Tra le botteghe di Via San Gregorio Armenoi preparativi del presepe.


la Fiera dei Pastori in  Napoli      da novembre 2001 a febbraio 2002

Nel centro storico di Napoli, presso la direttrice di Spaccanapoli, c’è la via di San Gregorio Armeno. E il nome non può che farci venire in mente una cosa: ‘o presepio. E’ qui infatti, nelle vicinanze della famosa Chiesa, che si tiene a partire da novembre un vivacissimo e caratteristico mercato delle statuine del presepe di ogni materiale, dimensione e soggetto. La tradizione è antichissima: con grande libertà potremmo addirittura farla risalire a greci e romani! Infatti, la Chiesa di San Gregorio Armeno fu edificata sui resti di un tempio dedicato a Demetra - Cerere: alla dea era d’uso donare una statuina di terracotta. Quegli ex-voto impastati con l’argilla venivano realizzati nel reticolo dei vicoli napoletani, tutt’intorno alla zona che oggi fa capo alla celebre via. Considerare le figurine pagane, dette stipi votive, antenate dei pastori da presepio è certo un azzardo, tuttavia rimane il fatto che ancora oggi, proprio qui, si continua la stessa tradizione artigianale. San Gregorio Armeno, con le sue botteghe e bancarelle, è il luogo simbolo del Natale napoletano, meta obbligatoria di una passeggiata alla ricerca del nuovo pezzo da collocare.
Fu la diffusione dell’arte della ceramica e l’uso di nuovi e ricchi materiali a dare impulso a Napoli alla tradizione del presepio. Tutto si deve al Settecento, secolo d’oro delle arti napoletane, legato al mecenatismo di Carlo III Borbone. Il presepio napoletano nacque dalla fantasia popolare, per allietare le feste natalizie dei borghesi, dei patrizi e della corte reale. Si racconta, infatti, che fu proprio Re Ferdinando a inaugurare la tradizione di onorare i più bei presepi della città, facendo visita in pompa magna a quello del Principe d’Ischitella nel Natale del 1788. Le statuine sono piccole figure che esaltano il popolo diseredato dei cafoni affamati, strabici, gozzuti e sciamannati, compresi oggi i personaggi dell’attualità e della politica. La tradizione viene portata avanti da famose famiglie di artigiani e non solo: molti scultori, infatti, si sono dedicati al presepio. A San Gregorio Armeno si concentrano anche i restauratori di bambole e statue, soprattutto a carattere sacro. Per la Fiera dell’arte presepiale l’associazione New tech & Old Craft per il natale 2001 organizza l’allestimento di circa 30 stand lungo la via, che esporranno presepi, pastori e addobbi natalizi artigianali, mentre i negozi esporranno fuori alle loro botteghe – laboratori splendidi prodotti artigianali. Per tutto il periodo l’associazione organizzerà visite guidate presso i laboratori degli artigiani di San Gregorio Armeno. E poi concorsi e manifestazioni musicali. Per coloro che a Napoli non riusciranno ad arrivare, New tech & Old Craft ha inoltre organizzato, con la Confesercenti di Napoli e di Prato, una fiera di pastori e presepi dell’artigianato tipico di San Gregorio Armeno proprio a Prato, per il 14, 15 e 16 dicembre. Qui verranno allestiti quattro presepi costruiti dai migliori artigiani di Napoli, che troveranno la loro giusta collocazione in quattro chiese di Prato, ovvero Santa Maria delle Carceri, la Chiesa di San Francesco, quella di San Domenico ed infine il Duomo.

