CALAMITA' NAZIONALI

INTEREVENTI DI PROTEZIONE CIVILE DAL 1944 AD OGGI

 

PANDEMIE    
Nel capitolo precedente non abbiamo parlato della influenza che a suo tempo venne chiamata spagnola. Studi recenti hanno portato a classificare la spagnola come l'antenata dell'attuale Aviaria. I ricercatori del Center for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti hanno infatti ricreato il virus H1N1 dell'influenza, che alla fine della Grande Guerra uccise dai 20 ai 50 milioni di persone. Più recentemente, pandemie sempre di origine asiatica, colpirono il mondo con l’asiatica vera e propria della fine degli anni 60 (H2N2 1 milione di morti), la Hong Kong del 1968 (H3N3 quasi la stessa cifra) e la Russa del 1977. A molti, all’epoca, poteva sembrare una pandemia derivata dalla guerra poiché era comparsa agli inizi del 1918 ma con questa non aveva nessuna attinenza se non il fatto che i possibili veicolatori del virus erano i cinesi e vietnamiti che sbarcarono in Francia a sostituire nelle campagne e nelle miniere gli uomini al fronte. La guerra aveva fatto il resto prestando una popolazione sfiancata dalle restrizioni. L’influenza venne chiamata spagnola perché si diffuse inizialmente (primavera 1918) nella penisola iberica ma non attecchì e dopo pochi mesi sembrava sparita. La chiamavano la malattia dei tre giorni, perché se passavi quelli potevi dirti fortunato. Dopo una seconda ondata autunnale, agli inizi del 1919 la terza, la più devastante. In sei mesi, tra la fine dell’ottobre 1918 e aprile 1919 la “spagnola” colpisce un miliardo di persone uccidendone quasi 50 milioni: 350.000 in Italia, in gran parte giovani (la metà dei morti già avuti in guerra, ma fra i militari non ne fece molti). Decessi in Usa 300.000, Russia 450.000, Inghilterra 225.000, India 12.000.000. In Italia si sparse la voce che il disinfettante dato nelle strade dalla nettezza urbana veicolasse i germi del male secondo un piano segreto del governo Orlando atto a ridurre la popolazione. I raccolti marcivano sui campi, le frontiere erano chiuse come lo erano i teatri e tutti i luoghi di ritrovo. I rimedi spaziavano dalla fantasia più assoluta allo sciroppo Proton che all'epoca sembrava essere il rimedio a tutto. Il rimedio più efficace risultò essere una mascherina sulla bocca che evitava, in caso di tosse o starnuto, la diffusione del morbo. C’è anche chi dice che i più li abbiano ammazzati i medici con le loro cure. Oggi c’è chi dice che il mondo è più attento e preparato per prevenire la pandemia, ma a differenza d’allora merci e persone viaggiano più velocemente. Chi arriverà primo ?  

VESUVIO

 

 

 

 

La prima parte delle calamità si era chiusa col terremoto dell’Irpinia del 1930. Durante la guerra, con gli americani già a Napoli (vedi sotto la pulizia d un aereo ? ricoperto dalle ceneri), il Vesuvio diede spettacolo esibendosi in una delle sue grandi eruzioni. Manifestazioni minori si erano già avute negli anni della grande guerra, poi nel 1926 con replica 3 anni dopo. Il 12 agosto 1943, presagio forse degli imminenti avvenimenti che sconvolgeranno l’Italia (e la città un mese dopo) la lava riprende a sgorgare. Il 6 gennaio 1944, come abbiamo detto con gli americani già insediati a Nord sulla linea Gustav, il flusso di lava aumenta. Dopo una breve pausa, il 13 marzo si innesca l’eruzione che si intensifica dal 18 al 23 con colate che minacciano i centri abitati di S.Sebastiano e Massa di Somma. Scorie e lapilli più leggeri raggiungono le massime altezze per ricadere nella zona dell’Agro Nocerino-Sarnese, mentre le ceneri, muovendosi anch’esse verso Est e Nord-Est, si spingono fino a centinaia di chilometri di distanza dal Vesuvio. A causa dell’eruzione persero la vita 26 persone, per il crollo dei tetti appesantiti dalla cenere o perché investiti dalla pioggia di lapilli (12 a Napoli, 9 a Pagani, 3 a Terzigno); 2 bambini di S.Sebastiano e Massa di Somma morirono per l’esplosione di una cisterna surriscaldata al passaggio della lava.

