Una delle espressioni più
frequenti che abbiamo udito da Giovanni Paolo II è quella secondo la quale
l’Europa ha bisogno di «respirare con due polmoni». Da dove nasce questa
espressione? Nel 1926 il grande filosofo e poeta russo Ivanov, pronunciando la
sua professione di fede a Roma in San Pietro, disse: «Ora posso respirare con
due polmoni»1.
Sappiamo che esistono la chiesa occidentale e quella orientale; ciò non ha un
fondamento geografico ma storico, risale cioè a Diocleziano, che divise l’Impero
in una parte occidentale e in una orientale; di qui le due tradizioni.
È ancora dalla storia che abbiamo imparato a conoscerle come
sempre conflittuali, mentre oggi ci rendiamo conto che devono piuttosto essere
complementari. In che senso? Come studioso di spiritualità, vorrei affrontare il
tema proprio a partire dal loro atteggiamento spirituale, che è veramente
diverso. Prendiamo ad esempio l’articolo di fede riguardante la santissima
Trinità. Il filosofo tedesco Kant dice: «Per chi la crede non significa niente,
e per chi non la crede tanto meno». Il filosofo e teologo russo Florenskij
afferma invece: «O la santissima Trinità, o la follia»2. Ecco
atteggiamenti spirituali diversi. Noi occidentali partiamo da Boezio, che nel
suo insegnamento sulla Trinità ha messo al primo posto l’unità della natura
divina nella quale si sviluppa la vita delle tre Persone.
L’unità di Dio deriva quindi dalla sua natura divina una. Gli
orientali recitano il Credo in un modo leggermente diverso da noi. Non «credo
in unum Deum» e poi una pausa, ma «credo in un solo
Dio Padre». Questa è la professione di fede: è il Padre che è all’origine
dell’unità divina. E queste tre persone libere riescono a unirsi in maniera tale
da fare un solo Dio. È questo il problema della convivenza umana: come delle
persone libere possono unirsi. Per questo i padri greci dicevano che la prima
chiesa di Gerusalemme, dove la moltitudine dei fedeli aveva un solo cuore e
un’anima sola, era un riflesso della Trinità. Dunque, bisogna partire dalla
persona per andare all’unità, non dall’unità alle persone. E lo stesso bisogna
fare quando si tratta anche degli uomini.
Se si parte dalla natura, si cercano poi dei principi universali,
unificanti, «naturali», ai quali l’uomo deve essere sottomesso. Anche degli
uomini diciamo: abbiamo tutti la stessa natura umana, da cui conseguono gli
stessi diritti umani ecc. Questa cultura della natura, attraverso la filosofia
stoica, fa sì che la vita dell’uomo possa essere espressa attraverso principi e
definizioni. Ma, inquadrato in un ordine fatto di leggi universali, l’uomo non
riesce più a percepire la sua libertà e la sua propria personalità. Questa
libertà, d’altra parte, «disturba» un po’, perché si traduce in qualche
eccezione da ciò che vale per tutti. Ma la persona umana è irripetibile.
La persona significa l’irriducibilità dell’uomo alla sua natura.
Vladimir Lossky utilizza l’esempio dell’opera d’arte per esprimerlo: «Quando
diciamo: “È di Mozart” o “è di Rembrandt”, noi ci troviamo ogni volta in un
universo personale che non ha il suo equivalente da nessuna altra parte»3.
La civiltà europea ha sempre cercato di avere ordine, una legge valida per
tutti, per poi lottare per le libertà individuali. Continuamente, come una
fisarmonica: quando c’è troppa libertà, ci vorrebbe un po’ più disciplina,
quando c’è troppa disciplina ci vorrebbe un po’ più di libertà.