La caratteristica strada dell’artigianato presepiale è Via San Gregorio Armeno. Una strada detta platea nostriana  perché qui il quindicesimo vescovo di Napoli, San Nostriano, fece costruire le terme per i poveri. Il vescovo Agnello invece vi edificò la prima basilica all’interno della città dedicata a San Gennaro. Questa chiesa è ancora oggi visitabile, seppure interamente modificata durante i secoli. La strada ha mantenuto nei secoli una straordinaria vitalità: è un luogo cardine di Napoli, capace di connettere il vero centro della città antica, oggi identificabile in parte con piazza San Gaetano, con le principali arterie, come via San Biagio dei Librai e via Tribunali. Potremmo definirla come il centro artistico e culturale di un tempo: nel passato qui si susseguivano le botteghe di artisti, pittori, scultori, argentieri, intagliatori, doratori, che con la loro sapiente arte hanno reso famosi chiese e palazzi. E bisogna ricordare che nei pressi di questa strada, a via San Biagio dei Librai, in un palazzo in cui si accede oggi anche da San Gregorio, un libraio diede i natali a Gian Battista Vico. Più avanti, presso piazza san Domenico Maggiore, una lapide ricorda la dimora di Francesco de Sanctis; a Palazzo Filomarino, inoltre, visse lo stesso Benedetto Croce. Ma San Gregorio Armeno va ricordata soprattutto per la fiorente produzione di pastori in terracotta. Ed ecco i Ferrigno, i Giannotti, i Maddaloni: tutti di antica tradizione familiare. Moltissimi ogni anno i visitatori, le scolaresche, gli appassionati che da tutto il mondo arrivano ad affollare la via, che per la Fiera dei Pastori di Natale si carica di un’atmosfera di grande fascino.
Non può mancare inoltre una visita alla Chiesa di San Gregorio Armeno, legata alla devozione popolare verso moltissimi santi e che raccoglie un gran numero di reliquie. Particolare rilevanza ha qui il culto delle reliquie del sangue, variamente soggette a liquefazioni o rosseggiamenti in certe ricorrenze tradizionali, come per San Protaso, San Pantaleone, Santo Stefano, San Lorenzo, Santa Patrizia, San Girolamo e San Giovanni Battista. La costruzione ebbe
inizio nel 1574, anno in cui la badessa Donna Giulia Caracciolo pensò all'erezione di una nuova chiesa, che fu consacrata nel 1579 e l'anno successivo dedicata a San Gregorio, come ricordano le iscrizioni dell'atrio. La facciata presenta tre arcate a bugno di piperno, sormontate da quattro lesene toscane con fregio dorico e tre finestroni. Si accede all'interno mediante un portale di noce con intagli a rilievo dei quattro evangelisti e dei Santi Stefano e Lorenzo. La chiesa è ad una sola navata, con cinque arcate per lato, alternate a pilastri compositi. L'interno fu affrescato da Luca Giordano nel 1679, in occasione del primo centenario della sua costruzione. Sul muro d'ingresso è narrato in tre scene l'arrivo delle monache greche a Napoli. Lateralmente possiamo notare due quadri  di Silvestro Buono, che raffigurano i santi Girolamo e Francesco dinanzi alla Vergine e l’Immacolata. Tra i finestroni ammiriamo scene della vita di San Gregorio affrescate dal Giordano. Alcune delle cappelle conservano colonne corinzie di marmo rosa appartenenti alla veste cinquecentesca. Nella prima a destra ammiriamo un'Annunciazione attribuita a Pacecco de Rosa, un'antica statua di San Donato in legno colorato ed un'altra di Santa Apollonia. Nella seconda cappella vi è una tela raffigurante la Vergine con i Santi Pantaleone ed Antonio, attribuita al Sarnelli. La terza cappella è dedicata a San Gregorio Armeno: sull'altare vi è una tela opera di Fracanzano. La quarta cappella conserva una tela di Niccolò Malinconico, rappresentante la Vergine del Rosario tra due santi. Dal lato opposto, la cappella accanto all'organo è dedicata a San Benedetto: la tela che lo raffigura è attribuita al maestro spagnolo Ribera. Interessante una miracolosa immagine del Cristo, scultura lignea del tardo quattrocento che pare appartenesse alla vecchia chiesa e che Pane definisce "immagine drammatica e splendida". Magnifico è l'altare maggiore, opera di Dionisio Lazzari, la cui balaustra rappresenta un mirabile esempio dell'artigianato partenopeo per i trafori in marmo bianco. A destra si nota una grande raggiera di ottone che sormonta una grande tripartita, superba realizzazione dei maestri ottonari napoletani. E’ il "comunichino della badessa" dietro il quale le monache ascoltavano la messa. Da notare anche il soffitto ligneo che fu iniziato nel 1580: intagliato e dorato, contiene pitture di Teodoro Fiammingo. Bella anche la sacrestia dalla volta affrescata di De Matteis e definita una “stanza di paradiso in terra”, tra lo splendore degli arredi e degli argenti.


