Tra le botteghe di Via San Gregorio Armeno, i preparativi del presepe.
la Fiera dei Pastori in Napoli da novembre 2001 a febbraio 2002
Nel
centro storico di Napoli, presso la direttrice di Spaccanapoli, c’è la via
di San Gregorio Armeno. E il nome non può che farci venire in mente una
cosa: ‘o presepio. E’ qui infatti, nelle vicinanze della famosa
Chiesa, che si tiene a partire da novembre un vivacissimo e caratteristico
mercato delle statuine del presepe di ogni materiale, dimensione e soggetto. La
tradizione è antichissima: con grande libertà potremmo addirittura farla
risalire a greci e romani! Infatti, la Chiesa di San Gregorio Armeno fu
edificata sui resti di un tempio dedicato a Demetra - Cerere: alla dea era
d’uso donare una statuina di terracotta. Quegli ex-voto impastati con
l’argilla venivano realizzati nel reticolo dei vicoli napoletani,
tutt’intorno alla zona che oggi fa capo alla celebre via. Considerare le
figurine pagane, dette stipi votive, antenate dei pastori da presepio è certo
un azzardo, tuttavia rimane il fatto che ancora oggi, proprio qui, si continua
la stessa tradizione artigianale. San Gregorio Armeno, con le sue botteghe e
bancarelle, è il luogo simbolo del Natale napoletano, meta obbligatoria di una
passeggiata alla ricerca del nuovo pezzo da collocare.
Fu la diffusione dell’arte della ceramica e l’uso di nuovi e ricchi
materiali a dare impulso a Napoli alla tradizione del presepio. Tutto si deve al
Settecento, secolo d’oro delle arti napoletane, legato al mecenatismo di Carlo
III Borbone. Il presepio napoletano nacque dalla fantasia popolare, per
allietare le feste natalizie dei borghesi, dei patrizi e della corte reale. Si
racconta, infatti, che fu proprio Re Ferdinando a inaugurare la tradizione di
onorare i più bei presepi della città, facendo visita in pompa magna a quello
del Principe d’Ischitella nel Natale del 1788. Le statuine sono piccole figure
che esaltano il popolo diseredato dei cafoni affamati, strabici, gozzuti e
sciamannati, compresi oggi i personaggi dell’attualità e della politica. La
tradizione viene portata avanti da famose famiglie di artigiani e non solo:
molti scultori, infatti, si sono dedicati al presepio. A San Gregorio Armeno si
concentrano anche i restauratori di bambole e statue, soprattutto a carattere
sacro. Per la Fiera dell’arte presepiale l’associazione New tech & Old
Craft per il natale 2001 organizza l’allestimento di circa 30 stand lungo la
via, che esporranno presepi, pastori e addobbi natalizi artigianali, mentre i
negozi esporranno fuori alle loro botteghe – laboratori splendidi prodotti
artigianali. Per tutto il periodo l’associazione organizzerà visite guidate
presso i laboratori degli artigiani di San Gregorio Armeno. E poi concorsi e
manifestazioni musicali. Per coloro che a Napoli non riusciranno ad arrivare,
New tech & Old Craft ha inoltre organizzato, con la Confesercenti di Napoli
e di Prato, una fiera di pastori e presepi dell’artigianato tipico di San
Gregorio Armeno proprio a Prato, per il 14, 15 e 16 dicembre. Qui verranno
allestiti quattro presepi costruiti dai migliori artigiani di Napoli, che
troveranno la loro giusta collocazione in quattro chiese di Prato, ovvero Santa
Maria delle Carceri, la Chiesa di San Francesco, quella di San Domenico ed
infine il Duomo.