Ben cosciente della contraddizione di queste tendenze, l’Europa
cerca di trovare un compromesso, sforzandosi di delimitare i campi della libertà
individuale, inviolabile, privilegiata e tentando d’altronde di ricordarsi
incessantemente delle esigenze e delle necessità «naturali», tessute dalla
realtà sociale e dalle leggi scientifiche che dominano il mondo. E nel tempo
moderno questo problema si manifesta nella teologia o nella morale dei valori e
dei principi.
Ricordo di aver assistito una volta a una discussione
interessante, alla televisione di Praga, tra un pastore protestante, un teologo
cattolico e due filosofi di valore. Il pastore e il teologo affermavano che
esistono valori morali infallibili, se si corrompono i quali crolla tutto,
perché sono il riflesso di Dio, che è principio. I due filosofi obiettavano che
tali principi sono una cosa astratta, perché il valore nasce dalla relazione
personale. Dunque se due non si amano il matrimonio non esiste, sono obbligati a
divorziare. E se la mamma non vuole accettare il bambino come bambino, non si
tratta né di mamma, né di figlio, e via di questo passo... È possibile una
riconciliazione tra queste due posizioni? Credo di sì.
Il valore nasce veramente dalla relazione. Ma bisogna considerare
che esiste una relazione non solo tra le persone umane, ma anche con la persona
di Dio. Dio mi ha creato e la mia esistenza è risposta alla creazione. Questa è
la prima relazione, ed è all’interno di questa che si determinano valori e
significati. Dice Dostoevskij che, se Dio non esiste, tutto è permesso. Quali
valori possono rimanere se non ho relazioni tramite le quali le persone sono
importanti per me? Non esiste nessun valore. E l’uomo moderno – dice ancora
Dostoevskij – ha una grande difficoltà, perché da una parte vuol vivere
scientificamente (e chi non vive secondo la scienza è un arretrato), dall’altra
aspira a una sorta di diritto di esenzione al sottostare ai principi imposti
dalla scienza.
Dostoevskij dice che l’uomo della scienza è quello che si
costruisce un palazzo di cristallo, dove tutto è visibile, è chiaro, dove ciò
che non è chiaro si butta via ed è considerato arretrato, una specie di
oscurantismo medievale. Tutto ciò che è chiaro e razionalmente spiegabile
costituisce questo palazzo di cristallo in cui l’uomo va ad abitare. Ma quando è
dentro questo palazzo, l’uomo scopre che non c’è né amore né libertà, perché
queste due cose non saranno mai chiare. Tuttavia all’interno del palazzo gli
viene assicurato che se anche oggi non lo è, fra cento o duecento anni tutto
sarà chiaro come due più due fa quattro, si tratta solo di concedere il tempo
necessario al progresso scientifico. E lui dice: sì, due più due fa quattro, ma
che ci farò ancora io?
Dunque, la scienza non ammette la persona, non c’è posto per la
persona: di conseguenza una civiltà così impostata si trova veramente in uno
stato problematico. Bisogna ripartire dalla persona, altrimenti è impossibile
conciliare queste antinomie. Che cosa significa? Berdjaev, Bulgakov sono
filosofi importanti a questo riguardo, perché hanno capito e dimostrato che il
totalitarismo non è umano, in quanto tende a ridurre tutto a dei principi, e
conciliare questi principi con la libertà è impossibile. Dunque per Berdjaev la
persona è libera, è creativa, anzi – aggiunge – «agapica», ha cioè alla base una
relazione: più la persona umana «si universalizza nella comunione (...) più essa
si rivela unica»4.
La persona è libera – tutti lo sappiamo – ma la questione è che
cosa sia la libertà. La mentalità occidentale ha identificato la libertà con ciò
che san Tommaso chiama il liberum arbitrium. Posso scegliere questo o
quest’altro, e questo è un mio sacrosanto diritto. Posso fare il male, se sono
un uomo libero. Ma se faccio il male, allora perché Dio mi punisce, dal momento
che avevo la libertà di farlo? È evidente come questo concetto della libertà non
sia pieno, come sia troppo formalistico. Qual è il vero concetto della libertà?
