p. Elia Citterio
LA FIGURA DEL PADRE SPIRITUALE
Credo che tutti portiamo in cuore, inespresse, forse, ma non per questo meno vive, molte domande attorno a questa figura, più o meno carismatica, che vorremmo ci fosse donata, alla quale vorremmo aprire il nostro cuore per portare a buon fine quel cammino di vita di cui spesso perdiamo le coordinate. In questa nostra conversazione vorrei rispondere a qualcuna di quelle domande nel tentativo di fornire un contesto di intelligenza spirituale che possa dar conto del mistero di questa realtà così tipica dell’esperienza cristiana.
Tre mi paiono gli aspetti degni di essere presi in considerazione, sebbene ovviamente solo per accenni:
1) Il contesto in cui è recepita la figura e l’esercizio della paternità spirituale
2) Una breve considerazione sul processo storico che ha caratterizzato l’identificazione del padre spirituale
3) Le dinamiche del rapporto tra padre e figlio spirituale
L’espressione ‘padre spirituale’ si collega direttamente alla specificità della rivelazione evangelica. Le prime generazioni cristiane sono vissute nello stupore dell’amore di Dio per noi. E la loro fede in tale amore si condensa soprattutto nel nome di Padre che è il nome proprio del Dio di Gesù Cristo. E’ a quella esperienza, all’intimità di quella rivelazione che si richiama il termine di padre che viene attribuito ai vescovi, i quali presiedono all’amministrazione dei sacramenti, specie del battesimo, che conferendo al battezzato la qualità di figlio di Dio rende il battezzatore ‘padre dopo Dio’. Ma un altro significato si va consolidando nella linea di sviluppo dell’idea di generazione continua che fonda la possibilità di una partecipazione perpetua alla paternità divina. Un passo di Origene è illuminante:
“… beato colui che è sempre generato da Dio: poiché non dirò che il giusto è stato generato da Dio una volta per tutte, ma che egli è sempre generato ad ogni opera buona, perché è in essa che Dio genera il giusto. Se ti spiego riguardo al Salvatore che il Padre non ha generato il Figlio in modo da staccarlo dalla sua generazione ma che sempre lo genera, spiegherò qualcosa di simile anche per il giusto” [1].
Non c’è solamente il battesimo ed i sacramenti, ma tutta la crescita e la formazione spirituale. Se si dà ai vescovi il nome di ‘padri’ perché non darlo a coloro che ispireranno quei buoni pensieri o faranno fare quelle buone opere per divenire ciò che siamo, cioè degni figli di Dio? E nella lunga serie di atti che costituiscono come i passi verso la perfezione del neonato figlio di Dio, uno ha ritenuto l’attenzione speciale degli antichi: l’entrata nella vita monastica. Tra il novizio e l’anziano che lo accoglie si stabilisce la stessa relazione di paternità/figliolanza che sussiste tra il battezzatore e il battezzato. E’ all’interno di questo nuovo spazio ecclesiale che vanno definendosi i tratti, poi restati costanti nella storia dell’esperienza cristiana, di colui che viene chiamato ‘padre spirituale’ o, più semplicemente, ‘padre’. Agiranno da sicuro punto di riferimento e da modello per tutte le generazioni a venire i monaci del deserto egiziano e palestinese, così significativi per l’esperienza e la coscienza cristiana da denominare le loro gesta ed i loro detti come le vite e le parole dei ‘padri del deserto’.
Ma al di là di questi passaggi storici, quello che resta essenziale in quella terminologia è che l’esperienza fondante che vi sta sottesa non esprime una banale metafora della paternità naturale, ma si radica nel mistero del nome di Dio rivelato da Gesù, allude alla profondità ed alla specificità della sua esperienza, di cui ci rende partecipi nella potenza dello Spirito Santo. Purtroppo noi siamo abituati, quando esprimiamo i concetti, a partire dalla vita reale naturale per poi applicarli, metaforicamente, simbolicamente, alle realtà spirituali. Ciò limita fortemente la nostra comprensione della realtà. Dobbiamo invece fare l’opposto: renderci conto del valore che hanno i termini dentro l’esperienza spirituale, e poi applicarlo alla nostra vita.
Quando noi diciamo “Padre” non riferiamo a Dio quello che conosciamo del nostro padre terreno, ma partiamo dall’esperienza personale di Gesù: Padre è sempre e solo il Padre di Gesù Cristo; ci ritroviamo dentro un’esperienza di Rivelazione, di scoperta di valore aggiunto. Tanto che la condizione essenziale e indispensabile per poter diventare padri spirituali di altri, è quella prima di tutto di essere diventati spirituali noi stessi, quella di essere ritrovati nello stesso Spirito di Gesù.
Spirituale, non e’ semplicemente il padre che dice delle cose che riguardano lo spirito e l’anima, ma colui che, agito dallo Spirito di Gesù, si fa tramite perché altri partecipino a quello stesso Spirito e possano godere dell’intimità con Dio e della comunione con gli uomini di cui Gesù ci ha fatto dono. Aggiungo però che spesso la realtà è più misteriosa di quanto ci si aspetta. A volte uno si scopre padre perché un figlio si richiama a lui e spesso vale più la devozione del figlio della qualità del padre. E questo è un ennesimo aspetto di quella realtà di rivelazione, di quella scoperta che viene dall’alto che sottende sempre la natura dell’esperienza padre/figlio nello spirito.
Volendo guardare in modo più ravvicinato l’esperienza che intercorre tra un padre spirituale e il suo figlio spirituale, potrei dire che i due elementi qualificanti sono sempre:
- il padre spirituale è colui che introduce nei misteri di Dio
- il padre spirituale è colui che conosce il cuore, e con questo si intenda: colui che conosce i propri peccati, non altro!
Dietro e dentro questa conoscenza sta la vera radice della conoscenza dei cuori: chi conosce bene i suoi peccati conosce i cuori di tutti. Chi si affanna, pur con premura, a conoscere i cuori degli altri rischierà di ferire invece che di guarire. Sembra impossibile conoscere i cuori degli uomini tanto sono complicati. Ora, saranno sì complicati, ma non astrusi; sono complicati, ma con dinamiche che si rivelano se davvero si conoscono i propri peccati.
Con il termine di ‘padre’ dato in verità a qualcuno che ha toccato il nostro cuore e che ci introduce nel mistero di Dio si fa riferimento ad un clima, che chiamerei come di ‘rispetto sacro’, di ‘venerazione’. E’ bello nella vita poterci riferire a qualcuno in verità come ‘al mio padre’. E chi si sente chiamare così, non può non sentirsi indegno di quel nome, che allude direttamente al mistero di Dio, perché avere a che fare con la vita di un cuore è cosa oltremodo delicata, al di là delle capacità e delle possibili tenerezze umane. Senza questo clima di ‘venerazione’, che oltrepassa le specifiche qualità personali, non può essere colta la preziosità del rapporto, non può essere vissuto insieme il mistero di obbedienza allo Spirito che quel rapporto contiene.
