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Il 18
ottobre sarà uno sciopero generale per l'Italia dei diritti e della
coesione sociale; per uno Stato sociale universale e moderno; per una
scuola e una formazione per tutti e di qualità; per uno sviluppo
basato sulla ricerca, l'innovazione ed efficienti infrastrutture di
sistema; per un Sud che non veda interrotto il cammino di una speranza
fatta di lavoro, di reddito, di legalità; per un futuro di lavoro
tutelato per tutti i giovani: un'Italia in cui il valore del lavoro
diventi un valore per tutti.
Sarà uno sciopero contro la modifica introdotta all'articolo 18 con il
Patto per l'Italia. Contro una Finanziaria che non punta allo sviluppo
e all'equità, che prevede tagli dove ci vorrebbero investimenti
(scuola e sanità), che, violando la Costituzione, riduce
finanziamenti, ruoli e poteri di Regioni e Comuni. Contro una
Finanziaria che assicura entrate con un condono fiscale che premia i
disonesti e con cartolarizzazioni che svendono il patrimonio pubblico
per fare cassa, mettono a rischio i beni culturali e ambientali,
stimolano affarismo e corruzione. Contro una Finanziaria che alla
crisi economica in atto non oppone alcun disegno di politica
industriale, di sostegno agli investimenti, di sviluppo per il Sud.
Contro le deleghe che cambiano profondamente, e in peggio, mercato del
lavoro, previdenza e fisco. E contro quelle che destrutturano la
tutela dell'ambiente e della salute nei luoghi di lavoro. Contro lo
stanziamento in Finanziaria di risorse per i contratti del pubblico
impiego inferiori a quanto serve. Contro la conferma di un tasso
d'inflazione programmata all'1,4 per cento, che assesta un ulteriore
colpo alla politica dei redditi e mette in difficoltà l'intera
stagione dei rinnovi contrattuali.
Il Patto per l'Italia era sbagliato e inutile, l'avevamo detto
proclamando questo sciopero generale. A poco più di due mesi dalla sua
firma si è sfaldato, come dimostrano le polemiche tra i firmatari e le
dure prese di posizione delle imprese, soprattutto di quelle
meridionali.
La modifica introdotta allo Statuto dei
lavoratori con il Patto per l'Italia è grave: è stato leso un
diritto che era indisponibile alla contrattazione. Il presidente
di Confindustria l'aveva detto: l'importante è aprire una falla
nella diga dei diritti. Questa falla è stata aperta e avrà
conseguenze rilevanti anche in termini numerici. La modifica non
riguarda solo le imprese con meno di 15 dipendenti che decidano di
assumere: l'articolo 18 infatti non si applicherà in tutte le
aziende di nuova formazione, anche se queste avessero mille
dipendenti. E non ci sarà nessuna decadenza automatica della norma
dopo tre anni.
Nel frattempo il Parlamento continua a
lavorare. E' stata già approvata dal Senato la delega sul mercato
del lavoro (il ddl 848).
Che attraverso nuovi istituti contrattuali (staff leasing, lavoro
a chiamata, lavoro a progetto: una flessibilità tutta dalla parte
delle imprese) rende più precario il lavoro e più debole il
lavoratore.
Che attraverso la normativa sul trasferimento del ramo d'azienda
consente la frantumazione di imprese che, in questo modo, potranno
non applicare più l'articolo 18.
Che dà un totale via libera a operatori privati in tutti i servizi
che riguardano il mercato del lavoro, e rende così impossibile la
costruzione di un vero sistema integrato sul territorio.
Che, prevedendo la possibilità per enti bilaterali costituiti da
sindacati e imprese di gestire i servizi, comporterebbe una
posizione privilegiata per le parti sociali impegnate nella
gestione, facendo dell'adesione al sindacato non più un fatto
libero e volontario, ma quasi un obbligo per trovare lavoro.
Mentre si rincorrono le voci su
possibili interventi sulle pensioni d'anzianità (con l'ovvio
effetto negativo di spingere all'esodo anche chi magari non ne
avrebbe avuto l'intenzione), in Parlamento continua a pendere come
una spada di Damocle la legge delega che, se approvata,
affosserebbe il sistema previdenziale pubblico attraverso il
meccanismo della decontribuzione di 3-5 punti per i nuovi assunti,
che danneggerebbe gravemente i giovani: meno contributi pagati
dalle imprese, con oneri e conseguenze che si scaricherebbero
tutti sui pensionati, quelli attuali e quelli futuri.