Già Gregorio di Nissa, un grande padre della libertà, dice che lo sposo è libero
quando non ci sono ostacoli per andare dalla sposa. La libertà è quindi sentirsi
senza ostacoli per poter fare il bene.
Pavel Evdokimov dice che spesso confondiamo il termine
psicologico di volontà con quello metafisico di libertà. La volontà è ancora
troppo legata alla natura, è sottomessa alla necessità e agli scopi immediati.
La libertà dipende dallo spirito, dalla persona che, quando si eleva verso Dio,
desidera solo la verità e il bene5. Dice Gregorio di Nissa: «La
libertà è somiglianza con colui che è senza padrone (adespotes) e sovrano
(autokrates), somiglianza che ci è stata data da Dio all’origine».6
Ora, questa è la libertà divina. Dio può creare, e l’uomo
è libero quando è capace di creare qualcosa di buono insieme con Dio creatore.
Un discepolo di Berdjaev, S. Frank, mostra l’applicazione di
questo principio nel campo della creatività artistica.7 Com’è noto,
nel processo della creazione artistica, quando crea, l’artista è preso da
un’«ispirazione». Non crea di proposito un’opera d’arte, ma questa «nasce»,
suggerita all’artista da un’ispirazione, da una certa forza (non dal suo
intento), che lo costringe a esprimerla. Questa ispirazione s’impone così
fortemente che l’artista non sente né fame, né stanchezza. Frank si pone allora
la domanda: è morale mettersi a disposizione dell’ispirazione? Non fanno così
per caso tutti i pazzi? Allora, afferma Frank, è una sola
l’ispirazione che non rende l’uomo schiavo, e cioè l’ispirazione dello Spirito
Santo. L’unica vera arte è un’arte spirituale, altrimenti si tratta di
possessione diabolica. Infatti, l’opera d’arte esige anche una collaborazione
attiva dell’artista, altrimenti ciò che suggerisce l’ispirazione non nascerà. È
lui che deve esprimere l’ispirazione, darle forma, creare. E anche ogni atto
umano – afferma Frank – viene costruito nel dialogo con Dio Padre dallo Spirito
che mi ispira.
Il caso classico è l’ispirazione della Madonna: lo Spirito Santo
viene, e Maria si mette interamente a disposizione di questo Spirito, tanto che
nasce il Dio-uomo. L’uomo è chiamato per divinizzare il mondo, a fare opere
umano-divine o divino-umane, come si preferisce. Proprio perché la volontà di
Dio è una volontà creatrice, l’uomo, che è compartecipe libero alla creatività
divina, compie la volontà di Dio. La vita cristiana non si può quindi esaurire
nell’esecuzione automatica di regole e prescrizioni generali. L’uomo deve creare
ciò che riesce a santificare.
Solov’èv, uno dei grandi filosofi russi della fine del secolo
scorso, era da giovane evoluzionista convinto. Diceva che sono quattro i periodi
nella storia del mondo. C’è un periodo iniziale, dalla prima materia fino alla
prima cellula viva. Poi c’è un secondo periodo, dalla prima cellula viva fino
all’homo sapiens. Il terzo periodo è quello dal primo uomo al Dio-uomo. È
interessante notare come, nel tempo in cui doveva apparire il Dio-uomo, tutti
gli imperatori esigessero onori divini. E anche il diavolo è una scimmia di Dio.
Noi viviamo nel quarto periodo, quello in cui occorre divinizzare il mondo
affinché tutto sia umano-divino, perché non sia perduto niente, ma tutto sia
«cristificato», per mezzo di Gesù Cristo.