 

  Il nostro Paese, in una statistica curata da Lega Ambiente, è stato colpito dal 1918 da 5358 alluvioni e 11455 frane. Metà dei Comuni (4.052) sarebbe o è a rischio inondazioni. Due terzi dei comuni (5.400) vivono sotto la spada di Damocle delle frane. Un italiano su due (28 milioni) abita in zone pericolose. Dal dopoguerra al 1990 oltre 4500 Comuni sono stati colpiti da calamità naturali. Bilancio: 7.688 vittime - quasi 15 morti al mese - e 800 mila sfollati.

Le grandi alluvioni del 1951: (Sardegna, Sicilia, Calabria, Polesine)

L’autunno coi suoi cicli piovosi, anche intensi si era presentato in anticipo. Durante tutto l’arco dell’anno le precipitazioni copiose o il disgelo avevano impregnato il terreno che non sarebbe più riuscito ad assorbire nulla. Temporali estivi avevano fatto danni nel meridione (Gargano luglio poi altri 7 morti a Muro Lucano in una casa scoperchiata dal vento). Già dal 18 ottobre le piogge al Sud avevano provocato 21 morti a Reggio Calabria per il crollo di un palazzo e 7 in Sardegna nella rovina di una serie di abitazioni «volate» via in circostanze analoghe. Dal 7 al 12 novembre piove incessantemente su tutta l’Italia del Nord. Allagamenti si verificarono in Piemonte e Liguria, mentre diciotto persone persero la vita nel Comasco per il crollo di case. Le prime avvisaglie si ebbero in un affluente reggiano, il Crostolo che non riuscì a scaricare nel Po e allagò Gualtieri. Da quel momento tutti i grossi centri rivieraschi (Cremona Mantova etc) e le campagne sono a rischio, perché gli affluenti ingrossati non riescono più a scaricare. A Occhiobello si è lavorato giorno e notte per arginare quella piena che sta scendendo inarrestabile ma il 14 cedono gli argini, tre squarci. Tutte le terre a valle sono a rischio, 38 comuni da sgomberare, da mettere in salvo da quelle falle che scaricheranno otto miliardi di metri cubi d’acqua. Per prosciugarla tutta occorreranno 6 mesi. Muoiono il bestiame da stalla e da cortile in quelle aeree già povere di suo, vanno sotto stalle, fienili e civili abitazioni. L’opera di soccorso per evacuare 160.000 persone va in tilt. Chi è stato previdente è salito sui tetti sperando che l’acqua non arrivi li, e li passa la notte e il giorno dopo in attesa di qualcuno che non arriva mai. Le bestie legate o libere galleggiano morte sull’acqua melmosa. Molte delle ottantotto vittime morirono così, perché il livello dell’acqua aveva superato quello del loro rifugio o per aver perduto l’equilibrio scivolando nella melma. Oltre quaranta fuggiaschi, donne e bambini in gran parte, persero la vita a bordo dell’autocarro su cui erano fortunosamente saliti e che fu sommerso dalle onde in località Rezina di Frassinelle. Qualcuno trascorrerà anche 2 settimane fra i tetti e sottotetti, prima di vedere defluire le acque. Quasi centomila ettari di campagna sono allagati con 52 ponti crollati e argini distrutti per 60 km. Il 20 la piena raggiunge l’Adriatico che per fortuna riceve. La catena della solidarietà in un paese che porta ancora le pezze al culo per la guerra si mette in moto. Sottoscrizioni anche modeste furono promosse da enti privati e pubblici, centinaia di volontari si precipitarono nel Polesine da ogni regione, armati di pale e di solidarietà e le parrocchie organizzarono raccolte di indumenti e cibo. Proprio a seguito di tale disastrosa alluvione, migliaia di persone abbandoneranno il Polesine, dando vita alla prima ondata di migrazione del dopoguerra verso le città industriali e verso l’estero.   Alluvione in Calabria 22 ottobre 1951: 100 vittime
Esondazione del PO nel Polesine 14 novembre 1951: 88 vittime
Alluvione Salerno 26 ottobre 1954: circa 300 morti
Diga del Vajont 9 ottobre1963: 1800 vittime
Alluvione di Firenze 1966: 35 vittime
Terremoto del Belice 1968: 300 vittime
Alluvione nel Biellese ed Astigiano 1968: 72 vittime
Alluvione a Genova 1970: 25 vittime
Terremoto in Friuli 6 maggio 1976: 970 vittime
Colera a Napoli 28 agosto 1976: 32 vittime
Alluvione a Trapani, 5 novembre 1976:13 vittime
Alluvione Val d' Ossola Piemonte 9 agosto 1978: 18 vittime
Terremoto in Irpinia 1980: 2750 vittime
Frana di Stava 1985: 360 vittime
Straripamento dell’Adda -Valtellina, 18 luglio 1987:
pioggia e frane cancellano 60 dei 78 paesi della Valtellina; Morignone e Sant'Antonio Morignone sono completamente distrutti, 53 vittime
Alluvione in Piemonte 1994: 70 vittime
Terremoto in Umbria 1997: 12 vittime
Frana e alluvione di Sarno 5 maggio 1998: 150 vittime
Terremoto in Molise - San Giuliano 2002: 30 vittime nel crollo di una scuola non a norma