QUATTRO PASSI DA PIAZZA SAN DOMENICO MAGGIORE A PIAZZA GARIBALDI

Da piazza San Domenico Maggiore, proseguendo il percorso del decumano inferiore, si giunge nella piazzetta Nilo, il sito urbano in cui venne sistemata una statua che, ritrovata nel Quattrocento mutilata del capo, fu completata nel 1657 con una testa barbuta (la si può vedere nel largo Corpo di Napoli). Sulla destra della piazza è la chiesa di Sant'Angelo a Nilo, detta anche "cappella Brancaccio" dal nome del nobile Rinaldo Brancaccio.

L'interno della Chiesa
Sant'Angelo a Nilo

Lungo il vico Donnaromita, sul retro della chiesa, si incontra, al civ. 15, il palazzo Brancaccio con portale durazzesco e inconsueto e raccolto cortile.
Sullo sfondo del vicolo appare con i suoi embrici colorati la cupola della chiesa di Santa Maria Donnaromita (1540-1550) e, immediatamente dopo il palazzo Brancaccio, si individua un portale, quello dell'ex convento a cui faceva capo la chiesa (civ. 50; chiusa).
L'atrio a cui si accede da quest'ingresso laterale (civ. 13) ha pianta ottagona, è coperto da una scodella ovale, ma è stato notevolmente alterato, come le restanti strutture conventuali, dai lavori eseguiti è per adattare gli ambienti a nuove funzioni.
Il convento fu fondato da un gruppo di monache fuggite da Costantinopoli nel periodo delle persecuzioni iconoclaste (VIII secolo), sfruttando l'antica diaconia di Santa Maria del Percejo. Dalla definizione usata per appellare le suore ("donne della Romania", poi "Romite di Costantinopoli") deriva il nome di Donnaromita.

Il percorso prosegue scendendo lungo la via Paladino che, diversamente dalla via Mezzocannone ampliata durante i lavori ottocenteschi, conserva ancora l'antico tracciato del cardo romano. La strada aveva enorme importanza in età ducale perché conduceva al colle di Monterone dove sorgeva il palazzo del duca.
Il civico 38 corrisponde alla chiesa del Gesù Vecchio, denominata anche del Salvatore per distinguerla da quella del Gesù Nuovo in piazza San Domenico Maggiore. Il progetto dell'opera è tradizionalmente attribuito al padre Pietro Provedi che, morto nel 1596, non poté sovrintendere alla sua esecuzione.

Alla fabbrica religiosa è annesso il cortile del Salvatore chiamato "delle Statue" da quando, adibito a biblioteca, è stato impreziosito dai busti dei più illustri accademici partenopei), uno dei primi chiostri controriformistici realizzati a Napoli.

Risalendo via Paladino sulla sinistra, al civ. 20, leggermente arretrati rispetto al filo stradale si trovano la chiesa e il monastero di Santa Maria di Monteverginella, sorti nel 1314 sul luogo in cui era il palazzo del giurista Bartolomeo Di Capua, I restauri settecenteschi, di gusto rococò, vennero in gran parte manipolati, semplificati e ridotti agli effetti cromatici creati dal bianco e dall'oro ad opera di Gaetano Genovese, nel 1843.

Al termine della strada è, invece, ubicata la chiesa dei Santi Andrea e Marco a Nilo, (civ. 52; chiusa) assai rinomata perché fu una delle prime diaconie della città. Sulla facciata, leggermente arretrata rispetto al filo stradale, decorazioni settecentesche in stucco hanno occultato tracce di antiche strutture paleocristiane; è articolata su due ordini, raccordati da elaborate volute aggettanti, e presenta un portale marmoreo sormontato dal medaglione con i busti dei santi a cui la chiesa è dedicata.
                           

