Racconti

IL PONTE DI FERRO

Tornando indietro, per quella strada che mi aveva portato fino a quel punto, immaginai di poter percorrere un’altra strada, forse più sfumata, come quelle che si incontrano nei centri storici delle cittadine di mare, oppure come quelle dei paesini di montagna; i viottoli scoscesi, le stradine ripide che terminano in un spiazzo, circondato da case rosa e verde acqua, con le finestre fiorite ed i balconcini in ferro battuto, che danno l’idea che la gente che vi abita sia molto felice e allegra. Ripensando, forse avrei voluto percorrere, nella mia vita, quelle stradine e quei vialetti, forse più facili, forse più felici.

Una voce interruppe i miei pensieri, facendomi rientrare nella dimensione reale, quella dimensione che a volte fa paura, quella che fa precipitare la gente nel vuoto ora effettivo, ora allucinatorio, ma pur sempre realmente sconvolgente e folle da far ritenere giusto l’ultimo salto, per fermare l’avanzata di quei ragni che graffiano la mente di chi soffre credendo di vivere. La voce proveniva dalla parte più buia del ponte. Quel ponte ha sempre evocato in me paura e ammirazione; ora non esiste più, ma nei miei ricordi da bambino è di ferro bruno, grande, che separa la parte gentile della città, da quella maleducata e insolente, quella da cui mia nonna mi diceva, mentre mi pettinava facendomi la riga da una parte, di starne lontano poiché mi avrebbe portato sulla cattiva strada.

Quella parte di città, con le sue palazzine a schiera, la ricordo dai colori cupi e sordi con tracciati impauriti, opprimenti e tuttavia mi attirava, stregava la mia curiosità bambina, tanto mi affascinava quel mondo che a me appariva senza misura e scapigliato, un mondo dove i bambini non avevano, se non qualcuno, la riga da una parte. Il cantiere navale che esisteva nei pressi del ponte, era poi per me un territorio nemico dove passare le mie giornate seducenti e viziate a caccia di posti, segreti e improbabili, laddove il mondo degli adulti aveva già scoperto ogni cosa, e per noi bambini, invece, tutto era celato e segregato al nostro capire e al nostro essere. E’ strano come quel luogo nella mente non cambi. Percorro di frequente la strada che costeggiava il vecchio ponte; lui non esiste più, e tuttavia lo vedo ancora così come era tanti anni fa, graffiato dai pennelli neri e rossi di incerti pittori e poeti, e calpestato da musi giudicati deformi e sgraziati.

Quella voce la sento spesso.

Da bambino era tutto o quasi: contava i miei passi e ogni pietra che calpestavo, mi leggeva le storie della vita, volava con me alla ricerca di Dio.

Ora è parte di me; senza che io lo sappia mi guida verso l’immagine del vecchio ponte di ferro bruno, per trovare quell’umanità cresciuta, con i capelli arruffati, i pantaloncini calati, per imparare, forse, a vivere.

 

LA PRIMAVERA

Nell’aria sentivo già il presagio della primavera. Dalla finestra della mia camera avvertivo e afferravo quasi il suo profumo; forse era solo l’odore di erba tagliata di fresco, ma mi soddisfaceva l’idea di saper prevedere il suo arrivo con mesi di anticipo sul calendario normale. Come ogni sera la aspettavo, fumando aspramente la mia giovane sigaretta, che invecchiava molto in fretta consumata dai miei polmoni incauti ed inesperti. L’incertezza guidava quei nostri incontri; il pensiero correva al nostro futuro gongolante e beato, e ci rifugiavamo nei flashback e nelle reminiscenze da bambini, con la mente confusa e appannata dall’imminente.

Quella finestra era diventata mia col tempo: con il tempo avevo conquistato quell’area vitale che prima non mi apparteneva…ripensando al periodo in cui vivevo senza spazio, dove tutto era già prestabilito, ora rimpiango ciò che vedevo attraverso quel rettangolo vitale. Era sempre buio in quell’età maldestra, quando da lì cercavamo di scrutare il mondo. La notte era parvenza di vita, poiché di giorno, lei, perdeva ogni dubbioso fascino, ogni melanconico potere. Il giorno depredava e saccheggiava le nostre giovani menti, ma quando la notte, scalciando il cielo avanzava, noi ci aprivamo, protetti dalla nostra amica, che incorniciandoci ci cresceva. Alla sua ombra articolavamo parole, strombettando problemi e amori quasi inesistenti, ma lei che tutto capiva e comprendeva, ci amava quasi, e sicuramente non ci giudicava.

Noi volevamo divenire qualcosa di diverso dal resto di quelle persone che ci circondava; forse in quel periodo credevo ancora, che fuori dal mio sguardo, loro potessero divenire mostri cruenti. Volendo scimmiottare loro, eterni e immensi, scivolavamo nel nostro divenire come cloni creati in un laboratorio di genetica… non volevo essere così, non volevo apparire mesto e ampolloso come certi maschi di mondo… volevo essere uomo, volevo volare lungo una pista vitale, volevo ghermire gli agnelli, crescere nel nido forte e alto di qualche aquila reale; come nella realtà quando un pulcino impara a volare, così io cercavo di sbattere le ali per raggiungere un qualcosa che mi attraeva. Non sapevo cosa fosse… né, forse, volevo saperlo. Tuttavia …

 

LA VITA

Era andata via. Mi trovavo in una situazione a dir poco critica. Non sapevo se fossi riuscito ad uscire da quello stato d’animo così tondo.

La stanza in cui ero aveva le pareti lisce e sembrava quasi che fossero curve verso di me: un ritmico battito pervadeva ad eco quella che all’inizio mi sembrava una stanza… non ne ero più tanto sicuro. Non sapevo perché era andata via… forse un guasto, ma ciò era strano… una macchina così perfetta.

Comunque ora iniziavo a stare bene; era caldo quella specie di involucro in cui abitavo, ed era un senso di sicurezza quello che iniziavo a provare… poi l’oblio.

Un'altra memoria stava sopraggiungendo… una memoria che sostituiva la prima:

un raggio di luce ora squarcia quell’involucro che prima era una stanza.

Era tornata.

 

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