Accanto a questo lo scippo del tfr, destinato d'imperio ai fondi
complementari, superando la libertà di scelta del singolo
lavoratore. E la possibilità di essere incentivati a continuare a
lavorare, per chi abbia maturato i requisiti pensionistici, ma
subordinata di fatto alla volontà dell'impresa.
Gli stanziamenti per portare le pensioni minime a un milione di
lire, avanzati lo scorso anno, non serviranno, come aveva promesso
il ministro Maroni, per aumentare la platea dei beneficiari, ma
verranno dirottati per altri scopi. Oltre 5 milioni di pensionati
resteranno inutilmente in attesa del milione promesso.
Con il taglio dei trasferimenti e la
compressione della finanza regionale e locale aumentano i ticket e si
riducono le prestazioni del sistema sanitario pubblico, il cui fondo è
peraltro già sottostimato, dando spazio ai privati, nella logica di un
sistema sempre meno solidale, dove scompare la prevenzione e resta
solo la cura, come merce da vendere. I tagli indiscriminati nel
sistema ospedaliero, già iniziati, sono in questo quadro un ulteriore
colpo assestato alla capacità del Servizio sanitario nazionale di
stare al passo con le esigenze dei cittadini, soprattutto quelli a
reddito medio-basso.
In Finanziaria sono previsti tagli e riduzioni del personale, docente
e non docente. Ma la scelta del governo è stata da subito quella di
non investire sul futuro del paese e di penalizzare la scuola pubblica
per favorire il processo di privatizzazione contenuto nella delega del
ministro Moratti, che cancella nei fatti l'obbligo scolastico.
L'Italia resterà così, tra i paesi sviluppati, quello con il minor
numero di diplomati e laureati. Meno scuola vuol dire maggiore
esclusione sociale, maggiore debolezza di fronte ai cambiamenti,
minore cittadinanza.
Il governo ha destinato una cifra pari a
5,5 miliardi di euro alla riduzione dell'Irpef per i redditi fino a 25
mila euro annui. Questa cifra è comunque inferiore a quanto sarebbe
spettato ai cittadini italiani se si fossero applicate le riduzioni
d'aliquota previste dalla Finanziaria Amato del 2001(2,5 miliardi) e
se fosse stato restituito, come previsto dalla legge, il drenaggio
fiscale del 2001 e del 2002 (3,5 miliardi). Con questa operazione il
governo tenta di mascherare la gigantesca redistribuzione verso i
contribuenti più ricchi, iniziata con l'abolizione della tassa di
successione, proseguita con la sanatoria per i capitali esportati
illegalmente all'estero e che troverà compimento nella legge delega
che sta per essere approvata in via definitiva dal Parlamento. A
fronte di una modesta riduzione oggi per i redditi medio-bassi, che
con questa Finanziaria saranno penalizzati in termini ben più
consistenti dai tagli alla sanità e ai servizi locali, ai più ricchi
verrà dato oltre il 70 per cento del beneficio totale della
contro-riforma Tremonti.
Dopo
mesi di discussioni e un Patto per l'Italia che prevedeva impegni
generici ma nessuna risorsa aggiuntiva, con i provvedimenti assunti
subito dopo il Patto e con la Finanziaria il governo ha ridotto
ulteriormente gli stanziamenti e annullato gli incentivi specifici per
il Mezzogiorno, facendo venir meno qualsiasi quadro di certezza per le
imprese.
Ormai sembra definitivamente abbandonata la logica della qualità
nell'incentivazione alle imprese, che ha rappresentato il tratto nuovo
dell'esperienza dell'ultimo decennio, e si profila un ritorno a
erogazioni discrezionali e clientelari. Mentre, per quanto riguarda le
infrastrutture, si continua a puntare sull'immagine (Ponte di Messina)
invece che sulle vere necessità del Sud.
Non
c'è solo la riduzione dei trasferimenti alle Regioni e agli enti
locali che colpisce la spesa sociale. Tutta la manovra infatti tende a
ridurre il ruolo istituzionale del sistema delle autonomie locali
sancito dalla Costituzione, con un nuovo centralismo che fa tornare
indietro il paese e riduce gli spazi di partecipazione e di
democrazia. E' questa l'idea di federalismo della maggioranza di
governo?