Questo, affermano gli ortodossi, costituisce proprio una grande
differenza con le religioni orientali. C’è una favola indiana che io racconto
spesso per esemplificare questo concetto. C’era un uomo di nome Putamuraka, che
aveva vissuto molto bene e aveva messo da parte molti soldi. Quando muore,
giunge davanti alla porta dell’eternità e gli domandano: «Chi sei?». «Sono
Putamuraka, ho raccolto molti soldi». «Noi abbiamo tutti i tesori, di te non
abbiamo bisogno». Per fortuna siamo in India, e si può nascere di nuovo. Allora
Putamuraka nasce di nuovo, e questa volta si chiama Apamparampir. Apamparampir
non raccoglie più i soldi, ma tutta la saggezza dei libri sacri dell’India.
Muore, e quando arriva alle porte dell’eternità gli chiedono: «Chi sei?». «Sono
Apamparampir, ho raccolto tanta saggezza umana». «Noi abbiamo tanta saggezza
divina che di te non abbiamo bisogno». Quest’uomo nasce per la terza volta, ma
non sa più che fare. Dei soldi non hanno bisogno, della scienza neanche... chi è
quello spirito immenso con il quale identificarsi? Pensa così tanto a quel dio
che dimentica il suo proprio nome. E quando muore, alla domanda «chi sei tu?»,
risponde: «Io sono tu». Allora la porta si apre ed entra.
È la vocazione dell’uomo: divinizzarsi tramite la relazione con
Dio e la relazione con il prossimo. Infatti, tramite le relazioni con il
prossimo cresce anche la mia personalità umana. Diciamo infatti «persona» chi ha
molte relazioni. La mamma è tale quando ha un figlio, la maestra ha degli
scolari. Quanto più queste relazioni sono strette, tanto più l’uomo è uomo. Quel
filosofo russo che ho già citato, Ivanov, dice: «Tu es, ergo sum».8
Io sono perché tu sei. Se tu non sei, non sono io. Per questo la libertà è
agapica, perché deve essere in una continua relazione amorevole con gli altri,
altrimenti non è libertà.
Gli stoici dicevano che siamo tutti uguali. I cristiani ripresero
questa convinzione: tutti siamo uguali, tutti discendiamo dallo stesso padre
Adamo. Le differenze vengono dal peccato. Ora, questo è più semplice da capire
per la ricchezza e la povertà, ma la differenza dei sessi? I padri affermavano
che essa viene sì da Dio, ma è di poco valore, perché l’anima è a immagine di
Dio ed è uguale nell’uomo e nella donna. Perciò le regole monastiche erano
uguali per i padri della chiesa.
Soltanto Giovanni Crisostomo si poneva la domanda del perché
questa differenza tra l’uomo e la donna nel paradiso, se l’unità è la
perfezione. E la risposta che dà è questa: subito dopo la divisione tra i sessi
Dio ha creato il matrimonio, affinché l’unione fra gli uomini non fosse soltanto
nella natura ma nell’amore, dal momento che l’unione nell’amore è superiore a
quella nella natura. È per questo motivo che marito e moglie sono sacramento
dell’amore a imitazione della santissima Trinità.9
Crisostomo era monaco, ma a chi gli chiedeva ragione del suo celibato rispondeva
che era un riflesso dell’amore di Dio, che deve crescere come cresce la
rivelazione da materiale a spirituale. Il celibato è per quelli che vogliono e
capiscono che possono unirsi agli altri con un amore puramente spirituale e non
hanno più bisogno di contatti carnali.
