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27-28 giugno 2001

seminario nazionale Flai Cgil su

 

"la contrattazione della sicurezza alimentare

 del lavoro e dell'ambiente

 nei settori agro-alimentari "

 

 

 

Maurizio Dondi: segr. reg.le  Flai-CGIL Emilia Romagna

La contrattazione della sicurezza alimentare

 

Salvatore Lo Balbo: segr.reg.le Flai CGIL Sicilia

La contrattazione della sicurezza sul lavoro

 

Felice Mazza: Responsabile nazionale Dipartimento Sicurezza  Alimentazione Ambiente e Territorio

La contrattazione della sicurezza ambientale

 

 

La contrattazione per la sicurezza alimentare

Roma Via Leopoldo Serra 21

27/28 giugno ’01

 

Comunicazione Maurizio Dondi segr. Reg. FLAI-CGIL Emilia Romagna

 

I temi della sicurezza alimentare stentano a farsi strada nelle priorità contrattuali del sindacato.

Anche per noi è necessario uscire da una ottica emergenziale, che dal caso mucca pazza a ritroso ha contraddistinto gli interventi dei soggetti, sia che fossero imprenditori o istituzioni preposte al governo e controllo dei processi.

 Solo da poco tempo Confindustria si sta ponendo il problema del rapporto impresa territorio ambiente e sicurezza, cose interessanti infatti sono uscite dal convegno dei giovani industriali di Santa Margherita della settimana scorsa, la stessa relazione di D’Amato a Parma e le posizioni di Federalimentare espresse da Sampietro.

Si tratta ora di vedere se e come ci saranno sviluppi e quali livelli veri di confronto si potranno aprire anche sulla scorta del Convegno Nazionale della Flai del 15 marzo c.a. nel quale oltre al confronto siamo a riusciti a   individuare proposte e priorità. 

Certo il tema di quali scelte contrattuali mettere in campo è tutto nostro ed è su questo terreno che occorrerà uno sforzo di elaborazione ricerca ma anche di efficace coinvolgimento dei lavoratori, affinché questa nuova priorità corrisponda ai loro interessi ed esigenze. 

La catena alimentare è quanto di più complesso oggi esista nei sistemi di produzione, sappiamo infatti che parte dalle forniture di materia prime all’agricoltura per passare dalla produzione primaria alla trasformazione fino, ultimo anello, alla preparazione a livello domestico. 

Il coordinamento

I vari passaggi indicano più momenti di presidio e vigilanza per la sicurezza alimentare e dunque di azione contrattuale. Primo problema  che dobbiamo porci è, oltre all’azione della nostra categoria, se esiste la necessità di intrecci, confederali e intercategoriali: 

 Confederali sulle politiche territoriali, perché sappiamo benissimo che c’è nesso tra qualità delle produzioni(i prodotti tipici ma non solo) e territorio, ma anche tra territorio e sicurezza alimentare se pensiamo che è nel territorio che si realizzano le politiche di sviluppo, di infrastrutture, di ricadute degli elementi inquinanti delle attività produttive, civili,specifici agroalimentari: si pensi al riciclaggio dei rifiuti di origine animale quale intrinseco legame hanno con il territorio, oppure i pesticidi, che contaminando l’atmosfera possono contaminare altre produzioni agroalimentari non interessate. 

Intercategoriali perché la fonte delle forniture di materie prime(si pensi al potenziale pericolo di introduzione di elementi transgenici con le sementi) e medicinali alle aziende agricole e di additivi  a quelle alimentari è elemento fondamentale per il controllo della sicurezza alimentare fin dall’inizio dei cicli di produzione e sono altre le categorie che hanno la rappresentanza

 Su questi aspetti sarà necessario continuare la discussione aperta con la Confederazione e vedere quali scelte operative e di coordinamento è opportuno fare. 

 Approccio di Sistema

Sono numerosi gli eventi di segno negativo accaduti in questi anni , le misure adottate legislative e di indirizzo sia in Italia che nella Comunità Europea oscillano tra intervento emergenziale e progettazione di interventi più integrati e strutturali, come il Libro Bianco della UE ma quasi sempre sono in secondo piano i ruoli dei soggetti che per collocazione hanno un rapporto diretto con le produzioni agroalimentari, come lo sono i lavoratori dipendenti. 

Sempre secondo il libro Bianco della Commissione Europea il paradigma della sicurezza alimentare si basa su cinque concetti-chiave:

Approccio completo ed integrato, Responsabilità, Rintracciabilità, Analisi del Rischio, Principio di precauzione.

Occorre quindi individuare un approccio di sistema e non solo di settore, nel quale produttori e altri operatori devono lavorare in modo integrato e dove il concetto di rintracciabilità non è visto solo come certificazione per la qualità, ma va inteso in senso più largo legandolo alla sicurezza alimentare.

La Regione Emilia Romagna ha attivato un progetto denominato “Ora 2005” che si propone questo tipo di approccio e sul quale è iniziato un primo confronto, anche se le tappe di realizzazione sono molto lunghe appunto entro il 2005, ma anche qui abbiamo dovuto sottolineare, noi Sindacato alla Regione, l’esigenza di avere una maggiore attenzione, sia nell’analisi che nell’apporto a realizzare la sicurezza,  del contributo del mondo del lavoro. 

Diventerà interessante come l’insieme del Paese ed il Governo Nazionale intenderanno affrontare la questione, non possono esistere infatti parti tra loro scoordinate o aree/sistema con finalizzazioni ed altre senza programmazione essendo poi il nostro Paese un grande sistema, con livelli di integrazione che non si fermano ai confini geografici,  dove il prodotto agroalimentare Italiano potrebbe avere solo benefici di immagine e vera qualità e sicurezza se i consumatori fossero rassicurati su questi passaggi. 

La professionalità dei lavoratori

Marco Jermini della OMS e del Centro Europeo Ambiente e Salute, nel Forum sulla Sicurezza Alimentare che si è tenuto a Milano il 21 aprile c.a. ha indicato quelle che sono le maggiori determinanti dei rischi per la popolazione e alcuni punti critici per la sicurezza alimentare :

agricoltura e allevamenti intensivi, produzione e distribuzione di massa, aumento del commercio internazionale, difficoltà ad ispezionare le attività, diminuzione della professionalità degli addetti del settore. 

E’ la prima volta che, da fonte non sindacale, sentiamo indicare con chiarezza che il problema della professionalità degli operatori e quindi anche dei lavoratori è un problema prevalente e quindi oggettivo. 

Anche alla luce di queste considerazioni, nel settore agroalimentare il termine/concetto di professionalità deve essere ripensato e ricomposto nel contenuto:  come attitudine e conoscenza dei processi, la capacità di eseguirli e il mettersi in relazione con le varie fasi della trasformazione e produzione sia per gli aspetti qualitativi che per quelli legati alla sicurezza alimentare. 