                                 Largo Corpo di Napoli:la statua del Nilo e 

                                   la cappella  di Santa Maria  del Pignatelli

 

 

 

 

 

Risalendo via Paladino si torna nella piazzetta Nilo in fondo alla quale si possono osservare il palazzo Pignatelli di Toritto (civ. 12) e l'annessa cappella di Santa Maria dei Pignatelli (chiusa), illustre famiglia patrizia napoletana. Sul prospetto del palazzo un piccolo ordine di paraste corinzie cinquecentesche è abbinato a volute e decori di gusto tipicamente barocco.

Inoltrandosi nella stretta via Nilo, uno dei cardines romani, al civ. 26 si trova il palazzo Beccadelli, detto del Panormita, dal soprannome del celebre umanista Antonio Beccadelli che ne curò la realizzazione fino al 1471, anno della sua morte.
Il progetto dell'edificio si deve al Di Palma, quello del portale di ingresso al Mormando.
Negli altri edifici di via Nilo si possono ammirare particolari d'architettura di grande interesse: una scala cinquecentesca con archi in pietra; un piccolo atrio coperto da due crociere, risalente all'epoca angioino-durazzesca; un arco durazzesco, una originale scala con prospetto curvo bucato da grandi arcate, al civ. 30.
Proseguendo il cammino lungo la stretta e brulicante via San Biagio dei Librai, che fu un tempo, come ricorda il suo nome, il centro del commercio libraio napoletano, si incontra, all'incrocio con via Nilo, il palazzo Carafa di Montorio (civ. 8), sul quale, prima di passare nelle mani del marchese di Alfedena, era scolpito uno stemma cardinalizio.
Tra un capolavoro di architettura civile e un significativo edificio religioso si incontrano le caratteristiche abitazioni napoletane, i bassi, presenti, purtroppo, non solo nel centro storico, ma in ogni vicolo di antica fondazione.
Si tratta di piccole e anguste stanze, ricavate nei locali seminterrati degli edifici, originariamente destinate a botteghe; il loro ingresso è segnato molto spesso da un'edicola votiva, da corde con panni stesi, e soprattutto dalla presenza degli stessi abitanti che per bisogno di aria e luce sono costretti a vivere per strada. Molto spesso sono anche sede di preziose attività artigianali: vi si fabbricano fiori di carta (particolarmente tra via San Biagio dei Librai e via Duomo, si riparano oggetti antichi, si restaurano sedie impagliate o si confezionano calzature e oggetti in pelle.

Percorrendo via San Biagio dei Librai si può ammirare, al civ. 121, uno dei più notevoli edifici rinascimentali della città: il palazzo Carafa di Maddaloni, detto poi Santangelo.

Di fronte al palazzo di Diomede Carafa é la movimentata facciata settecentesca della chiesa di San Nicola a Nilo. Fu realizzata nel 1705 su progetto dell'architetto Giuseppe Lucchesi, come cappella annessa a un orfanatrofio femminile fondato nel 1646.
La facciata, arretrata per la particolare composizione della scala, mostra, sui muri laterali, due grate, attraverso le quali le monache potevano spiare l'ambiente circostante.
E composta da due ordini raccordati da volute: in quello inferiore emergono due colonne corinzie, inclinate rispetto al filo della parete.

Accanto alla scala barocca in piperno, a due rampanti curvi, e nel vano ricavato al di sotto del pianerottolo sono attive, come attesta la lapide posta sui rispettivi ingressi, sin dal 1706, tre botteghe dove, ancora oggi, è possibile trovare preziosi oggetti di antiquariato.

Sul versante destro della strada, al civ. 118, leggermente arretrata, si incontra la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo sorta, insieme all'annesso conservatorio, nel 1593, per opera dei mercanti e tessitori della seta nel luogo in cui esisteva un palazzo di proprietà dei principi di Caserta.

Pochi gli elementi superstiti della struttura cinquecentesca, notevoli, invece, i decori barocchi e tardo-settecenteschi.

