Russia
L'arcipelago di Dio
Cupole fiabesche, bizzarre, multicolori. Nelle isole del lago Ladoga, in Carelia, ai confini con la Finlandia, rinascono chiese e monasteri

Sopra i tetti risplendono le cupole fiabesche delle chiese russe, fioriscono i bulbi dorati, frutti di un cristianesimo esotico, bizzarro, multicolore". Così scriveva Joseph Roth, nel suo Viaggio in Russia, risultato di un'inchiesta per la Frankfurter Allgemeine sul "paese dei Soviet", nel decimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. Era il 1927: e ben presto le cupole dorate avrebbero smesso di scintillare. Per Lenin, la religione era "l'oppio dei popoli". Per il suo successore, Stalin, divenne un nemico da perseguire e abbattere risolutamente. Nel 1917, alla vigilia della Rivoluzione, in Russia esistevano 80 mila chiese e oltre mille monasteri e conventi: nella sola Mosca ce n'erano duemila, o "quaranta volte quaranta", come recitava un vecchio proverbio, e per ogni chiesa distrutta da un incendio se ne costruivano immediatamente due nuove. Settantaquattro anni dopo, nel '91, al crollo dell'Unione Sovietica, in tutto il paese ne restavano in funzione soltanto 6.800: come dire che più del 90 per cento erano state demolite, chiuse al culto, trasformate in magazzini o depositi. Nell'inverno '90-'91 mi ritrovai stretto fra una folla di giornalisti, fotografi, fedeli e curiosi tra le buie navate della cattedrale di San Basilio: in quei giorni, che precedettero di pochi mesi la sua fine politica, Gorbaciov aveva deciso di restituire alla chiesa ortodossa la spettacolare chiesa sulla Piazza Rossa, eretta cinque secoli prima per ordine di Ivan il Terribile che intendeva così ringraziare il Signore per la vittoria contro i Tartari. Trasformata dal potere sovietico in un museo laico, quell'inverno San Basilio tornò dunque a essere un luogo di culto. E poco dopo, con la scomparsa dell'Urss, la religione ha riavuto tutti i diritti. Le vecchie chiese ancora in piedi vengono restaurate e riaperte, se ne costruiscono di nuove, spesso identiche all'originale andato in pezzi con la dinamite. Oggi ce ne sono già quasi ventimila, e aumentano al ritmo di un migliaio all'anno, finanziate con sovvenzioni statali quando si tratta di monumenti storici, ma più spesso con la beneficenza di parrocchiani e di qualche ricco sponsor privato. Ciò non significa automaticamente che la sconfitta del marxismo-leninismo abbia prodotto la rinascita della fede in Russia: la gente battezza regolarmente i bambini, si sposa in chiesa, va ad accendere un cero sotto l'icona del santo protettore appropriato nelle feste comandate, ma più che a un intenso fervore religioso sembra in preda a preoccupazioni commerciali. Un Lenin redivivo direbbe forse che il videoregistratore e lo stereo, ossia il consumismo, hanno rimpiazzato la religione come nuovo "oppio dei popoli": in particolare del suo, il popolo russo, troppo a lungo privato dei minimi piaceri materiali. La partecipazione alle messe, infatti, è più o meno sullo stesso livello dell'Europa occidentale: per ogni dieci persone che dicono di essere credenti, solo una va puntualmente a messa. La chiesa, insomma, non ha riempito il vuoto d'identità e ideologico lasciato dal collasso del comunismo.
E tuttavia, anche se non ha riconquistato il ruolo preminente che aveva prima della Rivoluzione, quando la triade "Zar, Patria e Dio" regnava sovrana sui russi, la sua rinascita ha un effetto positivo. Forse non è sempre facile coglierne gli effetti a Mosca, o a San Pietroburgo, cioè nelle grandi città, dove più infuriano le trasformazioni economiche e la febbre consumistica. Ma in provincia, e meglio ancora nelle immense campagne isolate, il ritorno della religiosità si vede subito. Un buon posto per vederlo è un pessimo posto per vivere: il lago Ladoga, nella Carelia russa, una regione ai confini settentrionali del paese, alla frontiera con la Finlandia. Al centro del lago, decine di isole e isolotti; su uno di questi, un antico monastero, o più precisamente quello che ne resta, le sue rovine ancora miracolosamente in piedi. In questo deserto di ghiaccio, in questo paesaggio freddo, selvaggio, desolato, spazzato per molti mesi all'anno da tempeste di neve e da venti glaciali, sorgeva dall'ottavo secolo il monastero di Valaam, uno dei santuari dell'ortodossia russa, uno dei luoghi sacri più riveriti del mondo bizantino. Come un avamposto sperduto, o forse dimenticato, il grande convento aveva resistito alla furia staliniana fino al 1940: ma all'approssimarsi della seconda guerra mondiale si uniformò alla sventurata sorte di altre decine di migliaia di chiese. Alla fine della breve guerra tra Urss e Finlandia, anticipo del pieno coinvolgimento sovietico nella seconda guerra mondiale, il monastero fu requisito dal regime comunista; i milleduecento monaci che vi risiedevano vennero espulsi; le icone, le croci, le cupole d'oro, saccheggiate o distrutte. Sparirono le attività che i monaci avevano impiantato in quella terra