Le diversità delle produzioni, dal pane a sofisticate invenzioni chimico-alimentari, la frantumazione produttiva, i diversi processi di trasformazione non consentono di identificare degli standard professionali omogenei, ma per tutti deve diventare evidente che la mansione del lavoratore agroindustriale si dovrà comporre  di conoscenze operative per produrre e di conoscenze per presidiare la sicurezza alimentare. 

Il sistema HACCP di autocontrollo dell’igiene degli alimenti, introdotto anche in Italia nel giugno del 2000 è una occasione per discutere e contrattare di organizzazione del lavoro di formazione professionale con la finalità della sicurezza alimentare(almeno per gli obiettivi del sistema di autocontrollo HACCP) 

Noi sappiamo però che purtroppo l’applicazione da parte delle aziende è quanto di più burocratico ci possa essere, i manuali di analisi dei punti critici raramente sono stati distribuiti, di formazione specifica non c’è traccia se non in forme sporadiche, cioè un lavoratore non si è accorto per nulla del passaggio tra applicazione del sistema di autocontrollo e la fase precedente(le aziende obiettano che se è così è perché già prima era in atto l’autocontrollo e l’analisi dei punti critici delle produzioni. Strano modo di argomentare, visti i casi noti e non noti che sono accaduti……) 

 In futuro e già ora, se si pensa alle misure BSE; tracciabilità e rintracciabilità, HACCP porteranno alla introduzione di operazioni di controllo sempre più dettagliate, che non potranno essere affidate alla sola percezione umana o al lavoro manuale, è così prevedibile un ulteriore incremento dell’utilizzo dell’informatica, per selezionare, campionare, per favorire la identificazione del prodotto. 

La formazione professionale diventa quindi per la nostra categoria uno degli assi attorno al quale individuare le proposte contrattuali, una formazione che sappia coniugare i vecchi saperi con la introduzione di processi di controllo informatizzati per produrre in modo sicuro. 

I temi dell’organizzazione del lavoro nella valutazione della sicurezza alimentare

Diventa particolarmente importante sviluppare professionalità che, con l’ausilio di informatica o no, sappiano riconoscere la materia prima ed i suoi cambiamenti organici e non solo per le produzioni di alta qualità dove questo sapere è più legato alla qualità che alla sicurezza del prodotto.

Occorre uscire dalla logica delle sole certificazioni, come elemento di valutazione della qualità e sicurezza alimentare, ma affermare anche formalmente il legame che deve esistere tra le competenze professionali necessarie, l’organizzazione del lavoro ed il riconoscimento che le procedure sono state rispettate.

In altre parole quando qualche ente controllerà o certificherà dovrà tenere conto anche di come il lavoro si esprime, dalle competenze professionali ai fattori organizzativi e del mercato del lavoro. 

Le nuove priorità contrattuali

Se questa sarà una delle nostre priorità anche gli inquadramenti professionali dovranno essere rivisitati.

Altri cambiamenti sono da individuare nel sistema di relazioni e nelle informazioni, la così detta prima parte dei contratti.

Qui noi abbiamo almeno tre problemi o opportunità:

come ampliare le informazioni previste, anche alle misure che le imprese adottano tra  obblighi imposti e  autocontrolli, cioè come le aziende e con quali strumenti mettono in atto le procedure di sicurezza;

come introdurre informazioni sulle materie usate, salvaguardando il segreto industriale;

come coinvolgere le associazioni dei consumatori per creare tra aziende, lavoratori e consumatori un tavolo permanente di informazione e interazione. 

L’affermazione di maggiori procedure di rintracciabilità porterà anche alla individuazione di enti terzi per il controllo e la certificazione, anche se su questo campo il dibattito è ancora molto aperto. 

E’ immaginabile che vari saranno i metodi usati per i controlli, quelli già ora previsti, ma ulteriori è presumibile che vengano introdotti, anche se la dimensione quantitativa renderà problematici i controlli stessi. 

Il delegato alla sicurezza alimentare

Allo stato non esiste nessun orientamento ne tanto meno   nessuna decisione che proponga di associare i lavoratori al sistema di controlli che necessariamente si renderanno obbligatori. 

Potrebbe essere interessante, sull’esempio del rapporto tra ASL  e RLS e le opportunità che fornisce la 626, che si individuasse un ruolo, il cui aspetto giuridico e contrattuale andrebbe approfondito, per i lavoratori e i loro rappresentanti in azienda, che fosse prima di tutto di coinvolgimento alle procedure adottate dalle aziende, ma poi successivamente anche di interlocuzione con i soggetti di vigilanza/certificazione. 

Non è una necessità di occupare terreni impropri, ma l’esigenza di avere tra gli attori coloro che poi si incaricano nel concreto di garantire i processi di produzione agricoli e industriali e che ne conoscono ogni aspetto, molte volte senza avere contribuito a determinarlo. 

L’organizzazione del lavoro è poi un altro tema di forte intervento.

Nelle imprese alimentari come in quasi tutte le altre imprese, l’organizzazione del lavoro e la condizione della prestazione sono l’applicazione di scelte fatte altrove e quindi non in funzione del lavoro.

La riduzione dei costi, le esigenze del mercato, le caratteristiche e la stagionalità dei prodotti, sono anche per noi elementi di riferimento difficilmente aggirabili.

Ma se è valida una impostazione che punta alla qualità ed alla sicurezza occorre anche sapere intervenire su questi fattori renderli per noi prioritari ed indicare alle imprese altre strade da quelle a volte facilmente utilizzate. 

Uno degli aspetti emblematici che lega queste affermazioni sono le nostre esperienze di contrattazione sul  salario variabile.

Sono scarse in generale formulazioni che leghino il salario all’intervento sulla ODL, ma ancora più rari sono accordi che individuano nella qualità uno degli indicatori, rarissimi indicatori legati a certificazioni ISO (quando c’è qualcuno di questi indicatori non è mai prevalente) 

E’ evidente che se si trovano indicatori di qualità, si interviene sulla ODL ma anche ed in particolare si affinano gli strumenti per la sicurezza alimentare, e si inducono le aziende a proiettare le ragioni della loro competitività sulle performance qualitative.

Con comprensibile beneficio, per la sicurezza dei prodotti per la condizione della prestazione e per lo sviluppo di nuove e più elevate competenze professionali. 

Questo orientamento potrebbe trovare interesse da parte dei lavoratori, ma anche da parte delle stesse imprese, se davvero si sono comprese le lezioni dei recenti avvenimenti, è ovvio che tali scelte devono essere accompagnate da un articolato contrattuale nazionale coerente, come sul versante della struttura delle imprese, per contrastare il processo di destrutturazione e terziarizzazione, che con poco successo(almeno in alcuni comparti) abbiamo combattuto in questi anni.

Sappiamo che la BSE ha origini nell’alimentazione animale, ma è certamente emblematico che sia accaduta nel settore che ha avuto la maggiore scomposizione e dove sono presenti in modo esteso e certo, fenomeni di illegalità nelle forme con le quali si attiva il rapporto di lavoro 

Occorrerà anche ripensare ad un mercato del lavoro di maggiore stabilità, noi consentiamo alle aziende rilevanti possibilità di utilizzo di forme di lavoro non a tempo indeterminato. 