San Francesco di Assisi dà una stupenda definizione della perfezione. Nella Regola bollata del 1223, al cap. X, scrive: “E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano…” (FF 104). La perfezione per lui significa “essere religiosi” e consiste nell’avere lo Spirito del Signore e la Sua Santa operazione. Questa è l’attività specifica del padre spirituale, che non persegue solo per sé ma anche per gli altri che a lui si riferiscono, perché anche altri si mettano in sintonia con lui davanti a Dio, per avere lo Spirito del Signore e la Sua Santa operazione.
Perché – ci possiamo domandare - il Signore, molto spesso, non concede a uno da solo di avere lo Spirito del Signore e la Sua Santa operazione, ma ha bisogno che ci sia la mediazione di un altro? In parte perché è una realtà evidente della vita: nessuno è padre di se stesso! Ma soprattutto perché, nella vita e nella via dello Spirito, l’illusione è un rischio troppo reale. E’ facile ingannarsi; il riferirci ad un altro ci rimette nel contesto di rivelazione. Domandare consiglio al proprio padre sul come camminare nella via di Dio, significa far spazio alla sapienza che viene dall’alto. In effetti, l’esperienza evangelica sorpassa ogni buon ragionamento, ogni buona volontà, ogni buona comprensione: è un accogliere la grazia dall’alto, un aprirsi ad una conoscenza nuova, un accogliere qualcosa di nuovo, che risana e fortifica il nostro uomo interiore. Ciò significa: porsi in atteggiamento di obbedienza. L’obbedienza è la porta d’accesso alla rivelazione. Solo così uno si introduce nella via di Dio, acquisirà cioè lo Spirito del Signore e la Sua Santa operazione.
Trovo assai significativo che le conversazioni con i discepoli ed i fedeli che a lui accorrevano di una delle figure spirituali più famose di Romania, recentemente scomparsa, p. Cleopa Ilie del monastero di Sihastria, portino il titolo: “Salita per la Resurrezione”[2]. Acquisire lo Spirito del Signore vuol dire impossessarsi della potenza della Resurrezione. Infatti, chi vive in piena obbedienza davanti a Dio, recepisce quella vita di Dio sulla quale non ha più potere la morte. La morte è dentro il confine della vita; la morte perciò non è il contrario della vita. E’ il contrario dell’amore, perché la qualità della vita, secondo Dio, è la vita che si vive in un Amore non più soggetto ad essere deviato, cioè non più toccato dalla morte. Per noi ogni diminuzione d’amore è uno spazio di morte che concediamo al nostro cuore. La vita spirituale è la vita condotta sotto la mozione di quello Spirito che ci è dato dal Signore Gesù, il quale risorgendo ci dà la vita non più soggetta alla morte, la capacità di vivere un amore che non teme più afflizioni, non teme più resistenze, non teme più ingiustizie, non teme più nemici. Se un uomo vive così è davvero libero, risulta imprendibile dagli eventi e dalle cose, non ha più avversari.
Perché noi ci lamentiamo tanto nella vita? La lamentela è il sintomo della precarietà della libertà conquistata, lo spazio di morte nel quale indugiamo, un impedire al nostro cuore di vivere nell’amore esattamente là dove si trova, né più in qua né più in là, né più su né più giù!
Il padre spirituale è colui che desidera fortemente vivere questo e lo desidera anche per i suoi figli: e questo passa nel cuore dell’altro. Da soli non si riesce!
Solo a partire dal secolo scorso, sotto l’influsso della tradizione delle chiese d’oriente, abbiamo cominciato a distinguere la figura del ‘direttore spirituale’ o ‘padre confessore’ da quella del ‘padre spirituale’. In effetti i termini possono indicare la stessa persona, ma non indicano la stessa realtà. Ogni seminario ha un direttore spirituale, ma non è detto che gli studenti si riferiscano a lui come al loro ‘padre’ nello spirito. Ogni buon fedele ha il suo padre confessore, ma non è detto che questi riesca anche ad essere il suo ‘padre’. Nei monasteri chi regge la comunità è l’egumeno, il superiore, mentre il padre confessore, che gli viene affiancato, ha il compito di guidare le anime.
Nella tradizione delle chiese d’oriente, in particolare russa, diventata a noi familiare con l’emigrazione degli ortodossi russi in occidente dopo la rivoluzione di ottobre, tutti abbiamo sentito parlare dello ‘starec’, degli ‘starcy’. Chi non è stato colpito leggendo I fratelli Karamazov di Dostoevskij dalla figura dello starec Zosima? Chi non si è trovato rapito, almeno sentimentalmente, dalla figura dello starec alla cui ricerca si consacra il pellegrino russo per imparare la preghiera del cuore? Eppure, cosa curiosa, l’accezione della parola russa starec, che designa il padre spirituale, un uomo che ha raggiunto una maturità spirituale sperimentata nell’arte ascetica e nella preghiera, al quale il discepolo si affida completamente per essere guidato nella vita interiore, non risale oltre gli inizi dell’Ottocento. Il senso tecnico del termine starec come “padre spirituale” nasce proprio tra i discepoli russi di s. Paisij Veličkovskij (1722-1794)[3], una figura riportata all’attenzione della coscienza ecclesiale in questi ultimi anni con la sua canonizzazione da parte della Chiesa Ortodossa russa e romena, rispettivamente nel 1988 e nel 1992. L’opera di questo grande monaco e starec, ucraino di nascita, emigrato nei principati romeni, andato poi all’Athos ed infine ritornato nelle terre romene dove ha finito per guidare a Neamţ, diventato in quegli anni il centro del monachesimo ortodosso, scuola della cultura spirituale per tutto l’oriente ortodosso[4], una comunità multietnica di circa un migliaio di fratelli fra romeni, ucraini, russi, serbi, greci e bulgari, ha costituito senza dubbio un avvenimento di prima grandezza nella storia moderna della Chiesa Ortodossa in Romania e in Russia. Come si forma dunque la nuova accezione? In romeno stareţ indica il superiore di una comunità, non necessariamente il suo padre spirituale. Ma Paisij interpretava il ruolo di superiore essenzialmente come quello di un padre spirituale per i suoi monaci. Molto naturalmente, dunque, il termine slavo starec, che secondo l’uso romeno egli impiegava per indicare la propria qualità di responsabile della comunità[5], agli orecchi dei monaci russi ha finito per assumere l’altro significato, di “padre spirituale”. I discepoli russi di Paisij, rimpatriati all’inizio dell’Ottocento, hanno continuato ad usare il termine, applicandolo ormai al rapporto che lega un anziano al discepolo, il “padre spirituale” ai suoi “figli spirituali”, secondo l’antica prassi dei padri del deserto, rinnovata da Paisij ed affermatasi soprattutto con la fioritura dell’eremo di Optina, vero centro spirituale della Russia dell’Ottocento, fondato da discepoli appunto di Paisij. “Paisij, l’anziano”, ovvero “la guida della comunità”, come egli stesso si firmava, è ormai diventato per tutti “lo starec Paisij”.