ostile, fabbriche di mattoni, di pelli, di resina, di terracotta e vetro. Stalin trasformò Valaam in una scuola per marinai e mozzi, quindi, anni più tardi, il monastero fu adibito a ospedale per i malati di mente del Gulag. Tale sarebbe rimasto, se la Storia non avesse messo sul suo cammino Gorbaciov, la perestrojka, il crollo dell'Urss. Un paio d'anni prima della riapertura di San Basilio, esattamente il 14 dicembre 1989, sei monaci tornarono a installarsi nel sacro luogo sulle isole del lago Ladoga. Ad accoglierli, c'era uno spettacolo di totale desolazione. I soli abitanti rimasti nel minuscolo arcipelago erano l'ex-personale dell'ospedale e i discendenti degli handicappati, dei malati di mente che vi erano stati un tempo rinchiusi. Nulla restava, tranne le mura, delle meraviglie dell'antico monastero: la cappella di Smolensk, che risaliva al 17.mo secolo, era stata distrutta due o tre decenni prima per volontà del direttore dell'ospedale, a cui evidentemente dava fastidio, le icone sfuggite al saccheggio erano finite a bruciare nel fuoco, per riscaldare infermieri e detenuti in un inverno particolarmente rigido, ogni segno del lavoro compiuto fino al 1940 dai frati era cancellato, irriconoscibile. Ma i monaci non si persero d'animo. "Ciò che il Signore dà, il Signore può togliere", commentò uno di loro, padre Pankratij, che sarebbe diventato il priore della resuscitata comunità religiosa. E si misero all'opera. In otto anni, Valaam ha ripreso a vivere. La confraternita conta ora centocinquanta frati; le giornate sono ritmate dalla preghiera, dalle messe, dalla meditazione, dal suono delle campane. E naturalmente dal duro lavoro necessario a sopravvivere in questo arcipelago di ghiaccio. Ciascun monaco ha la sua specialità. Padre Viktor è il fornaio, spetta a lui provvedere il pane e le ostie. Padre Herman, che prima di prendere i voti era un musicista rock, si occupa dei canti liturgici (registrandoli, segno dei tempi, in CD).
Padre Mikhail restaura le icone. Padre Vassilij va a tagliare la legna nei boschi. E così via. La vita non si è limitata rifiorire all'interno del monastero, ma anche al suo esterno. Quando i monaci arrivarono, nel 1989, dovettero coabitare con una popolazione civile, sparpagliata fra le isole e le rive del lago, composta al 30 per cento da alcolizzati cronici, e nella quasi totalità da disoccupati, poveri, infermi. "Abbiamo assistito a scene di violenza quotidiana, donne picchiate a sangue, risse per una bottiglia di vodka, omicidi, qualche volta è dovuta intervenire la Milizia", ricorda padre Pankratij. Non appena hanno avuto il tempo di riorganizzare la loro esistenza monastica, i frati hanno deciso di occuparsi delle anime che soffrivano nelle vicinanze. Il monastero ha cominciato a dare ospitalità alle famiglie più disperate, a nutrire gratuitamente almeno un centinaio di persone al giorno, a dare una scuola ai bambini. Per la gente dell'arcipelago, che non poteva più sopravvivere, privata delle pur minime sovvenzioni statali dell'era sovietica, il ritorno dei monaci è stato un'insperata salvezza. Chi di loro ha deciso di restare nei pressi di Valaam, perché non vuole andarsene o perché non può, non aveva altra scelta che adeguarsi al ritmo di vita, di lavoro, di preghiera, della comunità. Il frate priore minimizza. "Facciamo il minimo indispensabile, per questi nostri sfortunati fratelli", dice Pankratij. La sua non è soltanto modestia, è anche constatazione dell'abisso che separa il monastero di oggi da quello di una volta: "Un visitatore non può neppure immaginare che cosa fosse Valaam prima della presa del potere da parte dei bolscevichi. Ci fu un tempo in cui il solo nome, Valaam, era come una parola magica, sufficiente ad aprire tutte le porte, superare tutti gli ostacoli, tanto era venerato in tutta la Russia". Malgrado il clima rude, impossibile, i monaci erano riusciti a fare delle loro isolette un piccolo paradiso terrestre: viali alberati, frutteti, vigneti, laboratori artigianali, e per sopportare il gelo dell'inverno, quando da queste parti la temperatura raggiunge i 30 gradi sotto zero, avevano costruito una rete di corridoi sotterranei, per permettere una comunicazione fra i diversi edifici del monastero. Di tutto questo, non rimane più alcuna traccia. I monaci furono costretti a partire con tre carretti trainati a mano, nel 1940, e su per giù con tre carretti sono ritornati mezzo secolo dopo, nel dicembre 1989. "Ci vorranno almeno altri 15 anni per cambiare veramente il volto di Valaam e il suo destino", calcola il priore. Ma per questo uomo di fede, così lontano dai palazzi del potere (laico e religioso) di Mosca, ricostruire quello che era noto come "l'arcipelago di Dio" è una missione senza limiti di tempo. Significa ridare la sua spiritualità alla Russia cristiana. Di modo che, nel prossimo futuro, un novello Joseph Roth possa di nuovo osservare con gioia, sopra i tetti delle case, "le cupole fiabesche, i bulbi dorati" delle chiese russe.

di Enrico Franceschini