Si percorre il vicolo Santi Filippo e Giacomo e si raggiunge il largo San Marcellino, sul cui versante sinistro sorge il palazzo Carafa d'Andria (civ. 15), attualmente destinato a scuola professionale femminile che sul fianco destro presenta elementi decorativi gotico-catalani.

Per avere un'idea di quanto gli interventi della Controriforma abbiano mutato l'aspetto del centro antico, e quanto le manipolazioni più recenti stiano stravolgendo le caratteristiche dei monumenti più pregevoli, è indicativo il caso del complesso conventuale dei Santi Marcellino e Festo, sede del Museo di Paleontologia, situato di fronte al palazzo Carafa d'Andria.
Nell'VIII secolo questa area era occupata dai monasteri di San Marcellino e San Pietro, e di San Festo e San Desiderio; i due conventi, demoliti intorno alla prima metà del XVI secolo, si fusero nel 1566 nel complesso dei Santi Marcellino e Festo per dare accoglienza alle monache rimaste prive di dimora.
Le regole imposte dal Concilio di Trento richiesero inizialmente la trasformazione radicale del chiostro e del dormitorio.
I lavori furono affidati a Giovan Vincenzo Della Monica di Cava dei Tirreni e durarono dal 1567 al 1595. Terminato questo intervento si decise di rifare anche la chiesa: fu Pietro D' Apuzzo, seguendo il disegno di Giovan Giacomo Di Conforto, uno dei principali architetti del primo barocco napoletano, a curarne la realizzazione.
Le sconvolgenti trasformazioni operate dal Concilio di Trento hanno eliminato ogni testimonianza dell'insediamento religioso che ancora intorno al 1570 lasciava intendere le caratteristiche del complesso conventuale altomedievale. Nel 1772 un restauro generale fu compiuto su disegno del Vanvitelli.
Soppresso il convento col decreto del 1808, nel 1809 le monache benedettine ivi residenti furono trasferite nella chiesa di San Gregorio Armeno, e a San Marcellino fu istituito il primo educandato femminile.
Attualmente il complesso è sede di alcuni istituti universitari.
Il chiostro (largo San Marcellino 10) disegnato da Giovan Vincenzo della Monica segue una caratteristica tipologia napoletana: è aperto su di un lato, e tutto proporzionato in modo da consentire la vista del panorama. Al suo centro è un giardino, circondato da un elegante porticato sul quale si affacciano i piani superiori: il primo con ampio terrazzo balaustrato, il secondo con la balconata continua, su archetti pensili e mensole.
L'esigenza di rispettare la veduta panoramica fu sentita anche dal Vanvitelli, il quale intervenne per realizzare una delle sue ultime opere: il piccolo oratorio della Scala Santa, minuscolo cortile chiuso visibile dal terrazzo del chiostro superiore.
Qui il Vanvitelli ripropose temi già sperimentati e il nicchione presente nella reggia di Caserta e nel Foro Carolino a Napoli (piazza Dante).
Sul fianco orientale del chiostro si eleva la chiesa (chiusa), costruita tra il 1626 e il 1645 dall'architetto Pietro D'Apuzzo; è composta di due parti: un vestibolo a tre ambulacri, suddivisi da colonne ioniche di marmo bardiglio con splendidi capitelli, sormontato dal coro; la chiesa vera e propria a unica navata con tre coppie di cappelle laterali.