Questo è giusto dove la stagionalità è legata a produzioni, sia alimentari che agricole che sono davvero legate ad un periodo determinato di inizio e fine, ma parallelamente sono attivate forme di stagionalità(sic) di 10 11 mesi, con relativi bassi inquadramenti  e relativi peggiori trattamenti. 

Appare evidente che se rimane un problema di costi e di così ampia libertà per le aziende, non si svilupperà l’attenzione alla qualità ed alla sicurezza alimentare, alla formazione dunque di questi lavoratori, alla loro maggiore professionalità e stabilità.

 Promuovere la discussione con i lavoratori

Per ultimo ma ovviamente  importantissimo è il coinvolgimento vero dei lavoratori, che sono in aziende ed in un settore che produce beni alimentari, molti hanno competenze professionali elevatissime e legami con il marchio e l’azienda molto solidi.

Si tratta di aprire con decisione questa discussione, che individua nuovi baricentri contrattuali.

L’agroalimentare Italiano avrà futuro se si affermerà il binomio qualità e sicurezza, di conseguenza le nostre scelte contrattuali dovranno essere orientate in quella direzione, portando l’insieme della FLAI ad una attenta discussione che non rimanga patrimonio solo di alcuni gruppi dirigenti. 

 

 

LA CONTRATTAZIONE DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO

RELAZIONE DI SALVATORE LO BALBO,

SEGRETARIO REGIONALE DELLA FLAI-CGIL DELLA SICILIA,

E’ opportuno, ad inizio di questa relazione, sottolineare ciò che lega questo seminario a quello da noi tenuto qualche mese fa sulla sicurezza alimentare, ed è altrettanto opportuno evidenziare che esso si tiene nell’ambito della iniziativa della CGIL che ha individuato il 2001 come anno della sicurezza nei luoghi di lavoro.  

L’attività di conoscenza, di analisi, di elaborazione è  indispensabile per un sindacato come il nostro che sulla sicurezza nei luoghi di lavoro deve recuperare un notevole ritardo.

Quindi facciamo bene ad organizzare questi momenti nazionali, tendenti ad unificare l’attività che si fa nei territori e nelle aziende e, nel contempo, ad alimentare un dibattito e una tensione politica che mette la nostra categoria nelle condizioni di trovare una propria identità politica.

 Non più, dunque, un sindacato per una categoria di “iurnatari”, come diciamo in Sicilia, cioè di lavoratori giornalieri, senza un futuro, senza una identità, senza l’applicazione di quei diritti e quelle regole che sono un dato certo per tutto il mondo del lavoro. Ma nemmeno un sindacato per un settore in continua ricerca delle calamità, delle integrazioni AIMA, del sostegno al reddito; né per un settore dove si vuole che esistano prevalentemente le piccole e piccolissime aziende che producono per il proprio focolare o al massimo per conferire il prodotto a strutture che senza l’intervento pubblico non vivrebbero nemmeno una giornata.

No. Oggi il sindacato, la FLAI, la CGIL, ma anche FAI e UILA devono fare i conti – malgrado tutto – con un comparto AGRO-ALIMENTARE-AMBIENTALE che produce prevalentemente per il mercato nazionale ed internazionale; che tende a produrre buoni prodotti; che asseconda e in alcuni casi orienta i gusti dei consumatori; che assieme al settore tessile-abbigliamento fa il made in Italy; che alimenta assieme con i beni culturali enormi flussi turistici; che sempre di più incide sulla prevenzione sanitaria e sul benessere psico-fisico di tutta la popolazione.

Lo spostamento dell’asse culturale, politico, economico, di identità mi sembra evidente: da un comparto definito prevalentemente marginale, specialmente al Sud, passiamo ad un comparto di mercato, che soddisfi le giuste richieste dei consumatori di avere una buona qualità dei cibi.

La consapevolezza di tutto ciò rende la FLAI del terzo millennio diversa dalla Federterra, dalla Federbraccianti e dalla Filziat. Tale consapevolezza, che si evolve in questi ambiti storici, senza abbandonare le origini, senza abbandonare il bracciante o l’alimentarista, deve essere in grado di dare rappresentanza al lavoratore agro-alimentare-ambientale, di dare contenuti ad una politica sindacale e contrattuale in grado di tutelare e migliorare le condizioni economiche dei lavoratori e di sicurezza nel lavoro. Ma deve essere in grado anche di tutelare e migliorare le condizioni dei consumatori e di incidere nelle scelte di una economia.

Non so se questo è un ragionamento giusto, completo; certamente ha bisogno di ulteriori approfondimenti, di correzioni, di un sostegno più di merito. La certezza, però, che ho maturato in questi mesi di positive discussioni interne alla FLAI e alla CGIL è quella che abbiamo bisogno di un forte colpo di reni per essere in grado di dare rappresentanza a centinaia di migliaia di lavoratori e impiegati nonché garanzie ai consumatori.

 

Le questioni che sono alla base del seminario di ieri e di oggi sono tasselli essenziali per tutto ciò.

Il tema che mi è stato assegnato, e per ciò ringrazio il compagno Mazza e la Segreteria nazionale, è di notevole spessore sia per la qualità della contrattazione sia per la qualità del settore, dei processi produttivi e dei prodotti.

Non farò, ovviamente, una illustrazione del decreto legislativo 626/94 e nemmeno uno spaccato delle cose che le nostre controparti avrebbero dovuto fare. Penso sia utile approfondire la riflessione sui nostri comportamenti e su cosa sarebbe politicamente e sindacalmente opportuno fare per rendere più conveniente e interessante lavorare in questo comparto.

Ad oggi la situazione, per sommi capi è la seguente:

·    Nel 1994 viene emanato, dopo una diffida della Comunità Europea, il decreto legislativo 626/94; esso, pur essendo un ottimo provvedimento, è il frutto di ritardi ed omissioni di una classe politica asservita alle esigenze di un padronato miope che pensa al proprio portafoglio e non ai costi sociali di milioni di infortuni e di migliaia di morti sul lavoro;

·    I datori di lavoro, pubblici e privati, che sono individuati con chiarezza come i principali responsabili dello stato di salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro tendono, con la complicità di tanti, ad una applicazione cartacea delle norme e ad una sottovalutazione della qualità dei luoghi di lavoro, continuando a ritenere come costi poco utili alla ricchezza dell’azienda i sistemi di prevenzione e protezione

·    La pubblica amministrazione, intesa non come datore di lavoro, accoglie il decreto legislativo con estrema contrarietà. L’INAIL, il Sistema Sanitario, i soggetti indicati per la repressione e la prevenzione respingono a priori il sistema partecipativo e di chiara responsabilizzazione che mette in campo il decreto legislativo. Essi si sono formati negli anni non per prevenire ma per pagare gli infortuni. Penso che non sarebbe esagerato dire che la loro è stata una esistenza basata sulle disgrazie dei lavoratori;

·    Nel sindacato confederale e nelle categorie ci sono filoni di pensiero che continuano a tifare per la monetizzazione della salute e vedono con notevole fastidio le modalità applicative del decreto legislativo 626/94. Basti ricordare tutto il dibattito che c’è stato, e per alcuni continua ad esistere, sulla figura del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: deve essere eletto, come sancisce l’art. 20, o deve essere nominato dal sindacato, basti ricordare il sostanziale silenzio che esiste sui Comitati Paritetici ai vari livelli.