La caratteristica strada
dell’artigianato presepiale è Via San Gregorio Armeno. Una strada detta platea
nostriana perché qui il
quindicesimo vescovo di Napoli, San Nostriano, fece costruire le terme per i
poveri. Il vescovo Agnello invece vi edificò la prima basilica all’interno
della città dedicata a San Gennaro. Questa chiesa è ancora oggi visitabile,
seppure interamente modificata durante i secoli. La strada ha mantenuto nei
secoli una straordinaria vitalità: è un luogo cardine di Napoli, capace di
connettere il vero centro della città antica, oggi identificabile in parte con
piazza San Gaetano, con le principali arterie, come via San Biagio dei Librai e
via Tribunali. Potremmo definirla come il centro artistico e culturale di un
tempo: nel passato qui si susseguivano le botteghe di artisti, pittori,
scultori, argentieri, intagliatori, doratori, che con la loro sapiente arte
hanno reso famosi chiese e palazzi. E bisogna ricordare che nei pressi di questa
strada, a via San Biagio dei Librai, in un palazzo in cui si accede oggi anche
da San Gregorio, un libraio diede i natali a Gian Battista Vico. Più avanti,
presso piazza san Domenico Maggiore, una lapide ricorda la dimora di Francesco
de Sanctis; a Palazzo Filomarino, inoltre, visse lo stesso Benedetto Croce. Ma
San Gregorio Armeno va ricordata soprattutto per la fiorente produzione di
pastori in terracotta. Ed ecco i Ferrigno, i Giannotti, i Maddaloni: tutti di
antica tradizione familiare. Moltissimi ogni anno i visitatori, le scolaresche,
gli appassionati che da tutto il mondo arrivano ad affollare la via, che per la Fiera
dei Pastori di Natale si carica di
un’atmosfera di grande fascino.
Non può mancare inoltre una visita alla Chiesa di San Gregorio Armeno, legata
alla devozione popolare verso moltissimi santi e che raccoglie un gran numero di
reliquie. Particolare rilevanza ha qui il culto delle reliquie del sangue,
variamente soggette a liquefazioni o rosseggiamenti in certe ricorrenze
tradizionali, come per San Protaso, San Pantaleone, Santo Stefano, San Lorenzo,
Santa Patrizia, San Girolamo e San Giovanni Battista. La costruzione ebbe
inizio
nel 1574, anno in cui la badessa Donna Giulia Caracciolo pensò all'erezione di
una nuova chiesa, che fu consacrata nel 1579 e l'anno successivo dedicata a San
Gregorio, come ricordano le iscrizioni dell'atrio. La facciata presenta tre
arcate a bugno di piperno, sormontate da quattro lesene toscane con fregio
dorico e tre finestroni. Si accede all'interno mediante un portale di noce con
intagli a rilievo dei quattro evangelisti e dei Santi Stefano e Lorenzo. La
chiesa è ad una sola navata, con cinque arcate per lato, alternate a pilastri
compositi. L'interno fu affrescato da Luca Giordano nel 1679, in occasione del
primo centenario della sua costruzione. Sul muro d'ingresso è narrato in tre
scene l'arrivo delle monache greche a Napoli. Lateralmente possiamo notare due
quadri di Silvestro Buono, che raffigurano i santi Girolamo e Francesco
dinanzi alla Vergine e l’Immacolata. Tra i finestroni ammiriamo scene della
vita di San Gregorio affrescate dal Giordano. Alcune delle cappelle
conservano colonne corinzie di marmo rosa appartenenti alla veste
cinquecentesca. Nella prima a destra ammiriamo un'Annunciazione attribuita a
Pacecco de Rosa, un'antica statua di San Donato in legno colorato ed un'altra di
Santa Apollonia. Nella seconda cappella vi è una tela raffigurante la Vergine
con i Santi Pantaleone ed Antonio, attribuita al Sarnelli. La terza cappella è
dedicata a San Gregorio Armeno: sull'altare vi è una tela opera di Fracanzano.
La quarta cappella conserva una tela di Niccolò Malinconico, rappresentante la
Vergine del Rosario tra due santi. Dal lato opposto, la cappella accanto
all'organo è dedicata a San Benedetto: la tela che lo raffigura è attribuita
al maestro spagnolo Ribera. Interessante una miracolosa immagine del
Cristo, scultura lignea del tardo quattrocento che pare appartenesse alla
vecchia chiesa e che Pane definisce "immagine drammatica e splendida".
Magnifico è l'altare maggiore, opera di Dionisio Lazzari, la cui balaustra
rappresenta un mirabile esempio dell'artigianato partenopeo per i trafori in
marmo bianco. A destra si nota una grande raggiera di ottone che sormonta una
grande tripartita, superba realizzazione dei maestri ottonari napoletani. E’
il "comunichino della badessa" dietro il quale le monache ascoltavano
la messa. Da notare anche il soffitto ligneo che fu iniziato nel 1580:
intagliato e dorato, contiene pitture di Teodoro Fiammingo. Bella anche la
sacrestia dalla volta affrescata di De Matteis e definita una “stanza di
paradiso in terra”, tra lo splendore degli arredi e degli argenti.