Ho accennato alla vicenda di Paisij Veličkovskij per illustrare, emblematicamente, la doppia valenza carismatica ed istituzionale della figura del ‘padre spirituale’. A lui e ai suoi discepoli, nei tempi moderni, dobbiamo la riscoperta della realtà del ‘padre spirituale’, realtà che non era mai venuta meno nell’esperienza della chiesa e che aveva avuto qua e là, nella storia, esempi luminosi, come quel Nil Sorskij (1433-1508)[6] comunemente chiamato il ‘grande starec’. Dall’esperienza dei ‘padri del deserto’, dove la valenza carismatica prevaleva nettamente, all’esperienza cenobitica via via sempre più accentuata fino alla riforma di Teodoro Studita (759-826) con il quale si tende ad identificare il superiore del monastero con la guida spirituale, dove quindi prevale la valenza istituzionale, non è mai mancata una certa dialettica tra le due figure sia in oriente che in occidente. Sotto questo riguardo è istruttiva la considerazione della stessa fondazione dei monasteri. Spesso le fondazioni monastiche privilegiano luoghi solitari, lontani dai centri abitati, fondazioni che prendevano inizio dall’esperienza di un solitario attorno al quale si riunivano alcuni discepoli. Lo sviluppo successivo trasformava queste comunità ‘esicaste’ in ‘cenobi’, con una vita comunitaria ben strutturata. E spesso il fondatore, oltre il ruolo di ‘padre spirituale’, assumeva anche quello di superiore della comunità. Evidentemente la paternità spirituale appare più legata alla figura carismatica del fondatore che a un particolare ruolo nella comunità. Così a una linea più ‘istituzionale’, dove si tende a far coincidere la figura del padre spirituale con il superiore, sta affiancata la dimensione più carismatica che prende il sopravvento in ragione della santità e della maturità spirituale al di là del ruolo istituzionale. Le due linee si ritrovano fin dagli inizi. La linea ‘carismatica’ emerge, ad esempio, in questa testimonianza di Kirill di Turov († seconda metà sec. XII):
“Tu sei come un abito e tu puoi essere conscio di te stesso fino a quando uno ti prende nelle sue mani; non darti pensiero se tu sarai messo sotto i piedi. Finché sei fuori del monastero puoi avere la tua volontà, ma dopo aver ricevuto l’abito monastico, gettati interamente nella sottomissione e non nascondere neppure il più piccolo movimento della tua volontà che è nel tuo cuore, affinché tu non muoia nell’anima come Anania …E tu fratello, procura di trovare un uomo che abbia lo spirito di Cristo, adorno di ogni virtù, che con la sua vita testimoni l’obbedienza e l’amore al Signore, che sia sottomesso all’igumeno e dimostri mitezza e amore per i fratelli, che sappia penetrare le Scritture divine e che sappia guidare a Dio coloro che camminano verso il regno dei cieli”[7].
Mentre l’altra linea si ritrova nello starec Paisij, nel sec. XVIII, che aveva lanciato la sua opera di rinnovamento del monachesimo riunendo in una stessa persona il compito di guidare praticamente e spiritualmente una comunità, come si desume da una sua lettera allo ieromonaco Sofronio di Transilvania sulla direzione spirituale:
“Per prima cosa, figli miei, occorre che la guida sia molto versata in tutte le divine Scritture, in pieno possesso del dono di un vero e retto discernimento, capace di istruire e di guidare i suoi discepoli secondo la potenza delle sante Scritture. Abbia amore vero e sincero per tutti. Sia mite e molto umile, molto paziente. Sia assolutamente libera dalla collera. […]. In secondo luogo, i discepoli siano nelle sue mani come utensili nelle mani dell’artista, come argilla nelle mani del vasaio, come la pecora nelle mani del pastore. Non facciano nulla senza la sua benedizione e a sua insaputa: né bere, né mangiare, né dormire, né andare da qualche parte, né proferire parole vane. Ma tutto compiano, a gloria di Dio, con la sua benedizione e con il suo permesso. Non posseggano beni particolari, nulla di nulla, nemmeno un ago. Ma tutto, vestiti, libri, coperte, celle e qualsiasi altra cosa, tutto – ripeto – usino con la benedizione della loro guida spirituale. Non confidino in se stessi a proposito di nulla, ma solo nel loro padre spirituale. In breve, devono essere come morti. Per tutta la vita non disporre della propria volontà e del proprio parere: questo è l’atteggiamento dei veri obbedienti”[8].
Sono parole che a noi suonano esagerate, ma l’ideale monastico nelle comunità paisiane era vissuto in modo così appassionante che solo in termini radicali si sarebbe potuto realizzare. L’ideale di vita monastica, aperta a monaci di ogni nazionalità, era fondato su quattro pilastri: vita cenobitica, studio delle Scritture e dei Padri, pratica della preghiera di Gesù e confessione dei pensieri al proprio padre spirituale (‘starčestvo’). E’ interessante notare come la riscoperta della Scrittura e dei Padri andasse di pari passo con la ripresa della preghiera di Gesù. Averle poste a fondamento della vita cenobitica è l’essenza del grande rinnovamento portato da Paisij. Al di là degli ordinamenti è un certo clima particolare a caratterizzare la vita della comunità paisiana, centrata sul mistero dell’obbedienza: il clima che deriva da un’obbedienza praticata in umiltà e mansuetudine, come sottomissione ai fratelli (Paisij insiste molto di più sull’obbedienza vicendevole che sull’obbedienza al superiore[9]) e da quel ‘lavorio del cuore’ unito alla preghiera incessante. La ‘vita comune’, scuola impareggiabile della vera obbedienza, dalla quale fiorisce l’umiltà, giunge ad essere il vero luogo della pratica spirituale. Ora, la vera forza di Paisij sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la risposta di Paisij alla mancanza di guide sperimentate. Risposta così seria e impegnativa che lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavo ecclesiastico e in romeno, è diventato poco a poco l’attività principale del nostro starec, il fondamento, il punto di forza della sua opera. Quello che però resta come grandioso nella coscienza dei suoi discepoli non sarà il risultato di questo immenso lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici, bensì lo scopo e la vitalità spirituale con cui era vissuto tale compito. E’ risaputa la grande importanza e la diffusione che ha goduto nel mondo slavo il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia edita a Mosca nel 1793, undici anni dopo l’edizione greca di Venezia. Nessuna delle cinque biografie conosciute di Paisij, composte dai suoi discepoli circa una ventina d’anni dopo la sua morte, ne fa menzione. Eppure tutti unanimemente sottolineano la straordinaria fecondità del lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici ad opera del nostro starec, lavoro che costituisce il contesto più diretto di quel rinnovamento monastico che ha così colpito i contemporanei[10].
Ho insistito su questa grande figura per mettere in luce la necessità di ricorrere alle Scritture e ai Padri, letti nello spirito della chiesa, per imparare a pregare e a camminare nelle vie del Signore, con la speranza e la fiducia che Dio ci conceda anche di trovare quel ‘padre spirituale’ che di quelle indicazioni si farà tramite diretto e personale per la crescita del nostro uomo interiore. E questo riguarda tutti, non solo i monaci.
C. Il rapporto tra padre e figlio spirituale nelle dinamiche che attiva.
Vorrei limitarmi a qualche indicazione di fondo. Anzitutto la rinuncia alla propria ragione e alle proprie ragioni. La regola di fondo si può ridurre a questo: nessuno di noi, per quanto desideri il Signore, per quanto desideri il paradiso, per quanto desideri l’amore di Dio, ha il coraggio di lasciare completamente se stesso. Noi desideriamo il frutto che verrebbe dopo aver lasciato completamente se stessi: chi è che non vuole avere un cuore completamente puro, chi è che non desidera avere un cuore talmente pieno d’amore da poter incendiare il mondo?