Non è per tutti, ma come dice molto bene Solov’èv, anche nel
matrimonio si dive arrivare a questo stato in cui si sviluppa una vera amicizia,
altrimenti l’unione crolla.10 Nasce qui un problema di sociologia
cristiana. Noi crediamo che questo sia un problema moderno, ma è interessante
considerare come lo vedevano gli antichi. Gli antichi greci vivevano una strana
contraddizione: da una parte erano un popolo che amava la libertà, navigavano,
scoprivano nuove terre, e dall’altra hanno creato la polis, una città
organizzata dove ci sono le leggi, uguali per tutti e valide per tutti, a cui
tutti dovevano sottostare. Se nelle legislazioni più primitive era prevista la
pena di cavare gli occhi per un certo delitto, anche il figlio del re doveva
essere sottoposto a quella pena se colpevole. Ma poiché la gente non voleva un
successore al trono cieco, allora si arriva all’espediente per il quale il re
toglie un occhio al figlio e uno a se stesso. Ma la giustizia deve essere
implacabile. Il risultato, dice Platone, è che con la giustizia di Atene il
giusto Socrate fu condannato a morte.
Dunque non c’è la possibilità di riconciliazione fra giustizia
legale e saggezza, un giusto compromesso. Siamo di nuovo nella conflittualità
fra ordine e libertà. Si possono riconciliare o no? Concedetemi di citare ancora
una volta Dostoevskij. Egli ha scritto romanzi, non era filosofo, ma dai romanzi
si può cogliere il suo pensiero. Ho scritto un articolo sulla libertà in
Dostoevskij,11 che potrei riassumere in breve:
la vera libertà è illimitata. Chi vuol essere
veramente libero non sopporta limiti. O sono libero o non sono, e
Dostoevskij lo spiega nella nota leggenda del grande inquisitore, nel romanzo
I fratelli Karamazov. Il grande inquisitore è un alto ecclesiastico in
Spagna (uno dei motivi per cui Dostoevskij raffigura così il contesto di questo
personaggio non è tanto un viscerale sentimento anticattolico, quanto il fatto
che così poteva più facilmente sfuggire alla censura zarista).
Il grande inquisitore ha bruciato tutti gli eretici. Mentre torna
dall’ autodafe, tutto soddisfatto perché ormai la Spagna è «pulita», vede
che sulla strada qualcuno predica. La polizia lo arresta. Quella sera stessa
l’inquisitore va a trovare il prigioniero e scopre che si tratta di Gesù Cristo
venuto una seconda volta sulla terra. Gli dice: «Che cosa hai fatto? Tu hai dato
tutto il potere a Pietro, da Pietro è passato al papa, dal papa a noi. Sei
venuto a fare solo disordine. Tu predichi l’assoluta libertà, ma noi non
possiamo dare l’assoluta libertà a ribelli. La libertà va contenuta per rendere
felici gli uomini. Ma possono i ribelli essere felci? Noi siamo obbligati a
difendere i valori del passato. Dunque permettiamo una certa libertà. Questo
deve essere sufficiente. Possiamo concedere anche qualche peccato, poi diamo
l’assoluzione e tutto si risana. Ma assoluta libertà non la possiamo permettere.
Tu hai disprezzato l’unica via attraverso la quale gli uomini avrebbero potuto
essere felici. L’hai gettata via, ma per fortuna te ne sei andato e hai affidato
il lavoro a noi». Gesù tace, tutto il tempo tace, perché
non ha risposta. Alla fine, dà un bacio all’inquisitore. Questi apre la porta e
dice a Gesù di andare fuori e di non tornare più.
L’assoluta libertà non ha posto in questo mondo. Se abbiamo
assoluta libertà, allora tutto il mondo crolla. Un altro personaggio del romanzo
prospetta una soluzione diversa: è Ivan, illuminista, che suggerisce di
risolvere il conflitto non con la forza ma con l’istruzione, con una buona
istruzione: educare la gente affinché sia prudente, secondo ragione, per Ivan
significa che non ci sarà più bisogno della forza. Ma – dice Dostoevskij –
l’uomo è un essere strano; preferisce essere stupido, ma libero. Perché scrivono
sui muri i ragazzi? È una cosa stupida, ma è proibito e questo fa scattare un
meccanismo di piacere. L’uomo vuol essere libero. L’istruzione non risolve il
problema. Dunque, dice Dostoevskij, la vera libertà è demoniaca, supera le forze
umane. Difatti, quelli che vogliono essere totalmente liberi fanno qualche cosa
di strano. Ne I fratelli Karamazov, il vecchio Karamazov è incarnazione
di una libertà che fa uso di tutti e di tutto. È immorale e avaro e finisce
ammazzato per gelosia e avidità dal proprio figlio. Dimitrij, l’altro figlio, è
libertino e finisce in prigione.