 

Classe politica, datori di lavoro, pubblica amministrazione e sindacato sono i soggetti che con compiti e responsabilità diversi devono garantire, attraverso l’applicazione di norme e la contrattazione, che i lavoratori operino nei luoghi di lavoro con un indice di sicurezza che si avvicini il più possibile al 100%.

I dati sugli infortuni, il numero di orfani e vedove, il raffronto con gli altri paesi europei ci dice non solo che non ci avviciniamo al 100% di sicurezza ma che in confronto allo sviluppo del sistema produttivo ci allontaniamo sempre di più sia dal contesto europeo, sia da “tollerabili” indici di accettabilità del fenomeno.

Il nostro comparto, in particolare, continua ad essere tra quelli che guidano le classifiche negative degli infortuni e delle malattie professionali, sommando ai rischi tradizionali i nuovi rischi derivanti dalla meccanizzazione e dall’utilizzo di nuove tecniche di produzione. Le differenze sono anche geografiche e per singoli settori. Il Piemonte è diverso dalla Calabria e il settore della macellazione è diverso dal serricolo.

Per questo ritengo sia utile discutere delle direttrici che mettano tutti noi nella condizione di poter  gestire con il coinvolgimento convinto dei lavoratori il decreto legislativo 626 e la contrattazione ad esso collegato in modo univoco, senza differenze o sconti verso il sistema delle imprese o verso la pubblica amministrazione. Senza dover affermare, e alcune volte anche in accordo con i padroni, che un infortunio o una morte si siano verificate “per responsabilità” del lavoratore o “per una tragica fatalità”.

Quando parlo di “noi” non parlo del singolo dirigente sindacale o della singola struttura. o solo della CGIL o della FLAI, ma di tutti i soggetti che fanno relazioni sindacali. E proporzionando i soggetti sindacali ai dati possiamo dire che qualcuno bara, che ci sono soggetti sindacali che predicano bene ma razzolano male.

Nel nostro comparto tra il 1995 e il 1997 si sono sottoscritti gli accordi nazionali con le controparti relativi alla applicazione degli art. 18, 19 e 20 del decreto legislativo 626/94, sui RLS e sui Comitati Paritetici per i contratti dell’industria alimentare, dell’associazione allevatori, dei consorzi di bonifica, dell’ortofrutta, dei consorzi agrari, degli operai e degli impiegati agricoli, della cooperazione agricola e industriale.

A seguito di ciò bisognava:

·        costituire i Comitati Paritetici a livello nazionale e territoriale;

·        indire le elezioni dei RLS;

·        aggiornare ed adeguare la contrattazione di 2° livello a questa nuova realtà;

·        definire i contenuti dei pacchetti formativi per i componenti dei comitati e per i RLS;

·        costituire e gestire le banche dati e fare fronte alle controversie tra lavoratori e datori di lavoro.

Bisognava, inoltre vigilare su una maggiore rispondenza dei documenti di valutazione dei rischi con gli obiettivi che il decreto legislativo, la contrattazione e il buon senso si erano posti, cioè eliminare o ridurre al minimo le fonti di pericolo e di rischio per i lavoratori.

Considerata la vastità del fenomeno era ovvio pensare ad una maggiore repressione da parte degli Ispettorati del Lavoro, del servizio sanitario, dell’Inail, dell’Ispesl, dei Vigili del Fuoco, della Magistratura.

Ci si poteva attendere anche una maggiore attività conflittuale e contrattuale del sindacato.

I numeri, sia quelli dell’Inail sia quelli sui Comitati Paritetici, che sui RLS, purtroppo ci dicono che tutto ciò o non è stato fatto, o le cose realizzate sono in un quadro nazionale di gran lunga insufficienti, o le singole iniziative non hanno determinato che la sicurezza nei luoghi di lavoro fosse assunta a sistema e a prassi consolidata..

In questo contesto dobbiamo inserire l’attuale fase contrattuale dei rinnovi dei contratti nazionali dei lavoratori agricoli, della cooperazione agricola e della forestazione e gli stessi rinnovi della contrattazione di secondo livello di gruppo e di azienda nell’industria alimentare.

Penso che sia importante partire con il piede giusto, non solo sulle questioni di merito delle piattaforme, ma anche su quelle di metodo. Anzi, sono convinto che il metodo assume un significato particolare. che riguarda il livello di coinvolgimento dei lavoratori a tutte le fasi della contrattazione, dalla approvazione delle piattaforme, alla trattativa, e alla approvazione dell’ipotesi di accordo.

Se ciò vale per la fase contrattuale ancora da costruire, a maggior ragione  vale per la applicazione reale e convinta del decreto legislativo 626/94. Saremmo poco credibili al tavolo delle trattative con le associazioni padronali o negli incontri con il Ministero della Sanità o del Lavoro se ci presentassimo con pochi Comitati Paritetici Nazionali, regionali o Provinciali esistenti e funzionanti, o con poche RLS esistenti e funzionanti, o – ancora – con una attività politico-sindacale poco visibile.

Penso che ci siano le condizioni per un forte recupero e per una adeguata iniziativa che ponga le basi per una forte fase di contrattazione nazionale che non sia di rimando ai successivi livelli o a commissioni e comitati che poi non si riuniscono.

Per rendere visibile ed esigibile dai lavoratori l’indicazione che la Confederazione ha dato del 2001 come l’anno della sicurezza nei posti di lavoro dobbiamo  lanciare una forte campagna di applicazione del decreto legislativo 626/94, a partire da uno o più momenti nazionali di coinvolgimento dei delegati aziendali, dei RLS e dei quadri sindacali in grado di dare una forte spinta ideale a tutta l’organizzazione.

 Il prossimo mese di settembre può essere indicato dal prossimo Comitato Direttivo Nazionale come il mese della sicurezza dei lavoratori del nostro comparto. Meglio se coinvolgiamo anche FAI e UILA, altrimenti va bene anche solo come FLAI insieme con la CGIL.

Una forte e coerente iniziativa sindacale deve mettere la categoria sui binari di un protagonismo positivo in contrapposizione ad un protagonismo negativo che ci vede tra i primi posti delle classifiche settoriali per incidenti e infortuni mortali.

Mi sembra inoltre utile lanciare una forte campagna di informazione e di produzione di materiale informativo, insieme alla costituzione di un centro di documentazione da pubblicare nel nostro sito che raggiunga il duplice obiettivo di divulgare quello che già abbiamo prodotto e che produrremo, e di farlo conoscere a tutta la FLAI, alla CGIL e alla società. Curare l’informazione sia quella tradizionale sia quella in rete, mi sembra uno dei nodi principali da dipanare.