Ma le condizioni per arrivare a questo, siamo disposti a viverle? Soprattutto per noi occidentali ciò che sembra quasi impossibile fare è rinunciare contemporaneamente alla nostra ragione e alle nostre ragioni. Ad esempio, se uno mi incontra per strada e mi dà del cretino, io mi arrabbio, perché mi sento offeso, ma, ricordandomi del comandamento evangelico, cercando di essere generoso, non contrattacco. Se però lo incontro una seconda volta e questi mi rincara la dose, farò una fatica enorme ad osservare il comandamento “non adiratevi … siate miti con tutti”. Normalmente, se vogliamo seguire il Signore, la soluzione la cerchiamo nell’ordine dello sforzo cercando di compattare la propria volontà su quell’obiettivo. Per quanto però ci sforziamo di compattarci, il massimo risultato sarà di non rispondere male, ma tenere il cuore pulito ci sarà impossibile, e non perché il nostro cuore non abbia la possibilità di accedervi, ma perché sceglie la via sbagliata.
Il padre spirituale, invitandovi a procedere nella via di Dio, vi dirà in concreto come rinunciare alla vostra ragione e alle vostre ragioni. Se discutiamo con le nostre ragioni, saremo sempre prigionieri del nostro cuore, ma di un cuore asservito al male, non di un cuore libero. Per noi fare questo salto è veramente difficile. Pensate soltanto al nostro senso di importanza. Noi possiamo sopportare molte ingiustizie materiali; ci possono derubare, offendere…, ma sentire che non valiamo niente e non contiamo per nessuno, non ci va giù in assoluto. Pensate al comandamento: “ritenetevi inferiori a tutti, stimate gli altri superiori a voi”. Ma è realmente possibile agire così? Eppure senza agire così, la porta di accesso alla libertà del cuore non si trova. Allora, o ci fidiamo totalmente delle Scritture e dei Padri (e i Padri sono coloro che ci dicono in concreto come praticare i comandamenti) oppure ci dobbiamo fidare di una persona che, in nome di Dio, ci porta là dicendoci: fai così e così, senza ragionamenti. L’obbedienza è lo spazio fecondo in vista del compimento di una promessa alla quale abbiamo aperto il cuore. Ma il primo vero sforzo di un cammino spirituale resta quello di ottenere quel salto qualitativo interiore: tutti i riferimenti di natura psichica devono essere lasciati per dei riferimenti di natura spirituale. E questo ci costa l’anima ed è per questo che tardiamo tanto ad incamminarci veramente nella via di Dio!
Cosa avviene quando uno vive in tale obbedienza? Consideriamo il caso, tipico in una certa tradizione, di un discepolo che vive con il suo padre spirituale. Agire in totale obbedienza al proprio padre nel senso quieto, dolce, profondo del termine, crea libertà interiore. E’ una cosa strana, ma così facendo si perde ogni riferimento di importanza personale: non ci interessa più la nostra faccia! E se non ci interessa più la nostra faccia, allora possiamo veramente cercare la gloria di Dio, e quando cerchiamo la gloria di Dio per davvero, il cuore resta libero. Proprio come dice Gesù: “E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44). Ora, cosa vuol dire cercare la gloria di Dio? Dio non dà a nessuno la sua Gloria! (cfr. Is 42,8). A volte, gli antichi crocefissi, invece dell’iscrizione “I.N.R.I.”, portano la dicitura “Re della Gloria”. Perché? Perché la gloria non è che la testimonianza, lo splendore dell’Amore di Dio che non può essere soffocato da niente e da nessuno, nemmeno dall’ingiustizia più crudele; anzi, è proprio lì che si può manifestare con più vigore la gloria di Dio. Ed è a quella gloria che il nostro cuore aspira perché è fatto a immagine di Dio. Noi abbiamo paura di essere fregati: la paura folle è che anche Dio ci freghi. E’ come se noi pensassimo che Dio è geloso e non vuole che siamo contenti e per questo ci chiede il sacrificio di noi stessi! Quale stoltezza! Ma questo pensiero è talmente annidato nelle pieghe del nostro cuore che insidia subdolamente anche tutti i rapporti fraterni.
Quale via di Dio per noi?
Se mi sento attratto da una persona è perché intuisco che nell’incontro con lei il mio cuore riceve il compimento di quello che desidera (e questo è bello!). Ma se poi io mi servo dell’altro per colmare il mio bisogno, per cercare la mia felicità, io non sono più capace di amare e se non amo, non posso più trovare la felicità e resto fregato…. e l’altro ancor di più. E’ una legge costante, nella vita sentimentale e nella vita spirituale, con gli uomini e con Dio. L’uomo soffre immensamente di questa situazione. Anche nel cammino spirituale, con Dio, si attiva lo stesso meccanismo. Come venirne a capo? Se non si è accompagnati da qualcuno che abbia già conosciuto e la sofferenza di questa situazione e la via d’uscita, tutto è tremendamente complicato e l’uomo alla fine si arrende.
E’ strano come noi immaginiamo l’amore e l’incontro con Dio; ci attendiamo una ‘beatitudine’ in cui stare come rapiti. Invece, tutte le grandi realtà della vita comportano un aspetto angosciante, non nel senso di un’oppressione mortificante, ma nel senso di una partecipazione drammatica, di una solidarietà nel patimento di ingiustizie e sofferenze. Dio non vive un amore ‘beatificante’ nei nostri confronti, eppure è appassionato e totale nella sua benevolenza. E’ l’amore dell’angoscia santa di Gesù: “sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,49). La missione alle genti della chiesa vive proprio degli echi di questo grido che attraversa il mondo e la storia. E’ la stessa tensione apostolica, identica alla tensione del desiderio di Dio, compiuto da Gesù e comunicato dallo Spirito Santo; è la stessa tensione dei cuori che, mentre sono condotti a Dio, sono guidati a diventare solidali con l’umanità finché il regno di Dio si compia, finalmente. La tensione di una gioia che non si dà pace finché tutto in noi e tutti, fino agli estremi confini della terra, vivano la stessa realtà. Non può esistere un amore che non solidarizzi con la sofferenza di chi subisce l’ingiustizia. Ma quale cuore non subisce ingiustizia o violenza? La via di Dio è proprio quella che allarga la capacità dei cuori di vivere questa solidarietà stabilmente, nel profondo, in modo che tutto ciò che di cattivo e di avverso ti sopraggiunge non ti sposti più, non ti vanifichi la ‘perfetta letizia’, segno di quella gloria di Dio che risplende al di sopra di tutto.
Di fronte al dubbio…una scelta di campo.