 


 

 

DIGA DEL VAJONT

   
ARGENTO Valor Civile (D.P. 18 maggio 1964) "Temprato ad ogni arditezza e sacrificio, l' 8° Reggimento Bersaglieri, in nobile e fraterna gara con altri Reggimenti dell'Esercito, ha scritto, nel soccorrere, tra insidie e disagi innumeri, le popolazioni colpite dal disastro del Vajont fulgide pagine di generoso altruismo e di eroica abnegazione." Vajont Longarone

 

   …..Conservo un ricordo netto e pesante quanto i sassi del Piave. Giorgio Lago
Appena un mese prima, a Milano, avevo cominciato il mestiere di giornalista, e il direttore mi lasciava tornare una volta ogni quindici giorni nella mia Castelfranco Veneto per non farmi morire di nostalgia. Al ritorno, la sera del 9 ottobre, ritrovai i soliti amici al solito bar del biliardo, il Caffè di Mezzo, dove si poteva fare notte fonda anche dopo la chiusura. Quando la radio raccontò che dalle parti di Longarone era successa la fine del mondo, decidemmo di correre a vedere. Con me salì Renzo B., altro nottambulo della nostra combriccola. A Ponte nelle Alpi, carabinieri e poliziotti ci fecero mollare la macchina. Prendemmo al volo due biciclette parcheggiate in una falegnameria e pedalammo gli ultimi dieci chilometri spinti dalla curiosità, dal mistero, dalla paura. Di colpo capimmo: ai lati della strada animali annegati; vacche gonfie di acqua penzolavano perfino dalle travi dei secondi piani di case sventrate, tagliate a metà dall'invisibile mannaia d'acqua calata dal cielo che attorcigliò e segò i binari della ferrovia quasi fossero tagliatelle fatte in casa. Da Fortogna in su, i soldati caricavano sui camion militari i cadaveri, a mucchi. Il vento e il diluvio li avevano denudati tutti, di tutto. Stavano dappertutto; venivano tirati giù anche da esili alberi rimasti in piedi chissà come ai lati del greto del Piave. Longarone era una pianura di sassi, sepolta dai ciottoli del fiume sacro alla Patria. Sotto il sole, potevo cogliere le stesse tonalità del grigio che avrei poi visto in un celebre quadro nel maggiore museo di New York: "Guernica", dedicato da Pablo Picasso alla città basca rasa al suolo per esercitare la nascente aviazione nazista. Era tutto morto, sulla spianata di Longarone. Si camminava ignari sopra case inghiottite dalla ghiaia. Qua e là affioravano brandelli di vita sommersa, una pipa, una coperta a fiorellini, la spina della televisione che aveva appena trasmesso la partita di Coppa dei Campioni, uno scialle di lana fradicio, due pagine lacerate di sillabario ancora tra le dita di una bambina senza vita sul suo lettino. «Che Dio ce la mandi buona...», aveva scritto proprio quel giorno, soltanto qualche ora prima della catastrofe, il direttore generale della Sade (la società che gestiva l’invaso).A volte gli uomini chiudono gli occhi, davanti a ciò che li spaventa. Non erano sbagliati i calcoli sulla tenuta della diga. Era sbagliata la cultura di riferimento, che aveva dimenticato l'habitat, le dinamiche della natura, l'antica sapienza montanara. Anche la cautela della scienza. ..Giorgio Lago
     
     
     
     
     
     
     

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