Si passi, quindi, alla visita di uno dei più articolati e ricchi complessi monacali della città: il monastero dei Santi Severino e Sossio, attuale sede dell'Archivio di Stato.
La sua fondazione risale al 902, anno in cui i monaci benedettini, per le incursioni saraceno, trasferirono le reliquie di San Severino, e poco dopo anche quelle di San Sossio, in un oratorio presente nella zona sin dall'845.
Durante il X secolo il monastero annesso alla chiesa si estese nella zona detta "dei Platani" per la presenza di un boschetto. Varie sono le vicende del complesso ricostruito nel XII secolo di cui rimangono come unica testimonianza due archi ad ogiva, evidenziati recentemente in un restauro che ha interessato la chiesa inferiore.
Nei secoli XIII e XIV il complesso assunse grande importanza nella vita ecclesiastica partenopea. Nel 1494 una elargizione del re Alfonso d'Aragona consenti l'ampliamento della chiesa superiore, il cui disegno fu affidato al Mormando; interrotti i lavori, la costruzione riprese nel 1537 sotto la direzione del Di Palma.
La casa dei Benedettini era continuamente meta di pellegrinaggi e sede di interventi di abbellimento: ciò per la grande ricchezza accumulata dal monastero sia con la vendita delle cappelle alle più ricche famiglie napoletane, sia con lo sfruttamento delle acque della Volla, un piccolo fiume che, scorrendo sotto il convento, azionava i mulini sfruttati per la macina dei grani, e alimentava le vasche delle "tentone", botteghe che il convento affittava ai tintori.
È utile precisare che l'intero complesso monastico si componeva di quattro chiostri e due chiese: quella cosiddetta superiore, e quella inferiore. A quest'ultima i monaci non rivolsero le stesse attenzioni dedicate all'edificio superiore.
Ciò ha consentito di conservare quasi intatto l'aspetto della fabbrica rinascimentale: sull'unica navata, coperta da volta a botte con lunette, coppie di lesene scanalate scandiscono gli spazi occupati dalle cappelle laterali a copertura piana.
La chiesa maggiore, edificata secondo il disegno del Mormando, è a unica navata con cappelle laterali, ampio coro e tribuna. Nel Settecento marmi policromi hanno coperto tutte le murature preesistenti, lasciando, come unica testimonianza della decorazione architettonica cinquecentesca, le lesene scanalate poste su di un alto basamento, visibili sul fianco sinistro della chiesa (su vico San Severino).
Ai lati dell'altare si segnalano: la cappella Gesualdo (sulla sinistra) in cui si conserva l'ancona marmorea di Gian Domenico D'Auria; e, sulla destra, la cappella dei Sanseverino che ospita i sepolcri di Ascanio, Iacopo e Sigismondo Sansevenino, realizzati nel 1539-40 su disegno di G. Da Nola, e un altare ideato dal Nauclerio.
In seguito ai danni subiti per i terremoti del 1688 e del 1731,fu ricostruita la facciata, secondo il progetto di Gian Battista Nauclerio, attivo con i Benedettini sin dal 1715, e fu realizzato il sagrato con transenne di Piperno sormontate da sfere di marmo.
L'architetto ricostruì, inoltre, la volta a botte aprendovi ampi finestroni che dovevano illuminare gli affreschi del De Mura.
Il complesso conventuale presentava quattro chiostri, diversi l'uno dall'altro, a seconda della funzione a cui erano destinati; uno di essi, quello detto "di marmo", per la presenza di bianche colonne marmoree, fu seguito tra XVI e XVII secolo; al suo centro era un pozzo oggi sostituito da una statua di Michelangelo Naccherino (la Teologia); quello del Noviziato, di impianto rettangolare, con pilastri di piperno, fu aggiunto agli inizi del Seicento.
Il chiostro del Platano (così definito per l'albero piantato, secondo la leggenda, da San Benedetto, tagliato negli anni Cinquanta e miracolosamente rispuntato), riveste particolare interesse per il ciclo di affreschi rappresentanti le Storie della vita di San Benedetto, realizzati dall'artista veneto Antonio Solario lungo due pareti del chiostro.
Il monastero dei Santi Severino e Sossio é attualmente adibito alla conservazione di documenti. L'Archivio di Stato (vi si accede dalla piazzetta Grande Archivio) fu sistemato in epoca angioina presso il Castel dell'Ovo, trasferito poi in Castel Capuano; e quando i Borboni decisero di riunire i documenti in un unico luogo, ne divenne sede l'ex monastero benedettino.
L'architetto Ercole Lauria redasse il progetto di adeguamento del complesso religioso alla nuova funzione: creò il nuovo androne, controllò le nuove destinazioni d'uso e la sistemazione dei documenti.
Documenti di importanza notevolissima rendono l'Archivio di Napoli famoso in tutta Europa.
Percorrendo il vico San Severino si torna su via San Biagio dei Librai e, all'angolo destro si ammira il palazzo del Monte di Pietà (civ. 114), una istituzione sorta a Napoli nel XVI secolo, grazie all'azione di A. Paparo e L. Di Palma, per combattere l'usura.


