaggi di stato» dell'esicasmo non sono tuttavia necessariamente effimeri come gli ahwal islamici (che per­ciò necessitano di «stazioni» permanenti). Quella cristiano-orientale è pur sempre una méthodos graduata su «stati» successivi che la grazia abitual­mente concede in risposta alla lotta interiore del praticante. Nell'esicasmo, insomma, si ha una collaborazione convergente e reciprocamente libera fra sforzo umano e grazia divina; nello dhikr si ha invece una progressione di­stinta fra sforzi umani, che portano (se rettamente compiuti) a risultati inde­lebili, e grazie divine che accompagnano il cammino, lo sorreggono e lo sti­molano senza peraltro - proprio per il loro carattere occasionale e transito-rio - graduarne le tappe.

       Ed eccoci alla seconda differenza: nel processo di conoscenza (mahabba) che porta a Dio, l'amore (mahabba) ha un posto importante ma non decisivo. È stato osservato che l'amore «pur non essendo uno dei termini centrali del linguaggio coranico nella qualificazione dei rapporti fra Dio e l'uomo» ha tuttavia acquistato un posto centrale nel linguaggio sufi: que­sto lo ha arricchito di tutto il linguaggio erotico della letteratura araba, as­sunto come la più adeguata espressione simbolica dell'esperienza vissuta nell'incontro con Dio, il supremo amante-amato. In tal modo i sufi «han­no prodotto un'importante e varia letteratura erotico-mistica [...]». In ogni caso, sono piuttosto rari i casi di sull che abbiano dato all'amore la precedenza sulla conoscenza; riguardo alla via «aissawita» perseguita da personaggi come Halla'j e, in tempi vicini, da Al-'Alawi, si è detto in precedenza. In generale, è stato affermato che «per coloro che ne hanno sperimentato la realtà (muhaqqiqùn) l'amore è un consumarsi (istihlak) accompagnato dal piacere, mentre la conoscenza è un contemplare (suhud) accompagnato dalla perplessità (haira, 'stato di stupore di fronte alla grandezza divina) ed un annullarsi (fana) accom­pagnato dal timore (hayba)». Rispetto all'esicasmo, insomma, si nota una sorta di scambio fra eros e agape: l'erotismo è assunto come valenza simbolica del desiderio e come cifra simbolico-letteraria dell'«unione». Nulla di ciò nell'esicasmo, che non ha prodotto neppure una poesia erotico-mistica affine, ad esempio, a quelle dei «Fedeli d'Amore» per l'Occi­dente o di «Rumi» per l'Oriente. Come si è notato, e si ribadisce, per l'esicasmo l'amore-carità è talmente importante da costituire un ingrediente della stessa conoscenza. Secondo Evagrio, l'agape è «la figlia dell’apatheia»: la sua acquisizione segna il termine della fase ascetica (prak­tikè) e indica la liberazione dai prodotti di quell'«amore di sé» (philautìa) in cui è riconosciuta la radice di tutti i vizi. Laddove regnano queste pas­sioni «accecanti» non vi è nessun amore e quindi nessuna conoscenza,mentre, all'opposto, «la carità è la porta della gnosi». Ancora una volta occorre ricordare che l'apatheia è un processo di purificazione che non produce insensibilità e che anzi genera un «sentimento spirituale». In termini guénoniani questa espressione può sembrare contraddittoria; ma nei termini esicasti essa indica lo stato psicologico «profondo» che deriva dall'apatheia.