 Maggiore è la visibilità, maggiore è la popolarità delle questioni che mettiamo in campo, maggiore è il livello di partecipazione dei lavoratori, maggiore è il coinvolgimento positivo di tutti quei soggetti pubblici coinvolti dal decreto legislativo. Per ultimo penso alle conseguenze positive che diamo sul fronte aziendale sia per migliorare i processi produttivi sia per innalzare il livello di qualità dei prodotti.

Deve essere chiaro, che la nostra attività non deve essere finalizzata a se stessa, tanto per partecipare. Dobbiamo prevedere per i prossimi mesi una intensa attività formativa in grado di allargare in tutto il territorio nazionale e in tutti i settori della nostra categoria il livello di coinvolgimento dei quadri e dei delegati.

Ma dobbiamo essere anche in grado di lanciare una forte campagna di denuncia delle omertà, delle omissioni, delle false applicazioni del decreto legislativo e delle applicazioni cartacee, dei forti interessi speculativi che in questi anni si sono formati attorno al decreto, delle false efficienze degli istituti pubblici come l’INAIL e le Aziende Sanitarie, della non visibilità della magistratura e delle forze dell’ordine.

Dobbiamo anche denunciare la scarsa utilità della politica nei confronti degli imprenditori, basata sulla erogazione di risorse finanziare senza che a ciò si affianchi una forte azione repressiva e di controllo.

Due sono i principali soggetti pubblici che sono preposti alla repressione: l’INAIL e le Aziende Sanitarie.

Il primo, pur continuando a riscuotere i contributi assicurativi dei lavoratori, pur essendo stato difeso nel proprio ruolo di soggetto indispensabile nella assistenza e nella prevenzione degli infortuni dagli attacchi che venivano  da settori di destra e del padronato, continua ad avere un ruolo a dir poco ambiguo sia nei confronti dei lavoratori infortunati sia delle aziende. Nei confronti dei  lavoratori assistiamo ad una ambiguità tutta negativa; infatti pur chiamandoli utenti o clienti, esso ha nei loro confronti un atteggiamento che si manifesta in una pessima e burocratizzata erogazione di servizi e in una gestione dei singoli eventi fatta con distacco ed inefficienza. Invece   un ruolo ambiguo,tutto in positivo, è riservato ai datori di lavoro attraverso una sostanziale mancanza di controlli sia sulla prevenzione nelle aziende, sia sulla repressione post infortunio. Malgrado il lungo elenco di morti e feriti presenti  nel nostro paese i rapporti con le aziende (potremmo dire con i carnefici) sono improntati sulla cordialità, sulle opportunità informative, sui condoni, sulla erogazione anche di risorse economiche che non fanno diminuire né i morti né i feriti. Sono troppo pochi i datori di lavoro che pagano il conto con la giustizia

 Il secondo soggetto pubblico, cioè il Sistema Sanitario, quello presente nei territori, quello che dovrebbe ricevere e analizzare i documenti di valutazione dei rischi, quello che dovrebbe controllare i rumori, le fonti di luce, le fonti di calore, gli ambienti di lavoro, la efficienza dei dispositivi di protezione individuali, le fonti di pericolo e di rischio materiali e immateriali, quello che dovrebbe controllare i macelli, i vivai, le serre, le stalle, i magazzini ortofrutticoli, i pastifici, le linee di imbottigliamento o di briccaggio o di conservazione, i pescherecci,  i trattori, etc…, questo soggetto raramente è visibile nelle aziende.

 In questo contesto dobbiamo sviluppare sia la nostra iniziativa generale, sia quella contrattuale.

 Avendo le carte in regola, o avendo messo in moto il processo di “regolarizzazione” sindacale nella nostra categoria siamo in grado di produrre una concreta, coerente ed esigibile attività  contrattuale a partire dai prossimi rinnovi contrattuali.

Mi sembra utile partire da una messa a regime dei comitati paritetici. Già un passo in avanti è stato fatto in queste settimane per il Comitato paritetico nazionale dei lavoratori e degli impiegati agricoli.

La nostra è una categoria dove la centralità è rappresentata dal lavoro stagionale, flessibile e a tempo determinato ed è pertanto opportuno che nelle piattaforme contrattuali vengano affrontati i seguenti argomenti:

·        merito del funzionamento dei Comitati Paritetici;

·        reperimento delle risorse relativo al funzionamento dei comitati ( una strada può essere rappresentato dall’utilizzo dei canali dell’assistenza contrattuale);

·        istituzione dei RLST;

·        previsione di risorse economiche gestite dai Comitati Paritetici per il sostegno ai RLST, sia per la contribuzione che per la retribuzione;

·        individuazione di competenze vincolanti per i soggetti contrattuali sulle questioni della formazione ai RLS, ai RLST e della informazione ai lavoratori;

·        costruzione di un modelle di relazioni costanti delle attività tra i Comitati Paritetici e i soggetti pubblici previsti dal decreto legislativo;

·        possibilità da parte dei Comitati Paritetici superiori (nazionale) di sostituirsi ai Comitati Paritetici inferiori (provinciali) al fine di garantirne comunque la funzionalità;

·        istituzione di banche dati settoriali a livello nazionale;

·        unificare le diverse aree contrattuali dei Comitati Paritetici o per determinazione contrattuale e/o per omogeneità previdenziale.

Per ultimo, dobbiamo avere ben presente che fino a questo momento ho parlato dei lavoratori ufficiali, di quelli messi in regola, di quelli verso i quali si applicano leggi e contratti. Esiste un altro spaccato della nostra categoria che è rappresentato dai lavoratori in nero, dai clandestini, da quelli ai quali l’applicazione di leggi e contratti è negato.

Si può dire che ad ogni lavoratore legale corrisponde un lavoratore in nero. Ad ogni infortunio denunciato né corrisponde uno non denunciato. Anche per questi lavoratori la FLAI deve essere in grado di porsi come punto di riferimento capace di farli emergere dalla clandestinità e farli diventare soggetti in grado di esigere i diritti contrattuali e di legge.

Questi possono essere alcuni temi da sviluppare nella fase di preparazione delle piattaforme contrattuali e sono certo che gli interventi che ci saranno saranno in grado di arricchire  i temi indicati con ulteriori proposte.

 

 Ambiente e Sviluppo Sostenibile

RELAZIONE DI FELICE MAZZA,

Responsabile nazionale Dipartimento Sicurezza  Alimentazione Ambiente e Territorio

Premessa

La tutela ed il miglioramento dell’ambiente, intendendo per tale lo stato ecologico del territorio, sono condizioni imprescindibili ai fini:

-         della qualità della vita e della varietà umana, animale e vegetale;

-         della sicurezza del territorio dai rischi derivanti dal clima o dall’azione umana;

-         dello sviluppo sostenibile delle attività umane nel lungo periodo;

-         della qualità e della fruibilità dei terreni dedicati alle produzioni agricole ed agroindustriali;

-         della qualità, dell’igiene e della sicurezza alimentare dei prodotti agroalimentari;

-         della qualità della vita e del lavoro di chi opera in queste attività.