La cappella del Monte di Pietà


Via San Gregorio Armeno

La fronte, impostata su di un massiccio basamento in pietra lavica, si compone di quattro ordini di finestre, sapientemente collocate in modo da garantire una efficiente illuminazione agli spazi interni ed è conclusa da un ricco cornicione.
Cinque balconi "alla romana" posti al secondo piano sono sormontati da timpani circolari e triangolari, e in ognuno di essi é inserito un bassorilievo raffigurante l'emblema del Monte di Pietà.

Elemento predominante della corte è la cappella, costruita dallo stesso Cavagna a partire dal 1598 (visite su appuntamento). Quattro lesene ioniche di marmo bardiglio suddividono la facciata in tre spazi, di cui quelli laterali contengono due nicchie con le statue della Carità e della Sicurezza di Pietro Bernini, mentre la zona centrale è occupata dalla porta in marmo rosso sormontata da una finestra.
Il prospetto è rifinito dal timpano triangolare che contiene la pregevole Deposizione di Michelangelo Naccherino, mentre nel fregio della cornice la frase O MAGNUM PIETATIS OPUS enuncia lo scopo per cui la cappella fu edificata.

Percorrendo cardini e decumani spesso è possibile individuare nella struttura muraria di edifici di diversa datazione la presenza di colonne, frammenti scultorei, capitelli, risalenti a epoca assai remota. Ne sono un esempio significativo la colonna e il capitello di scavo posti all'angolo tra Spaccanapoli e vico Figurari (proseguimento di via San Gregorio Armeno).

In tutti i vicoli del centro storico sono attive botteghe e laboratori che praticano mestieri antichi; in via San Gregorio Armeno un gran numero di botteghe, particolarmente affollate nel periodo natalizio, producono e vendono pastori per il presepe o fiori di carta e seta.

Prima di inoltrarsi nel vico San Gregorio Armeno, è d'obbligo prestare attenzione alla piccola chiesa di San Gennaro all'Olmo (civ. 33; chiusa), una delle più antiche diaconie della città, divenuta in seguito sede dell'arciconfraternita dei Santi Pietro e Paolo dei Muratori.
La particolarità di questa chiesa è nella stratificazione che l'ha interessata: l'impianto basilicale a tre navate testimonia la sua antica origine (pare che fosse stata fondata nel VII secolo dal vescovo di Napoli); il forte pendio del pavimento che sale sensibilmente in direzione dell'altare è dovuto probabilmente alla presenza di una cripta.
La facciata neoclassica, arricchita da stucchi era preceduta, prima del restauro settecentesco, da alcuni gradini inclusi nel vestibolo, riducendo, quindi, lo spazio esterno che formava una pittoresca piazzetta. Il nome della chiesa si deve collegare a un grande olmo che era prima in questo luogo.
Alla basilica di San Gennaro all'Olmo apparteneva la piccola chiesa di San Biagio dei Librai (chiusa), situata esattamente all'incrocio tra il cardine e il decumano inferiore, e segnata dalla presenza di un portale seicentesco e di crociere gotiche.

Sul fianco sinistro del vicolo si trova il complesso monastico di San Gregorio Armeno, sorto sui resti dell'antico tempio di Cerere per volere delle suore di San Basilio, fuggite dall'Oriente con le reliquie di San Gregorio.
La chiesa, divenuta uno dei più straordinari esempi dell'architettura barocca napoletana, a unica navata con cappelle laterali, luminosa cupola e abside rettangolare, costituisce la prima opera napoletana di Giambattista Cavagna (1574).
Per rispettare la rigida clausura l'architetto progettò un ambiente che consentì di realizzare il profondo pronao d'ingresso, detto dal 1757 il "coro d'inverno", ricavato tra il tetto e il vecchio coro, dal quale le monache potevano partecipare alle funzioni liturgiche senza essere viste.