Ma c’è un quarto, AljòsŽa, che si identifica con Cristo e può
fare tutto. Non distrugge niente. È novizio e va la notte da una prostituta per
salvarla dal peccato, senza che nessuno possa supporre che potrebbe fare
qualcosa di male. Si capisce che non è un esempio da dare ai seminaristi, ma
mostra proprio come una volta identificato con Cristo puoi fare quel che vuoi. E
dice Dostoevskij: il mondo di oggi non ha altra soluzione. Non si rende conto
che questo problema della libertà senza la religione non si può risolvere. Si
tratterà sempre di un qualche compromesso provvisorio.
Questa libertà è ormai un problema molto attuale per la chiesa.
Quando parlo ai preti ci insisto moltissimo: noi dobbiamo
tornare ai padri spirituali dell’Oriente. Qual è la differenza fra un
moralista e un padre spirituale? Il moralista conosce tutta la legge morale,
perfettamente. «Ho rubato». «Quanto?» «Centomila». «Peccato grave, ma
novantacinque sarebbe veniale». Come sia questo peccatore davanti a Dio, è
affare di Dio, il moralista valuta solo gli atti. Oggi si potrebbe mettere tutta
la morale in un computer, premere i tasti dei nostri peccati, e uscirebbe la
penitenza precisa. Il padre spirituale non è così, non è interessato ai singoli
atti. Il padre spirituale ha la «cardiognosia», conosce il cuore dell’uomo. Non
è solo una cosa orientale. In Occidente abbiamo padre Pio, appena beatificato,
che leggeva nel cuore. È un miracolo? Gli startsi che leggevano nei
cuori, uno che rispondeva alle lettere senza aprirle, sono un miracolo? No, non
lo sono: Dio ci ha creati affinché ci capiamo l’un l’altro.
È il peccato che ha creato un muro di separazione in mezzo, e
quando uno si purifica, soprattutto per mezzo dell’amore legge nel cuore del
prossimo come in un libro aperto. Una volta sono stato in Alto Adige e, secondo
l’abitudine romana, volevo fare il riposo pomeridiano e come sonnifero cercavo
un libro dalla libreria del parroco. Ne ho trovato uno così interessante, che
non ho potuto dormire: erano i racconti di un poliziotto canadese che prestava
servizio al Polo Nord fra indiani, gente che aveva la fama di uomini
robustissimi, volgari, che quando si sposano non rivolgono mai la parola alla
moglie. Questo poliziotto diceva: è falso, questi due devono amarsi tanto da
capirsi perfettamente, anche senza parole.
Tanti problemi di oggi non possono risolversi solo a livello di
leggi. Prendiamo ad esempio il caso del divorzio. Molte volte si sente dire che
la chiesa dovrebbe «cedere» sulla questione del divorzio. Ma da dove trae la
chiesa il potere di soprassedere alla questione dell’indissolubilità del
matrimonio? Con le leggi la questione non si risolve. Bisogna infatti
distinguere tra il dovere che la chiesa ha di affermare l’indissolubilità del
matrimonio, e l’atteggiamento che poi deve tenere invece con noi poveri uomini
peccatori, che non siamo in grado di vivere questo ideale.