 

L’esperienza

L’esperienza sindacale di contrattazione, in tema di tutela ambientale, è segnata da una serie d’esperienze eccessivamente variegata, nel senso che a rare, benché significative, esperienze corrisponde ancora una diffusa superficialità se non indifferenza.

La questione ambientale è stata vissuta, per molti anni, dalle aziende, dai sindacati e dai lavoratori, come una sorta di attacco alle attività produttive e all’occupazione. D’altro canto, l’atteggiamento aggressivo dei movimenti ambientalisti non ha facilitato il dialogo e la riflessione.

L’atteggiamento istituzionale è stato spesso ondivago e poco responsabile, in altre parole poco attrezzato e restio a fare le debite pressioni necessarie a costruire adeguati a percorsi consensuali e partecipativi, mentre si è rivelato piuttosto incline a regolamentare l’argomento con leggi di comando e controllo, al fine di mettersi al riparo da eventuali “responsabilità”, ma tralasciando poi di costruire il controllo necessario per dimostrare la volontà di indurre, i soggetti interessati, a comportamenti corretti.

Il limite culturale e politico è prodotto da un’antica concezione dell'interesse economico, purtroppo, assecondato dalla scuola. I gruppi dirigenti, pubblici o privati, nazionali e non solo, sono ancora formati secondo princìpi che considerano il rispetto della sicurezza e dell'ambiente un costo per le aziende, da esternalizzare a carico della collettività.

Dal 1905, quasi un secolo fa, il pensiero economico ha analizzato questo fenomeno; ma per elaborare risposte adeguate è rimasto in attesa di una sensibilità scientifica, sociale e politica che si è andata verificando, con lentezza e contrasti immensi, solo dagli anni '60 e grazie all'impegno dell'ONU.

 

Gli esiti

Le potenzialità negative di questi princìpi si possono vedere in concreto. La spesa pubblica nazionale, sia in materia di sanità generale, connessa alla previdenza, per infortunio o malattia professionale, sia in materia di ambiente per disastro ecologico (alluvione, frana, incendio, inquinamento), è costantemente cresciuta.

La competitività, in un mercato globale peraltro senza regole, poggia quasi esclusivamente, sul parametro dell'abbattimento dei costi. Ora, sapendo che nel mercato globale si rileva la presenza, economicamente aggressiva, di paesi o aree continentali che ammettono lo schiavismo e tendono ad esportarlo, anziché proporsi di cambiare questo fenomeno è stato più facile mettersi a competere con gli schiavisti.

Poste queste premesse, i gruppi dirigenti così formati non potevano che orientarsi alla destrutturazione dei diritti dei lavoratori dei paesi industrialmente forti e con una solida protezione sociale.

Il problema, comunque, non sta nel mercato globale in sé, ma nel fatto che esso non è correttamente regolato. Le contestazioni al G8 e alle sessioni dell’OMC attirano l'attenzione dei mass media, ma la questione rilevante, che spaventa chi ha goduto finora dei benefici del mercato senza regole, sta nel fatto che alcuni importanti paesi, quali l’Europa e la Cina, esprimano la volontà di dare al mercato globale le regole necessarie a stabilire le condizioni minime di civile convivenza e a sanzionare chi non le rispetta.

 

L’Unione Europea

L'Unione Europea ha dimostrato a lungo molta attenzione al proprio mercato interno e alla libera circolazione delle merci ma li ha subordinati sempre alla concorrenza leale, che implica il rispetto delle regole sociali. Oggi, addirittura, subordina questi temi sia alle politiche di tutela ambientale, sia a quelle per la sicurezza nei luoghi di lavoro e, prossimamente, anche a quelle per la sicurezza alimentare.

Essa ha tutto l'interesse a sostenere questi orientamenti, avendone fatto motivo di impegno fondamentale delle proprie politiche. Né abbiamo motivo di pensare che essa non si senta impegnata in questa direzione, tanto più dopo la deliberazione dei diritti fondamentali dei cittadini concordati a Nizza.

Il sesto programma europeo per l’ambiente è frutto di un lungo impegno in materia. Siamo, infatti, ad oltre diciotto anni dal primo. A questo proposito, ritengo utile una breve rilettura delle vicende ambientali degli ultimi trent’anni.

 

Trent’anni di storia per l’ambiente

Il contributo dei Paesi europei fu forte già nella prima conferenza mondiale di Stoccolma, nel 1972, quando per la prima volta il mondo intero prendeva atto della crisi ambientale. In quell’occasione si stabilì che ogni Stato dovesse:

-         emanare leggi di comando e controllo per reprimere l’inquinamento di aria, acqua e suolo;

-         sostenere l’informazione dei cittadini sullo stato dell’ambiente e sull’utilità di assumere comportamenti corretti e responsabili, anche di denuncia degli inquinatori;

-         organizzare sistemi di depurazione delle acque reflue, di smaltimento dei rifiuti di depurazione delle emissioni atmosferiche;

-         proteggere le aree naturali.

I ritardi e l’inefficacia delle normative, il taglio allarmistico e intermittente dell’informazione, l’atteggiamento di indifferenza del mondo produttivo, il modello consumistico delle società ricche, l’espansione urbana, la crescita esponenziale della popolazione, l’uso eccessivo delle fonti energetiche fossili, hanno procrastinato la presa di coscienza della gravità dello stato dell’ambiente.

L’atteggiamento aggressivo dell’ambientalismo era, in questo senso, giustificabile; tuttavia, dall’analisi di questi ed altri fenomeni, esso ha assunto una questione: il problema dell’aggravamento dell’ambiente è causato dallo sviluppo economico, ergo, è necessario fermarlo partendo dalle cause più gravi. E così, l’ambientalismo ha usato la contestazione sociale che, avendo riflessi sulla politica, ha sospinto le istituzioni verso decisioni sempre più stringenti.

Negli anni ’80 si è diffusa una contestazione sociale così forte da mettere in crisi parti rilevanti delle attività economiche in molti territori. Ne è derivato un impegno delle istituzioni e delle associazioni imprenditoriali a livello mondiale, tendente a ricercare la soluzione dei problemi. E’ stata, infatti, ancora l’ONU, nel 1987, con la commissione per lo sviluppo e l’ambiente presieduta dalla signora Brundtland, a trovarla proponendo l’idea dello sviluppo sostenibile.

 

Lo sviluppo sostenibile

Questa idea, consacrata nella seconda conferenza mondiale per l’ambiente tenuta Rio de Janeiro nel 1992, non va vista semplicemente come compromesso tra sviluppisti e antisviluppisti, che potrebbe allora essere vissuto come un effimero armistizio tra parti avverse.