Quando siete tormentati dai dubbi, dalle resistenze interiori, dall’inettitudine, dalla debolezza, come reagire, come uscirne? La tradizione insegna: “per le preghiere del mio padre”! E’ sufficiente. Non fare leva su nient’altro. Questo affidamento è gradito a Dio e ci ottiene la grazia. Spesso voler vincere un difetto o superare una contraddizione si risolve più in vanità personale che in un sincero amore. Spesso la nostra preghiera non funziona, perché è vissuta come lo strumento per vincere il nostro dubbio o il nostro peccato. E se proprio Dio volesse farci attendere? Quando ti affidi al tuo padre (‘per le preghiere del mio padre’) è come se ti consegnassi, ti fidassi della provvidenza di Dio per te… e sei nella pace, anche quando triboli. Potremmo porci la domanda nel seguente modo: da che parte vuoi stare? Io sto dove sta il mio padre, io sto con lui, nonostante tutto. La grazia non tarderà.
Non fare nulla senza la benedizione del tuo padre.
Si pensa comunemente che per credere non bisogna ragionare. Sarà anche vero, ma sicuramente bisogna riflettere molto, pensare tanto. Noi pensiamo troppo poco, diamo per scontate molte cose della nostra vita e in modo stupido. Il nostro cuore non beve tutto, ha molti motivi di riflessione. Esercitiamoci nella consegna della fede nella linea che indicano i padri o il tuo padre spirituale, e ci accorgeremo che il nostro modo di riflettere acquisterà una luminosità che ci scoprirà continuamente cose nuove nella vita, che prima non vedevamo.
Ora non siamo più abituati, nessuno ce lo insegna più e nemmeno forse saremmo pronti ad accettarlo, ma poterci disporre in obbedienza al punto da non fare nulla senza la benedizione del proprio padre, ci libererebbe spazi interiori incredibili. Nella nostra tradizione, spesso prima di fare un’azione si insegnava a fare un segno di croce o pronunziare una benedizione. Qual era il senso? Ogni realtà della vita si presenta come piatta, dentro un guscio. La croce spezza quel guscio e ti fa entrare nei significati più reconditi e misteriosi, assai più consistenti, della vita e del nostro cuore. Se si agisce così e per ogni azione che facciamo, per ogni pensiero che sorge, chiediamo questa benedizione, si apre un mondo completamente nuovo, spazioso, dove si rinnovano le energie del cuore. Di questo abbiamo oggi bisogno nel cammino spirituale, credo sia questo ciò che più di tutto cerchiamo.
Il ruolo del padre spirituale.
Il padre spirituale è colui che intercede presso Dio per i suoi figli, anche nel dire loro le cose, ma soprattutto nel tenerli presso Dio, perché poco a poco avvenga la spaccatura della scorza della vita quotidiana in modo da poter vivere il mistero di Dio nella sua spaziosità.
Viviamo abitualmente in spazi troppo stretti nel nostro cuore. In un posto stretto si patisce un senso di soffocamento; quando il posto invece è spazioso, ci si trova a proprio agio, si ha voglia di muoversi, di agire, di scoprire cose nuove.
E’ perfettamente inutile voler dire alle persone e ai nostri cuori cosa sia bene e cosa male: già lo sanno! Non é questo il problema. Il problema resta quello di sapere se quella cosa che sembra buona risulti davvero buona davanti a Dio, adatta ora per me. Per il padre spirituale si tratta di educare il cuore dei figli ad assimilare la potenza che viene dall’alto, proprio come avviene per la meditazione amorosa delle Scritture, secondo la tradizione dei Padri. Non si tratta di ricevere un sovrappiù di conoscenze, ma della possibilità concreta, che via via si faccia sempre più coinvolgente e totale, di lasciarsi investire da quella potenza dall’alto, che altro non è se non lo Spirito del Signore che ci viene elargito. Lo Spirito del Signore è lo Spirito effuso dal Signore Gesù dalla croce con le parole “rese lo Spirito”, che non significa semplicemente ‘morì’, ma ‘donò a noi il suo Spirito’. Quello stesso Spirito, di cui era ripieno, di cui era stato unto al momento del battesimo nel Giordano, che lo aveva reso capace di testimoniare fino alla fine (cioè fino a realizzare completamente lo scopo della sua venuta) quanto grande sia l’amore di Dio per gli uomini e che rende noi ugualmente capaci di viverne le dinamiche al pari di Gesù, innestati in lui, secondo la sua stessa potenza. E’ questo il tragitto della via spirituale che un padre spirituale percorre in compagnia dei suoi figli.
La caratteristica principale nel discepolo, l’abbiamo già detto, è l’obbedienza: rinunciare totalmente, anche se occorrono anni per riuscire ad avvicinarci a questo obiettivo, alla propria ragione e alle proprie ragioni. Quella principale del padre spirituale è di configurarsi a quello che dice Gesù di sé: “imparate da me che sono mite e umile di cuore!”, per aiutare il figlio a vivere quell’obbedienza nella libertà dello spirito, ad ottenere un cuore che sia umile, che non si fondi sulle proprie qualità, ma che impari ad innestare le proprie qualità sul dono di Dio.
Forse la caratteristica che più parla ai cuori oggi è che un padre nello spirito sia un uomo mite, non si stupisca di nulla, non giudichi mai, custodisca la bellezza dei cuori al di là delle apparenze e delle frustrazioni personali e faccia sempre riferimento alla potenza di Dio che suscita la vita.
Un tal tipo di mitezza non si può perseguire come fosse una qualità da ricercare: non è merce che si possa acquistare al mercato. E’ l’espressione invece, insieme a quella gioia di cui parlavamo sopra, dell’effetto dell’abitazione dello Spirito del Signore in noi. E quando ci è dato di incontrare quella ‘mitezza’ in qualcuno, ci può tornare persino la voglia di diventare santi! Nella nostra tradizione credo sprechiamo troppo tempo per spiegare come si deve agire bene, come si deve evitare il male, ma quasi mai sprechiamo tempo ed energie per far desiderare il Signore. Quando predicava, san Francesco diceva forse delle cose semplici, come ovvie, ma sicuramente faceva desiderare il Signore. E solo un uomo inabitato dal Signore può far desiderare il Signore. Così è del padre spirituale. Sebbene, in termini concreti, il più delle volte il ministero dei padri spirituali sia consistito nel partecipare ai dolori e alle sofferenze dei cuori, tuttavia proprio in ciò i cuori, sentendosi accolti, venivano consolati.
Chi di noi non si sente adirare di fronte all’ingiustizia che opprime il mondo? Noi mangiamo quattro volte al giorno, ma tanta gente non mangia affatto neppure una volta sola al giorno. Se considerassimo la cosa con una certa lucidità, non può non venirci il mal di pancia. Eppure ci illudiamo nel pensare che se lavorassimo seriamente per la giustizia, potremmo eliminare l’ingiustizia da questo mondo. Non è vero! L’ingiustizia non scomparirà, ma guai a noi se, potendo far qualcosa per togliere un grammo di ingiustizia dalla nostra vita o dalla vita del nostro fratello, non lo facciamo. Non pensiamo che se ci mettiamo d’accordo toglieremo l’ingiustizia dal mondo. Credo sia stupido, oltre che ingenuo, perché il mondo non cambia. Ha voluto lasciarlo com’è il Signore Gesù, lo cambieremo noi? Allora dove sta il punto? Sta nel fatto che se io veramente condivido e partecipo alla sofferenza dei cuori e gli altri possono davvero sentire che sono accolti ed amati, avranno modo di vivere la loro vita in tutt’altra prospettiva, con tutt’altro vigore. L’essenziale è arrivare a vivere in modo che gli altri si sentano accolti ed amati, perché l’esito sarà che il mondo risulterà più vivibile, la presenza di Dio nel mondo sarà più visibile e la consolazione vicendevole più determinante per le sorti della nostra stessa vita.