QUATTRO PASSI DA PIAZZA SAN DOMENICO MAGGIORE A PIAZZA GARIBALDI
Da piazza San Domenico Maggiore, proseguendo
il percorso del decumano inferiore, si giunge nella piazzetta Nilo, il sito
urbano in cui venne sistemata una statua che, ritrovata nel Quattrocento
mutilata del capo, fu completata nel 1657 con una testa barbuta (la si può
vedere nel largo Corpo di Napoli). Sulla destra della piazza è la chiesa di
Sant'Angelo a Nilo, detta anche "cappella Brancaccio" dal nome del
nobile Rinaldo Brancaccio.
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L'interno
della Chiesa |
Lungo il
vico Donnaromita, sul retro della chiesa, si incontra, al civ. 15, il palazzo
Brancaccio con portale durazzesco e inconsueto e raccolto cortile.
Sullo sfondo del vicolo appare con i suoi embrici colorati la cupola della
chiesa di Santa Maria Donnaromita (1540-1550) e, immediatamente dopo il palazzo
Brancaccio, si individua un portale, quello dell'ex convento a cui faceva capo
la chiesa (civ. 50; chiusa).
L'atrio a cui si accede da quest'ingresso laterale (civ. 13) ha pianta ottagona,
è coperto da una scodella ovale, ma è stato notevolmente alterato, come le
restanti strutture conventuali, dai lavori eseguiti è per adattare gli ambienti
a nuove funzioni.
Il convento fu fondato da un gruppo di monache fuggite da Costantinopoli nel
periodo delle persecuzioni iconoclaste (VIII secolo), sfruttando l'antica
diaconia di Santa Maria del Percejo. Dalla definizione usata per appellare le
suore ("donne della Romania", poi "Romite di
Costantinopoli") deriva il nome di Donnaromita.
Il percorso prosegue scendendo lungo la via Paladino che, diversamente dalla via
Mezzocannone ampliata durante i lavori ottocenteschi, conserva ancora l'antico
tracciato del cardo romano. La strada aveva enorme importanza in età ducale
perché conduceva al colle di Monterone dove sorgeva il palazzo del duca.
Il civico 38 corrisponde alla chiesa del Gesù Vecchio, denominata anche del
Salvatore per distinguerla da quella del Gesù Nuovo in piazza San Domenico
Maggiore. Il progetto dell'opera è tradizionalmente attribuito al padre Pietro
Provedi che, morto nel 1596, non poté sovrintendere alla sua esecuzione.
Alla fabbrica religiosa è annesso il cortile del Salvatore chiamato "delle
Statue" da quando, adibito a biblioteca, è stato impreziosito dai busti
dei più illustri accademici partenopei), uno dei primi chiostri
controriformistici realizzati a Napoli.
Risalendo via Paladino sulla sinistra, al civ. 20, leggermente arretrati
rispetto al filo stradale si trovano la chiesa e il monastero di Santa Maria di
Monteverginella, sorti nel 1314 sul luogo in cui era il palazzo del giurista
Bartolomeo Di Capua, I restauri settecenteschi, di gusto rococò, vennero in
gran parte manipolati, semplificati e ridotti agli effetti cromatici creati dal
bianco e dall'oro ad opera di Gaetano Genovese, nel 1843.
Al termine della strada è, invece, ubicata la chiesa dei Santi Andrea e Marco a
Nilo, (civ. 52; chiusa) assai rinomata perché fu una delle prime diaconie della
città. Sulla facciata, leggermente arretrata rispetto al filo stradale,
decorazioni settecentesche in stucco hanno occultato tracce di antiche strutture
paleocristiane; è articolata su due ordini, raccordati da elaborate volute
aggettanti, e presenta un portale marmoreo sormontato dal medaglione con i busti
dei santi a cui la chiesa è dedicata.