Piuttosto essa è lo stato di avanzamento della coscienza collettiva di quanto rappresenti l’ambiente negli interessi dell’intera umanità. Per questa via, infatti, si è scelto di subordinare lo sviluppo alla sua sostenibilità da parte dell’ambiente. In questo senso anche l’occupazione è una subordinata. E d’altro canto, ci è chiaro che un posto di lavoro che fa i conti con le esigenze dell’ambiente è più difendibile di uno che se ne infischia.

Il contributo dato dall’Unione Europea, sia alla formazione della risoluzione della commissione Brundtland, sia alla sua affermazione nella conferenza di Rio, è stato molto più significativo ed importante che in passato, assumendo anche posizioni in contrasto con gli interessi USA.

La questione del Protocollo di Kyoto ne offre ampia dimostrazione. Non si tratta, però, di un atteggiamento teso a danneggiare un Paese, bensì a fargli assumere maggiore responsabilità sull’argomento. D’altronde, anche se il governo USA non firmasse, le sue maggiori aziende, non petrolifere o del carbone, hanno già scelto, liberamente e volontariamente, politiche di risparmio energetico o di fonti energetiche alternative meno costose, che vanno appunto nella direzione delle politiche del Protocollo.

L’atteggiamento europeo deriva, infatti, dall’accumularsi di esperienze di grande valore in ogni campo, anche grazie a nuove idee sul da farsi e a tecnologie più avanzate in ogni campo. Ma, soprattutto, con l’affermarsi di un pensiero nuovo derivante dalla pratica costante di un principio: se è l’attività che crea il problema, l’attività stessa può risolverlo.

L’esperienza dei programmi triennali per l’ambiente ha dato, in questo senso, molti risultati in Europa. E il sesto programma contiene ipotesi di lavoro non più solo orizzontali (vale a dire tematiche riguardanti tutti, come: rifiuti, acqua, aria, etc.) ma anche verticali (tra queste spiccano: l’industria, l’agricoltura, il turismo) e territoriali (il Mediterraneo, le aree protette, etc.). 

L'impianto della proposta europea, per la tutela ambientale dall'impatto delle attività produttive, richiama i princìpi ispiratori dei sistemi adottati nelle politiche per la prevenzione dai rischi in materia di sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro e di sicurezza alimentare.

La struttura di queste politiche è finalizzata a rispondere complessivamente alle logiche dello sviluppo sostenibile. Il nesso si colloca nella valutazione dei rischi, nel piano di sicurezza e nel programma di miglioramento.

Tali logiche esigono, come base minima, il rispetto delle norme di sicurezza e, come volontario valore aggiunto, l'avvio di un processo di miglioramento continuo che travalichi i limiti delle norme e si predisponga a raggiungere obiettivi di qualità progressivamente più elevati. A questi fini si utilizza l'ausilio sia dell'analisi del rischio, dell'individuazione delle misure di prevenzione e protezione, della programmazione degli interventi e della verifica della loro efficacia, sia della partecipazione dei soggetti interessati, interni ed esterni all'attività dell'azienda.

I differenti obiettivi specifici si connettono tra loro poiché l'oggetto dell'intervento è lo stesso: l'organizzazione del sistema produttivo, l'organizzazione del lavoro di ogni singola azienda e il loro rapporto con l'ambiente (sito, territorio e risorse) e la società.

Le coerenze strutturali di queste politiche, però, andrebbero supportate anche dall'armonizzazione dei sistemi specifici di comunicazione, informazione e linguaggio, al fine di consentire la connessione delle diverse analisi del rischio e la contestualità operativa degli interventi, unificando e semplificando il più possibile le procedure e gli adempimenti.

 

Il problema dei costi.

Generalmente, di fronte alla fluente dinamica evolutiva delle politiche europee di sicurezza e tutela, le organizzazioni imprenditoriali italiane tendono a sottolineare la specificità del sistema produttivo nazionale, caratterizzato da una diffusa presenza di piccole e piccolissime imprese.

I dati di Unioncamere, secondo Confindustria, classificano l'85% delle aziende industriali al di sotto dei 50 dipendenti, il 12% al di sopra dei 51 dipendenti e fino a 200, mentre solo il 2,5% sarebbe superiore a 201 dipendenti e oltre. Per le aziende agricole il dato è di gran lunga inferiore. A questo aspetto viene affiancato un secondo campo di temi, quelli della pressione fiscale e contributiva.

Poste queste premesse, chiedere a questo sistema imprenditoriale semplicemente di reinternalizzare i costi della sicurezza e della tutela, così come pure postulano le norme comunitarie, potrebbe apparire velleitario.

Sottolineato che, non da oggi, ci siamo già fatti carico del problema, ci sentiamo di dire che siamo disponibili alla possibilità di verificare insieme i modi e i tempi di una politica costruttiva in materia. Gli accordi interconfederali dal 1993 in avanti, e da ultimo l'accordo interconfederale con la Confapi, sia pure su materie diverse, ne sono evidente dimostrazione.

In questa chiave, e con le necessarie aperture ai diversi soggetti, pubblici e privati, economici e sociali interessati ai temi dell'ambiente, della sicurezza nei luoghi di lavoro e della sicurezza alimentare, il problema dei costi si porrebbe su basi tutt’affatto differenti da quelle precedentemente esaminate.

Laddove l'avvio di queste politiche fosse concreto e comportasse risultati di effettivo miglioramento, i benefici economici per la spesa pubblica e la minore pressione degli oneri fiscali e previdenziali per le imprese, potrebbero essere parzialmente riconvertiti ai fini di una politica di servizi di supporto e di incentivi premiali per le imprese, le filiere o i territori che realizzassero le migliori politiche preventive o di ripristino ambientale.

Occorre però far funzionare gli strumenti operativi già individuati ed allestire presto i nuovi e specifici.

 

Il territorio

L’idea dello sviluppo sostenibile, applicato all’agricoltura e all’industria alimentare, è un modello di sviluppo che implica la capacità di valutare le potenzialità e le criticità del territorio e la sostenibilità nel tempo dello sviluppo delle attività in esso intraprese.

Il senso del limite è rivolto alla capacità, da un lato di evitare la distruzione di risorse, e dall’altro di realizzare la loro valorizzazione. Nessuna attività umana è potenzialmente più in grado di realizzare questi risultati di quanto possano fare l’agricoltura e l’industria alimentare.

Possono diventare strumenti fondamentali per una nuova politica di sviluppo, caratterizzata dalla sostenibilità ambientale del settore nel tempo, i distretti rurali e i distretti agroalimentari.

I distretti rurali sono aree che presentano un’identità storica e territoriale omogenea derivante dall’integrazione fra attività agricole o di pesca e altre attività locali, e caratterizzate dalla produzione di beni o servizi di particolare specificità, funzionali o aggiuntivi a tali attività, ma sopratutto coerenti con le tradizioni locali e le vocazioni naturali del territorio.

I distretti agroalimentari sono le zone geografiche caratterizzate da una significativa presenza economica e dall’interazione e dall’interdipendenza produttiva delle imprese agricole e agroindustriali.