L’unica soluzione è che il padre spirituale giudichi il caso
concreto, valuti se la persona è in grado di poter sostenere l’assolutezza del
principio oppure no, e si assuma la responsabilità per lui di una scelta
condotta altrimenti. È questo anche il senso dell’«economia» nelle Chiese
orientali, che non è un «cedere» al principio, ma un andare pedagogicamente
incontro al fedele, che nella sua debolezza non riesce a sostenere l’altezza
dell’impegno. Il problema è allora avere padri spirituali
che sappiano parlare al cuore della persona. Su questo ho scritto un
libro, L’idea russa, partendo dalla teologia russa; so che
Mitterrand lo prese con sé in ospedale, poi mi scrisse una lettera, nella quale
mi confermava che proprio di questo abbiamo bisogno. L’Occidente ha costruito
delle società ben ordinate, e questa è una bella cosa. L’Oriente ci invita a
rendere vive queste società con delle disposizioni umane.
Tipico a questo proposito è Chomjakov, un famoso teologo laico
del secolo scorso. Veniva da una famiglia tipicamente russa: il padre beveva
vodka e giocava a carte; lo zar Nicola I era un Breznev del suo tempo, niente di
più; e il pope del villaggio sapeva solo cantare. Dopo le guerre
napoleoniche, c’era una miseria nera. Ma in questo clima squallido c’era una
figura splendida, la mamma. Il babbo perdeva i soldi alle carte e la mamma
riuscì a costruire una chiesa. E non fu il pope a insegnargli a stimare
la madre, ma la mamma a salutare e a rispettare il prete.
Poi Chomjakov studiò in Occidente e lo ammirò profondamente.
Tuttavia si domandava: come mai questo Occidente così progredito è anche così
disperatamente diviso? Perché in Occidente si crede sempre di unire il mondo con
un’ideologia o con una legge, mentre sono le persone, le relazioni personali a
creare l’unione. E lui chiama questo sobornost’, collegialità. Il card.
Suenens conosceva Chomjakov e si batté moltissimo al concilio Vaticano II perché
la chiesa si definisse come «popolo di Dio» prima che in altri modi, ugualmente
validi, che tuttavia mettevano più l’accento sull’organismo, sulla struttura.
Chomjakov fu accusato di democratizzare la chiesa. Non si tratta di questo. La
gerarchia resta tale, ma l’anima del popolo di Dio sono queste relazioni che lo
costituiscono, lo fanno tale e sono l’immagine più rispondente sulla terra della
santissima Trinità. Penso che sia proprio questo aspetto della persona, delle
relazioni, la sfida del nostro tempo, sia a livello ecclesiale che civile.
Tomâs Spidlîk
1Cf. Lettera a Charles du Bos, in Corrispondenza da un angolo all’altro, Milano 1976, 112-113.
2 P. Florenskij, Stolp i utverjdenie istiny, Moskva 1914, 63-66.
3 V. Lossky, Essai sur la théologie mystique de l’Eglise d’Orient , Paris 1944, 52.
4 N. Berdiaev, De l’esclavage et de la lberté de l’homme, Paris 1946, 22.
5 P. Evdokimov, La femme et la salut du monde, Tournai-Paris 1958, 48.
6 De anima et resurrectione, PG 46, 524a.
7 S.L. Frank, «La realtà e l’uomo. Metafisica dell’essere umano», in Il pensiero religioso russo. Da Tolstoj a Lossky, tr. it. di P. Modesto, Milano 1977, 262ss.
8 Anima, in Sobr. Soc. III, Bruxelles 1979, 189.
9 Cf T. Spidlîk, «Il matrimonio, sacramento di unità nel pensiero di Crisostomo», in T. Spidlîk et al., Lezioni sulla Divinoumanità, Roma 1995, 59-65.
10 V. Solov’èv, Smysl ljubvi (1892-1894), Sobr. Soc. VII, Bruxelles 1966, 1-60, tr. it. Il significato dell’amore e altri scritti, Milano 1983, 73-157.
11 Cf. «L’aspetto antropologico della libertà in Dostoevskij», in Spidlîk , Lezioni sulla Divinoumanità, Roma 1995, 157-174.