Recentemente è uscito in Italia il volume di p. Ioanichie Balan sulla figura del suo padre spirituale, p. Cleopa Ilie di Sihastria, in Romania: Il mio padre spirituale. Vita e insegnamenti di Cleopa di Sihastria (1912-1998). Introduzione di T. Spidlik, Roma 2002, ed. Lipa.
Se vi accingete a leggere questo libro, credo che dobbiate armarvi di buona pazienza per andare oltre le venti pagine di lettura. E’ scritto in una mentalità lontana mille miglia dalla nostra sensibilità quotidiana. Chi si accosta ad una certa tradizione del mondo cristiano orientale, deve subire il contraccolpo di trovarsi su altre sponde, di sentirsi in gran parte estraneo per sensibilità, mentalità, riferimenti mentali. Ma, come dice il proverbio, ‘non buttar via il bambino con l’acqua sporca’. Anch’io ho assistito ad un incontro con lui. Ascoltavo e mi dicevo: ma cosa ha poi detto? Erano tutti buoni consigli come quelli che danno i nostri nonni, eppure quest’uomo emanava una potenza da cui comunque ti sentivi protetto, consolato. La domanda, angosciosa a tratti, che mi faccio è la seguente: nel monachesimo romeno contemporaneo quelli che cercano di imitare p. Cleopa, vivono lo stesso mistero? Non penso proprio, purtroppo. Questa potenza non dipende dallo studio, dalle capacità individuali, ma dipende dalla vita nello Spirito. E non bisogna dimenticare: lo Spirito si adatta a tutte le mentalità. Occorre soltanto che ognuno abbia il cuore pulito, sia sincero nella ricerca del Signore e che faccia funzionare l’intelligenza del cuore, che non manca a nessuno perché il Signore si adatta a tutti. Spesso, per esempio, quello che può dire mia mamma, io posso dirlo molto meglio, senza offenderla. Eppure, che conta, è la potenza che scaturisce per il cuore. In certi momenti della vita, in situazioni drammatiche o comunque difficili, anche il semplice detto: “male non fare, paura non avere”, che mia madre mi ha tante volte ricordato, può riuscire più determinante di qualsiasi altro ragionamento o convinzione. Mi ha più aiutato nella preghiera una parola (“pazienza, padre, pazienza!”), pronunciata con un certo tono da un ‘sihastru’, eremita romeno, che aveva ascoltato le mie domande sulla preghiera, che non tutti i libri e le intuizioni che ho poi avuto in seguito. Spesso nella vita non contano le grandi qualità, ma la forza che viene da alcune cose che si sono annidate nel profondo del cuore. E se si annidasse una vera Parola del Signore dentro di noi, e questa ci partecipasse la sua potenza? Saremmo imprendibili dal male. Il problema è farne annidare qualcuna, imparando a fidarci dell’opera di Dio dentro di noi. E per non illudersi? Ci conceda il Signore di trovare un buon padre spirituale. Sarebbe proprio cosa molto buona.
Moderatore.
Credo che sia stato molto difficile per p. Elia riuscire a condensare grandi questioni, però penso che ci abbia aperto una serie di sollecitazioni e degli squarci in questa prospettiva di un cuore purificato, di un cuore splendente della gioia e dell’amore di Dio. P. Elia ha declinato in un certo modo il processo di una spiritualità non di mortificazione, basata su precetti moralistici, ma di trasfigurazione, indicando la via per dare luce e trasfigurare la nostra esistenza, sulla base di questa relazione speciale con il padre spirituale e della potenza spirituale che passa attraverso determinate persone per dono misteriosissimo di Dio.
Qui si aprono tante questioni. C’è spazio per domande, osservazioni , chiarimenti.
Prima domanda: è veramente possibile acquisire lo Spirito del Signore esclusivamente con la Scrittura e i Padri?
Risposta. E’ una questione perenne, che non si risolve mai. Io direi. Primo. Se qualcuno prima di noi ha potuto, perché non possiamo noi? Se altri l’hanno già fatto , perché non potremmo noi?
Secondo. Quando dico Scrittura e Padri , intendo sempre una tradizione viva. Ciò significa liturgia, una comunità che vive la stessa fede e tutto ciò che comporta una trasmissione viva della fede. Fondamentalmente, però, si tratta di un lavorio del cuore sulla Scrittura e sui Padri. Il consiglio che posso dare e che ci siamo dati noi stessi in comunità è: incominciamo! Se hai paura di cadere, non ti muovi mai. Comincia a camminare, se poi cadi , ti rialzi! Basta riprendere sempre il cammino. L’inizio è sempre dato da Scrittura e Padri, ma non per sapere cosa dice la Scrittura e cosa dicono i Padri! La norma del comprendere è definita dalla tradizione in questa successione: leggere, praticare, comprendere; non invece come solitamente intendiamo: leggere, comprendere, praticare. Non si pratica quello che la testa capisce, ma quello che il cuore è disposto ad accogliere. La potenza della parola è in funzione del cuore, non della mente. Tu leggi, non preoccuparti di capire, preoccupati subito di applicare. Agendo capirai ed il desiderio di ritornare alla parola si farà via via più vivo, come la velocità ad eseguire si farà via via più immediata e la comprensione diventerà sempre più profonda e cordiale: si impara a conoscere quello che il cuore ama. Si incontrano difficoltà, certamente, ma non può mancare un certo coraggio. Come nell’amore: non si impara ad amare se ci si decide ad amare solo quando si è sicuri. E poi non siamo mai completamente isolati, abbiamo sempre la possibilità di domandare, di confrontarci. Prima o dopo, Dio ci fa incontrare anche la persona adatta.
Seconda domanda: esiste differenza tra la direzione spirituale e la paternità spirituale?