L'interno della chiesa
di S. Gregorio Armeno


L'ingresso al chiostro
di San Gregorio Armeno

Si ritorni sulla pittoresca via San Biagio dei Librai al cui civ. 39 si trova il palazzo di Capua, attualmente di proprietà della famiglia Marigliano del Monte.
L'attività di architetto nella città di Napoli di Giovanni Donadio, detto il Mormando, dal nome del paese calabro da cui proveniva, raggiunse il suo acume nella realizzazione di questo edificio.

Ritornati sul decumano inferiore, si incontra, sul versante sinistro, il vico Malorani, dove si erge, al civ. 39, l'omonimo palazzo, caratterizzato, come tanti altri edifici della zona, dall'aggiunta settecentesca di tre piani e relativi balconi, per un'altezza di circa 20 metri, su un vicolo largo appena due metri.

Elemento di notevole pregio architettonico, raro esemplare di una tecnica compositiva catalana, è il portico interno che reca alla scala, composto da due arcate sorrette da pilastri ottagonali, privi di capitelli. Sulla parete di fondo del cortile sono inseriti invece frammenti di gusto toscano.

Proseguendo lungo Spaccanapoli si trova, delimitata dall'edificio dell'arciconfraternita di San Michele Arcangelo ai Pistasi, la piazzetta del Divino Amore, dove è ubicato l'omonimo complesso religioso (via San Biagio dei Librai, civ. 84).
Alcuni studiosi hanno evidenziato che il nome Pistasi deriva da pistor, panettiere, mestiere ricordato dal nome del vicino vico de' Panettieri, attività assai fiorente nella zona per la presenza di corsi d acqua e mulini.

Inoltrandosi in vico dei Panettieri è possibile osservare altri rari gioielli d'architettura: un portalino toscano, al civ. 27; un frammento di portale durazzesco al civ. 42; al civ. 9 un arco ribassato in piperno e una pregevole scala settecentesca con strutture in pietra; ai civv. 22-23 parte di un palazzetto durazzesco, caratterizzato, al primo piano, da tre aperture di impronta toscana.

Si continua il percorso attraversando via Duomo e immettendosi in via Vicaria Vecchia; sul lato destro della strada si eleva la chiesa di Sant'Agrippino, risalente al X secolo ma più volte ristrutturata (chiusa).
L'unica navata è conclusa da un'abside poligonale, forata da alte finestre ogivali e alterata da recenti sopraelevazioni.

Di fronte é la chiesa di Santa Maria a Piazza (chiusa), notevolmente stravolta nell'articolazione planimetrica e nell'eliminazione del prezioso campanile preromanico, in occasione dell'ampliamento della strada (1924) per i lavori previsti dalla società del Risanamento; al suo interno si conserva un'importante testimonianza della cultura romanica d'oltralpe, un Crocifisso in legno della prima metà del Duecento.
Nel punto in cui via Forcella si biforca si prenda la via Sersale dove è la chiesa di Sant'Eligio dei Chiavettieri (civ. 30; chiusa), fondata nel periodo svevo e così chiamata dalla corporazione dei chiavettieri cui fu affidata sul finire del XV secolo.
L'edificio, trasformato durante il Cinquecento, presenta attualmente stucchi di gusto barocco attribuiti alla scuola di Domenico Antonio Vaccaro. La facciata settecentesca è stravolta dalla recente sopraelevazione di tre piani.
Da via Forcella si sale in via Colletta dove si trova, nella traversa di San Nicola dei Caserti, la omonima chiesa (chiusa); l'impianto di quest'ultima è ancora quello che i Padri Dottrinari misero a punto nel 1636 allorché la chiesa, risalente al 1280, fu affidata loro.
L'edificio fu notevolmente danneggiato durante l'ultima guerra, ed è segnato, in facciata, da alcuni frammenti dei portali in piperno.
Percorrendo via del l'Annunziata e via Mancini si giunge in piazza Garibaldi.

buona  passeggiata.....