Largo Corpo di Napoli:la statua del Nilo e
la cappella
di
Santa Maria del Pignatelli
Risalendo
via Paladino si torna nella piazzetta Nilo in fondo alla quale si possono
osservare il palazzo Pignatelli di Toritto (civ. 12) e l'annessa cappella di
Santa Maria dei Pignatelli (chiusa), illustre famiglia patrizia napoletana. Sul
prospetto del palazzo un piccolo ordine di paraste corinzie cinquecentesche è
abbinato a volute e decori di gusto tipicamente barocco.
Inoltrandosi nella stretta via Nilo, uno dei cardines romani, al civ. 26 si
trova il palazzo Beccadelli, detto del Panormita, dal soprannome del celebre
umanista Antonio Beccadelli che ne curò la realizzazione fino al 1471, anno
della sua morte.
Il progetto dell'edificio si deve al Di Palma, quello del portale di ingresso al
Mormando.
Negli altri edifici di via Nilo si possono ammirare particolari d'architettura
di grande interesse: una scala cinquecentesca con archi in pietra; un piccolo
atrio coperto da due crociere, risalente all'epoca angioino-durazzesca; un arco
durazzesco, una originale scala con prospetto curvo bucato da grandi arcate, al
civ. 30.
Proseguendo il cammino lungo la stretta e brulicante via San Biagio dei Librai,
che fu un tempo, come ricorda il suo nome, il centro del commercio libraio
napoletano, si incontra, all'incrocio con via Nilo, il palazzo Carafa di
Montorio (civ. 8), sul quale, prima di passare nelle mani del marchese di
Alfedena, era scolpito uno stemma cardinalizio.
Tra un capolavoro di architettura civile e un significativo edificio religioso
si incontrano le caratteristiche abitazioni napoletane, i bassi, presenti,
purtroppo, non solo nel centro storico, ma in ogni vicolo di antica fondazione.
Si tratta di piccole e anguste stanze, ricavate nei locali seminterrati degli
edifici, originariamente destinate a botteghe; il loro ingresso è segnato molto
spesso da un'edicola votiva, da corde con panni stesi, e soprattutto dalla
presenza degli stessi abitanti che per bisogno di aria e luce sono costretti a
vivere per strada. Molto spesso sono anche sede di preziose attività
artigianali: vi si fabbricano fiori di carta (particolarmente tra via San Biagio
dei Librai e via Duomo, si riparano oggetti antichi, si restaurano sedie
impagliate o si confezionano calzature e oggetti in pelle.
Percorrendo via San Biagio dei Librai si può ammirare, al civ. 121, uno dei più
notevoli edifici rinascimentali della città: il palazzo Carafa di Maddaloni,
detto poi Santangelo.
Di fronte al palazzo di Diomede Carafa é la movimentata facciata settecentesca
della chiesa di San Nicola a Nilo. Fu realizzata nel 1705 su progetto
dell'architetto Giuseppe Lucchesi, come cappella annessa a un orfanatrofio
femminile fondato nel 1646.
La facciata, arretrata per la particolare composizione della scala, mostra, sui
muri laterali, due grate, attraverso le quali le monache potevano spiare
l'ambiente circostante.
E composta da due ordini raccordati da volute: in quello inferiore emergono due
colonne corinzie, inclinate rispetto al filo della parete.
Accanto alla scala barocca in piperno, a due rampanti curvi, e nel vano ricavato
al di sotto del pianerottolo sono attive, come attesta la lapide posta sui
rispettivi ingressi, sin dal 1706, tre botteghe dove, ancora oggi, è possibile
trovare preziosi oggetti di antiquariato.
Sul versante destro della strada, al civ. 118, leggermente arretrata, si
incontra la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo sorta, insieme all'annesso
conservatorio, nel 1593, per opera dei mercanti e tessitori della seta nel luogo
in cui esisteva un palazzo di proprietà dei principi di Caserta.
Pochi gli elementi superstiti della struttura cinquecentesca, notevoli, invece,
i decori barocchi e tardo-settecenteschi.
Si percorre il vicolo Santi Filippo e Giacomo e si raggiunge il largo San
Marcellino, sul cui versante sinistro sorge il palazzo Carafa d'Andria (civ.
15), attualmente destinato a scuola professionale femminile che sul fianco
destro presenta elementi decorativi gotico-catalani.
Per avere un'idea di quanto gli interventi della Controriforma abbiano mutato
l'aspetto del centro antico, e quanto le manipolazioni più recenti stiano
stravolgendo le caratteristiche dei monumenti più pregevoli, è indicativo il
caso del complesso conventuale dei Santi Marcellino e Festo, sede del Museo di
Paleontologia, situato di fronte al palazzo Carafa d'Andria.