Risposta. Spesso i due termini si usano come sinonimi, sebbene ricoprano concetti e realtà diverse. Per esempio, in ogni seminario viene nominato un padre spirituale, ma in realtà si tratta di predisporre l’opportunità per tutti di una direzione spirituale. Non tutti se la sentono di vedere in quel ‘direttore spirituale’ imposto il loro ‘padre spirituale’ scelto liberamente. Eppure, in molti casi, il direttore spirituale diventa davvero il padre spirituale per alcuni. E’ misterioso questo! I ruoli, nell’obbedienza, comportano un loro mistero. La figura che conosciamo come direttore spirituale è piuttosto istituzionale, però, esercitata in obbedienza alla dinamica dello Spirito, si carica della realtà del padre spirituale. E’ chiaro che nessuno può presentarsi a qualcuno come padre spirituale. Non può esistere una scuola per padri spirituali, nel senso più genuino del termine, mentre ci si deve preparare per poter esercitare il ruolo di direttori spirituali. Non dobbiamo però disprezzare nulla. Una data esperienza, limitata, circoscritta, può aprire l’accesso ad una esperienza più profonda, più autentica; una piccola grazia si può rivelare con il tempo la grazia di una vita. Spesso è il figlio a rivelare ad una persona che è diventata per lui il suo padre spirituale. Oggi forse ci si fonda troppo, nella formazione, su criteri di natura psicologica piuttosto che spirituale. Non che si debba disprezzare nulla nella vita, perché ogni elemento di cultura, di scienza, di esperienza, può essere per noi come l’ angelo di Dio che arriva a portarci una piccola rivelazione. Guai però se prevale come atteggiamento di fondo la paura del futuro. Avviene come nelle famiglie quando si dice: il mondo è troppo cattivo …non facciamo figli! E così il mondo diventa più cattivo davvero, perché ogni tentazione confermata porta più potere al nemico! E questo è stupido, perché vuol dire che domani combatteremo con un nemico che ha doppia forza. Invece il procedere spirituale è diverso. Sembra debba lasciarti nel timore perché ti fa ricordare sempre che tu sei peccatore, che devi avere coscienza di essere peccatore, ma nello stesso tempo, ti colloca in un clima radioso, perché ti fa ricordare che Dio è onnipotente e ti salva! La visione è veramente diversa. Non so se ricordate il commento dei grandi Padri alla domanda del Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Secondo voi, qual è la prima cosa che chiediamo in questa invocazione? La prima cosa è: Signore, dacci la coscienza che siamo peccatori! Senza questa, la domanda non ha senso, perché se io non mi sento peccatore, non farò esperienza del perdono di Dio, non scoprirò la dolcezza e la grandezza dell’amore di Dio e se io non posso fare esperienza della bontà per il cuore dell’accoglienza che viene da Dio, come potrò parteciparla agli altri con il mio perdono? Quindi, la prima cosa che chiediamo è: Signore, dacci la coscienza di essere peccatori! Nel rapporto con il prossimo , perché a volte siamo restii ad accoglierlo? Perché abbiamo paura, ci diciamo, ma in fondo è perché non abbiamo coscienza di essere peccatori. Se in effetti ce l’avessimo, non potremmo non accogliere il nostro fratello. Siamo noi ad avere dei doveri nei suoi confronti, non il contrario! E per condividere con lui quello che abbiamo ricevuto immeritatamente da Dio. Invece noi, con la scusa che vogliamo diventare generosi, ci fondiamo su di noi e finiamo per essere angosciati ed arrabbiati.
Moderatore: Forse sarebbe interessante vedere questa figura del padre spirituale in rapporto al cammino ascetico, perché l’ascetica nella tradizione cristiano-orientale è definita arte delle arti, scienza delle scienze, ad indicare un processo di trasformazione della materia.
Risposta. Ho tralasciato di accennare direttamente a questo, ma posso riassumerlo in breve. Due sono i campi in cui si esplica l’esercizio della paternità: uno è quello della battaglia spirituale e l’altro è quello della preghiera.
La battaglia spirituale è lo spazio dell’ascesi. Non si pensi che l’ascesi riguardi solo le suore, i monaci, i preti. L’ ascesi concerne il vivere nello Spirito: appartiene al credente. Noi non siamo abituati al fatto che si cresce in funzione delle battaglie spirituali che ci tormentano, dei peccati umilmente riconosciuti, del perdono divino dolcemente accolto; invece pensiamo di crescere in funzione delle conquiste che facciamo e – perdonate - restiamo fregati, perché la conquista di oggi può tramutarsi in una vittoria di Pirro domani! Ad esempio, uno è iroso, cerca di superare l’ira e poi alla fine diventa superbo. Che vantaggio ne ha? Sembra che noi si possa diventare buoni sforzandoci semplicemente di compiere tanti atti buoni. Ma come sarebbe possibile operare il bene se il male non è stato vinto stabilmente nel nostro cuore? Fin tanto che non impariamo a distinguere con lucidità i nostri pensieri segreti e, invocando il Signore, a respingere quelli che non si accordano con i suoi comandamenti, come potrà venire illuminato il nostro cuore da compiere il bene secondo Dio? Come potrà adorarlo in spirito e verità, in pentimento ed umiltà, per ricevere quel perdono che noi stessi siamo invitati a dare al nostro prossimo, testimoniando così il nostro amore? E’ importante cogliere il senso della lotta contro le nostre passioni, i nostri pensieri, per imparare a pregare. Combattere i pensieri che ci illudono non significa distruggerli, ma trasfigurarli perché (sembra un paradosso, ma è così!) in ogni nostro pensiero, anche cattivo, in ogni nostro peccato, di qualsiasi tipo, vi sta come racchiuso un anelito che va liberato perché il cuore torni a vivere profondamente e liberamente. E l’anelito è in diretta dipendenza con la presenza del Signore nel cuore. In altre parole, combattere contro le passioni non significa altro che cercare di ridare ai nostri pensieri l’oggetto ed il contenuto loro proprio, il Cristo, per mezzo del quale tutto è stato fatto e ad immagine del quale noi siamo stati creati e nel quale tutto ritorna, riconciliato, a Dio. Il Cristo è il fondamento della nostra purificazione e la trasfigurazione della nostra mente, che è possibile realizzare progressivamente concentrando i nostri pensieri su di Lui, punto a cui tende direttamente la pratica della preghiera. Spesso risulta determinante l’azione del padre spirituale che proprio in questo accompagna il cuore all’incontro col Signore.
Domanda: volevo provare a confrontarmi sulla cultura nostra in maniera anche pastorale. Mi sembra che oggi i giovani sentano un gran bisogno di avere un padre spirituale e di queste figure tra i preti non ce ne sono moltissime. Volevo sentire lei cosa ne pensa delle figure carismatiche laiche di padri o madri spirituali: quali le ricchezze, quali i pericoli.