Si è parlato, al riguardo, di «impassibilità attiva»: il lato attivo di essa consiste appunto nel sentimento mondato dalla passionalità, tutto rivolto a Dio. Teofane il Recluso ha trattato estesamente il problema. Egli non iden­tifica certo la vita spirituale con quella dei sentimenti. Nondimeno, essi so­no «1'attività vitale della vita spirituale»; essi assecondano la tripartizione corpo, anima, spirito: il cuore, «centro» dell'essere, quindi anche del senti­re, è il ricettacolo dei sentimenti del corpo e dell'anima, così come anche di quelli spirituali. Questi ultimi restano potenziali fin quando, dopo l'apatheia, si raggiunge una sorta di «connaturalità» con il divino (lo «spiri­to» dell'uomo, risvegliato dall'ascesi, e pronto a ricevere per grazia lo Spiri­to Santo nel «cuore»). A questo punto può determinarsi una cognitio per connaturalitatem, ossia «una conoscenza particolarmente viva associata a un sentimento, fondati sulla unione intima fra due persone».

In questa «fusione senza confusione» i sentimenti spirituali assorbono in sé ogni altro tipo di sentimento, al modo stesso in cui la Presenza divina esclude ogni diversa attrazione.  «Il cuore - scrive Teofane - è un vaso, se lo riempi del Divino fino all'orlo, non si può ricevere nient'altro, esso è col­mo». In sintonia con ciò, egli parla anche di «gusto spirituale del cuo­re»: «Come il gusto distingue i cibi, così il sentimento e il cuore distin­guono le cose spirituali». Qualcosa di simile registra anche il sufismo, con il suo concetto di dhawq: esso è il «gusto iniziatico», o anche il «pre­sentimento» delle rivelazioni divine. Ma questa è, ancora una volta, una qualità intellettuale, nella quale il «senso» sostituisce il «sentimento» spiri­tuale. Nell'interpretazione di Teofane invece il «gusto» è una metafora del «sentimento spirituale». Un'altra immagine viva, associata al «gusto», è quella del «calore» del cuore. Su ciò Teofane trae i suoi riferimenti soprat­tutto dallo pseudo-Macario: nelle Omelie Spirituali è scritto spesso che la grazia dello spirito è un fuoco divorante che penetra il nostro intimo. A commento di questi passi, Teofane osserva che la vita interiore va concen­trata in un focolare in cui lo spirito intero dell'adepto si compenetra del «ricordo di Dio» (ossia della «preghiera di Gesù») e si unisce a Lui. «Il calore prodotto dalla discesa della mente nel cuore è una facoltà ancora 'naturale', che può produrre conseguenze sul piano psichico, anziché spiri­tuale: da ciò occorre guardarsi, rifuggendo da tali effetti magici». Al tempo stesso occorre mantenere costante il calore del cuore progressivamente «in­tenerito», in attesa che in questo vaso - non più di pietra ma di carne gra­zie all'invocazione costante del Nome - si riversi «un altro calore, che non è terrestre». Al contrario del fuoco che viene dall'orgoglio e che brucia nell'anima, forzandola a errare da un'azione all'altra, il calore e il fuoco che vengono dallo Spirito stabiliscono la tranquillità interiore e la gioia.

È caratteristico, insomma, che poco prima della ricezione dello Spirito, si combinino simbolicamente - diremmo quasi chimicamente - l'acqua del­le lacrime e il fuoco del sentimento spirituale: le lacrime del pentimento spengono solo il fuoco dell'orgoglio, il fuoco della preghiera accende solo l'amore per lo Spirito. il «catalizzatore» di questa reazione è un mèlange in­timo di sentimenti spirituali: timor di Dio, vigilanza-temperanza (népsis) abbandono alla volontà del Signore.

Ad un certo punto, la preghiera cesserà di essere un atto spesso penoso (la «fatica del cuore»...) per divenire uno stato. Questa trasformazione, non ottenibile per sola volontà umana, sarà il segno certo dell'avvenuta rigenerazione spirituale: Evagrio osserva che “il Signore suole mostrarsi solo quando la preghiera è diventata uno stato".

 

Enrico Montanari

 

Tratto da Enrico Montanari, LA FATICA DEL CUORE -  Saggio sull'ascesi esicasta - ed. Jaca Book a cui si rimanda per l'approfondimento e le relative note numerose e particolareggiate.