A questi ambiti vanno applicate particolari attenzioni dalle politiche istituzionali. Le istituzioni vanno quindi sollecitate ad assumere misure adatte allo scopo di:

-         favorire la crescita di servizi finalizzati al sostegno del sistema distrettuale;

-         sollecitare e sostenere l’orientamento organizzativo all’integrazione delle politiche produttive tra aziende e aree agricole, da un lato, e aziende e distretti agroindustriali, dall’altro;

-         sollecitare le aziende del territorio a caratterizzare la tutela ambientale dei siti e delle aree dedicate all’agroalimentare attraverso l’adozione del sistema di certificazione EMAS di sito e di territorio.

-         difendere i siti e le aree dedicate all’agroalimentare, comunque denominate, da inquinamenti ed interferenze esterne, anche esercitando il necessario controllo sulle emissioni idriche e atmosferiche e sugli scarti o rifiuti.

Occorre, tuttavia, richiamare la vostra attenzione su tre temi che non compaiono mai nelle  discussioni sullo stato dell’ambiente nei settori agricoli e agroindustriali, vale a dire:

-         le aziende sottoposte alle norme per la tutela dei cittadini dai rischi di incidente industriale rilevante;

-         le aree a rischio di crisi ambientale, inquinate dalle lavorazioni agroindustriali e sottoposte a bonifica;

-         i terreni agricoli utilizzati male, vale a dire, da un lato mal curati dalle aziende, dall’altro usati quali discariche, per lo smaltimento dei rifiuti di varia origine.

Questi possono essere motivi non espliciti di atteggiamenti negativi in materia di sperimentazione di programmi di miglioramento ambientale. E’ bene che il sindacato territoriale verifichi come stanno le cose e, ove ricorrano le condizioni, si preoccupi di ottenere opportune informazioni sullo stato dei programmi di miglioramento ovvero sui piani di sicurezza, rivolgendosi alle associazioni imprenditoriali ed alle istituzioni locali preposte, e successivamente di far richiedere, da parte del RLS, le informazioni specifiche e dettagliate direttamente all’azienda interessata. 

 

La certificazione EMAS:

a)      di sito è una scelta forte in grado di offrire ampie garanzie sulla qualità del lavoro, dei prodotti, del processo produttivo, dei consumi e del rapporto col territorio praticati dall’azienda.

Infatti, questo sistema di certificazione, a differenza di qualsiasi altro, prevede tre elementi fondamentali:

1)     l’iscrizione nella rubrica pubblica dei siti certificati (ANPA: il mancato rispetto delle procedure o l’incapacità di raggiungere i parametri ambientali prefissati ne causa la cancellazione);

2)     il controllo pubblico periodico continuo (le dichiarazioni dell’azienda devono risultare rispondenti al vero, altrimenti può esserci l’intervento del magistrato penale);

3)     il coinvolgimento dei rappresentanti sindacali e la partecipazione dei lavoratori. 

b)      di territorio, resa possibile dalle modifiche ottenute dall’Italia, nell’ambito delle politiche europee, per aiutare il proprio apparato produttivo a migliorare le performance ambientali, è già stata applicata per distretti industriali più invasivi, quali quelli della chimica, e per il distretto industriale tessile di Prato

Sembra poco credibile che non si possa fare di più e probabilmente meglio in nei settori agroalimentari, tanto più per due motivi: da un alto per l’alta garanzia che un simile sistema di certificazione offre a livello europeo e mondiale per i prodotti e per il nome del territorio, dall’altro in quanto l’EMAS di territorio ha un percorso più lento e prevede possibilità di servizi e incentivi di sostegno.

Sono note, peraltro, posizioni delle organizzazioni imprenditoriali, in merito all’ambiente e alla sicurezza, che in linea generale non solo non contrastano con quelle che abbiamo qua esposte ma in molti casi sono tema di impegno unilaterale e in alcuni sono già programma di realizzazione. Occorre individuarle e contrattare un ruolo partecipativo dei lavoratori e delle loro rappresentanze in queste realtà, ma anche espandere l’iniziativa.

Nei casi di resistenza delle controparti che non abbiano ancora intenzione di praticare queste politiche, ma ancor di più ove si tratti di inesperienza, è opportuno adottare inizialmente sistemi meno complessi e vincolanti di EMAS, quali ISO, UNI o simili.

Infatti, per allargare il fronte delle aziende interessate è necessario utilizzare atteggiamenti e strumenti idonei quali, ad esempio, il metodo applicato nella risoluzione dell’ipotesi di accordo per il 2° biennio del CCNL dell’industria alimentare, che impegna le parti ad esperire in tutte le aziende agroindustriali una procedura di risk assessment in materia di sicurezza alimentare, evitando l’indisponibilità degli interlocutori e l’isolamento di quelle aziende che invece hanno aderito volontariamente alla dichiarazione d’intenti sottoscritta dalle parti al CNEL e riguardanti le filiere ortofrutta, latte, carne e pesce.

 

Come agire contrattualmente.

1) Attribuire al RLS/RSU il diritto di chiedere, nell’ambito dei diritti d’informazione, il “bilancio ambientale”, che dovrà essere reso pubblico dall’azienda e che deve contenere almeno:

-         i consumi di materie prime, di acqua, di energia, di materie e/o sostanze aggiuntive;

-         i risultati produttivi;

-         gli scarti;

-         l’uso e la qualità degli impianti e dei macchinari.

In ogni caso è bene chiedere formalmente notizie anche sui casi di rischio rilevante e di sito inquinato, sia come fatto specifico che come partecipe di un’area a rischi ambientale.

2) Definire accordi aziendali finalizzati alla tutela ambientale nel sito produttivo. In questi casi si può cominciare:

-         dal trattamento delle acque, finalizzato al riuso;

-         da quello dei rifiuti, finalizzato al riciclo, all’uso come ammendanti agricoli o destinati alla produzione di energia;

-         dal risparmio energetico o dall’efficienza energetica degli impianti e dei macchinari.

 

In agricoltura è già attiva una disponibilità delle aziende agricole a farsi carico della tutela ambientale dei propri siti e del territorio circostante.

3) Definire impegni territoriali per richiedere congiuntamente alle Regioni di individuare e codificare gli ambiti di distrettuali (rurale o agroalimentare) in applicazione anche dell’articolo 13 (Distretti rurali e agroalimentari di qualità) del Decreto Legislativo 18 maggio 2001, n. 228.

4) Analoghi impegni vanno definiti per l’applicazione dello stesso D.Lgs 228/01 rispetto:

-         all’articolo 21, riguardante “Norme per la tutela dei territori con produzioni agricole di particolare qualità e tipicità”;

-         all’articolo 3, riguardante “Attività agrituristiche”.

5) Definire accordi di concertazione triangolari, con le istituzioni locali e regionali, le associazioni imprenditoriali e noi (coinvolgendo le strutture confederali), in materia di OGM, manipolazione genetica dei prodotti  alimentari e degli animali.

6) Prevedere accordi sulla formazione riguardanti sia le relazioni tra i soggetti, sia la professionalità degli addetti.