Risposta. La domanda può essere posta in senso positivo o come critica. In senso positivo noi conosciamo nella tradizione, oggi come nell’antichità, comunque nei secoli passati, figure carismatiche di uomini e donne, di ministri ordinati, come di laici, indifferentemente. Nella tradizione bizantina prevalgono le figure di monaci o di monaci sacerdoti, mentre nella tradizione latina prevalgono le figure di sacerdoti nell’esercizio della paternità spirituale. Non mancano però figure di donne o di laici che hanno esercitato tale ruolo. Normalmente prevale la scelta della persona, oltre la funzione istituzionale. Le anime hanno una specie di fiuto interiore per cui sentono dove possono recarsi. La cosa non è sempre immune da pericoli, ma in generale funziona. Non c’è dunque motivo di aver timore se il dono della paternità/maternità spirituale è concesso a ministri ordinati come a laici, a uomini come a donne. Quello che invece non mi convince è un certo clima di ambiguità che oggi vedo diffuso, nel senso che noi oggi non cerchiamo in verità la dimensione spirituale, ma piuttosto ci limitiamo ad una dimensione ‘psichica’, ad un voler ‘star bene’ interiore che non coincide con il crescere nello spirito. Per esempio, se cerco un maestro per praticare la meditazione trascendentale sia essa di tipo yoga o altro, rispondo sì ad un bisogno interiore, ma che può benissimo, come generalmente accade, non risolversi in un crescere spirituale. Perdonate se vi riporto un’esperienza personale. Quando noi abbiamo iniziato la nostra vita religiosa nel 1970, la parola d’ordine comune suonava : apertura al mondo! Tutto veniva proiettato sull’apertura al sociale e noi, controcorrente, dicevamo: no, è più essenziale il pregare! Negli anni ’90 e tanto più adesso, ci sono molti che vengono al monastero e chiedono di insegnare loro la preghiera, ma con un certo spirito ‘mondano’ nel senso che vorrebbero fare esperienze interiori, star bene interiormente… E noi diciamo: no, devi saper andare incontro ai poveri per pregare in sincerità! Se la richiesta di preghiera è fatta con spirito mondano, per ottenere qualcosa per sé, non procede e non fa accedere alla dimensione spirituale. Chi anzi procede in quel modo, subisce poi delle confusioni, che riuscirà a sanare con fatica. La grazia del discernimento è sempre benvenuta, tanto più che le domande vere dei cuori non vengono dalla bocca! Nessuno dice che cosa davvero vuole, lo si deve capire ed è una grazia grande sia per chi deve operare il discernimento sia per chi apre il suo cuore. Parlando oggi con qualcuno di voi dicevo: i peccati che diciamo, non sono i veri peccati che abbiamo, o comunque, il peccato vero che abbiamo è l’ultimo che diciamo! Arrivare ad aprire in verità il nostro cuore come arrivare a conoscere il cuore di un altro richiede un’enorme pazienza, e questo tipo di ‘pazienza’ non ha a che fare semplicemente con la virtù della pazienza. Ha piuttosto a che fare con il mistero profondo dei cuori sempre degni di rispetto e di venerazione comunque. Anzi, se un cuore non trova chi gli porti questa pazienza, non l’avrà nemmeno per se stesso. Dentro questa pazienza arriviamo a percepire il mistero stesso di Dio. Si compie quello che costituisce lo scopo dell’esercizio della paternità: dare il Signore. Non tanto però come un voler dare il Signore da parte nostra quanto piuttosto come uno svelare l'amore del Signore in comunione con gli uomini. Del Signore i cuori hanno bisogno, è lui il consolatore, ma prima di tutto hanno bisogno di sentire che è solo l'amore al Signore a suggerire strategie e attenzioni nei loro riguardi. Alla fin fine ogni tipo di mediazione a livello della vita spirituale si riassume in questo: Qualcuno da mettere in rapporto più diretto e più intimo con qualcuno, Qualcuno vivente di fronte a qualcuno vivo.
p. Elia Citterio
Fratelli Contemplativi di Gesù
15060 CAPRIATA D’ORBA (AL)
e-mail: contemplativi@libero.it
Tratto da: http://digilander.libero.it/contemplativi/capriata/testi/2003/Padre_spirituale_def.htm
[1] ORIGENE, Omelie su Geremia. Introd., trad. e note a cura di L. Mortari, Roma 1995, Città nuova (collana di testi patristici,123), p.122: omelia IX, 4.
[2] Arhimandrit CLEOPA ILIE, Urcuş spre înviere. Predici duhovniceşti, Iaşi 19982, ed. Mitropoliei Moldovei şi Bucovinei.
[3] Cfr. PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets, a cura dei Fratelli contemplativi di Gesù, ed. Scritti monastici, Abbazia di Praglia 1988 (ristampata presso le ed. Qiqajon, 1998); I. BALAN, Volti e parole dei padri del deserto romeno, a cura dei Fratelli contemplativi di Gesù , Comunità di Bose 1991, ed. Qiqajon; E. Citterio, La scuola filocalica di Paisij Veličkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto, in “Amore del bello. Studi sulla Filocalia”, Comunità di Bose 1991, ed. Qiqajon; idem, La dottrina spirituale dello ‘starec’ Paisij. Radiografia di una comunità, in “Paisij, lo starec. Atti del III convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose 20-23 settembre 1995, Comunità di Bose, Qiqajon, p. 55-82.
[4] Significativa la testimonianza di Nicodemo Aghiorita: «[Nicodemo] venne a sapere della buona fama del cenobiarca Paisij, di origine russa, il quale si trovava nella Bogdania [=Moldavia] e dirigeva più di mille fratelli. Siccome insegnava loro la preghiera del cuore e lui stesso [Nicodemo] amava questa divina pratica, si imbarcò per partire alla ricerca della sua diletta divina preghiera». Si veda: “Vita, azioni e lotte ascetiche sostenute a gloria della nostra Chiesa dal beato monaco Nicodemo, ricolmo di ogni sapere e degno di perenne memoria, descritte dal suo fratello in Cristo, ieromonaco Euthymio” in GRIGORIOS O PALAMAS 4 (1920), p. 641.
[5] La firma ‘Paisij starec’ è evidentemente ricalcata su ‘Paisie, Stareţul’.
[6] Si veda A. PIOVANO, Santità e monachesimo in Russia, Milano 1990, ed. La casa di Matriona (Ricerche 22); N. KAUTCHTSCHISCHWILI, G. M. PROCHOROV, F. VON LILIENFELD e AA. VV., Nil Sorskij e l’esicasmo, a cura di A. Mainardi, Comunità di Bose 1995, ed. Qiqajon.
[7] Cfr. A. PIOVANO, La paternità spirituale nell’antico monachesimo russo (secoli XI-XV), in N. KAUTCHTSCHISCHWILI, G. M. PROCHOROV, F. VON LILIENFELD e AA. VV., Nil Sorskij e l’esicasmo, a cura di A. Mainardi, Comunità di Bose 1995, ed. Qiqajon, p. 181.
[8] Cfr. PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets, a cura dei Fratelli contemplativi di Gesù, Comunità di Bose 1998, Qiqajon, p. 178-9.
[9] Si veda D. Zamfirescu, “Biografia inedită a stareţului Paisie cel Mare”, p. 547. Cfr. Lettera ai padri rimasti a Dragomirna dopo lo spostamento nel monastero di Secu, in Adunare a cuvintelor celor pentru ascultare, Neamţ 1817, pp. 352-353. Cfr.ancora Lettera per i fratelli alla mietitura, in Adunare a cuvintelor, p. 339. Il testo di questa lettera si può trovare anche in I. BĂLAN, Pateric românesc ce cuprinde viaţa şi cuvintele unor cuvioşi părinţi ce s-au nevoit în mînastirile româneşti secolele XIV-XX, Bucarest 1980, p. 256-259. Cfr. anche Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, vol. II (Chişinău 1999), pp. 167-172, 162-166; vol. I (Chişinău 1998) , pp. 17-22.
[10] Valga per tutti la testimonianza di Grigorie Dascălul : “Mostrerò invece come e quando, con la venuta di questo beato starec e il costituirsi di questa grande comunità, si sia dato avvio, secondo la benevola provvidenza dell’Altissimo, ad un’opera che ora non ha riscontro in tutta l’Ortodossia”. Cfr. Povestire din parte a vieţii prea cuviosului părintelui nostru Paisie [1817] in D. Zamfirescu, Paisianismul, un moment românesc în istoria spiritualităţii europene, Roza vânturilor, Bucureşti 1996, p. 119.