Nell'VIII secolo questa area era occupata dai monasteri di San Marcellino e San
Pietro, e di San Festo e San Desiderio; i due conventi, demoliti intorno alla
prima metà del XVI secolo, si fusero nel 1566 nel complesso dei Santi
Marcellino e Festo per dare accoglienza alle monache rimaste prive di dimora.
Le regole imposte dal Concilio di Trento richiesero inizialmente la
trasformazione radicale del chiostro e del dormitorio.
I lavori furono affidati a Giovan Vincenzo Della Monica di Cava dei Tirreni e
durarono dal 1567 al 1595. Terminato questo intervento si decise di rifare anche
la chiesa: fu Pietro D' Apuzzo, seguendo il disegno di Giovan Giacomo Di
Conforto, uno dei principali architetti del primo barocco napoletano, a curarne
la realizzazione.
Le sconvolgenti trasformazioni operate dal Concilio di Trento hanno eliminato
ogni testimonianza dell'insediamento religioso che ancora intorno al 1570
lasciava intendere le caratteristiche del complesso conventuale altomedievale.
Nel 1772 un restauro generale fu compiuto su disegno del Vanvitelli.
Soppresso il convento col decreto del 1808, nel 1809 le monache benedettine ivi
residenti furono trasferite nella chiesa di San Gregorio Armeno, e a San
Marcellino fu istituito il primo educandato femminile.
Attualmente il complesso è sede di alcuni istituti universitari.
Il chiostro (largo San Marcellino 10) disegnato da Giovan Vincenzo della Monica
segue una caratteristica tipologia napoletana: è aperto su di un lato, e tutto
proporzionato in modo da consentire la vista del panorama. Al suo centro è un
giardino, circondato da un elegante porticato sul quale si affacciano i piani
superiori: il primo con ampio terrazzo balaustrato, il secondo con la balconata
continua, su archetti pensili e mensole.
L'esigenza di rispettare la veduta panoramica fu sentita anche dal Vanvitelli,
il quale intervenne per realizzare una delle sue ultime opere: il piccolo
oratorio della Scala Santa, minuscolo cortile chiuso visibile dal terrazzo del
chiostro superiore.
Qui il Vanvitelli ripropose temi già sperimentati e il nicchione presente nella
reggia di Caserta e nel Foro Carolino a Napoli (piazza Dante).
Sul fianco orientale del chiostro si eleva la chiesa (chiusa), costruita tra il
1626 e il 1645 dall'architetto Pietro D'Apuzzo; è composta di due parti: un
vestibolo a tre ambulacri, suddivisi da colonne ioniche di marmo bardiglio con
splendidi capitelli, sormontato dal coro; la chiesa vera e propria a unica
navata con tre coppie di cappelle laterali.
Si passi, quindi, alla visita di uno dei più articolati e ricchi complessi
monacali della città: il monastero dei Santi Severino e Sossio, attuale sede
dell'Archivio di Stato.
La sua fondazione risale al 902, anno in cui i monaci benedettini, per le
incursioni saraceno, trasferirono le reliquie di San Severino, e poco dopo anche
quelle di San Sossio, in un oratorio presente nella zona sin dall'845.
Durante il X secolo il monastero annesso alla chiesa si estese nella zona detta
"dei Platani" per la presenza di un boschetto. Varie sono le vicende
del complesso ricostruito nel XII secolo di cui rimangono come unica
testimonianza due archi ad ogiva, evidenziati recentemente in un restauro che ha
interessato la chiesa inferiore.
Nei secoli XIII e XIV il complesso assunse grande importanza nella vita
ecclesiastica partenopea. Nel 1494 una elargizione del re Alfonso d'Aragona
consenti l'ampliamento della chiesa superiore, il cui disegno fu affidato al
Mormando; interrotti i lavori, la costruzione riprese nel 1537 sotto la
direzione del Di Palma.
La casa dei Benedettini era continuamente meta di pellegrinaggi e sede di
interventi di abbellimento: ciò per la grande ricchezza accumulata dal
monastero sia con la vendita delle cappelle alle più ricche famiglie
napoletane, sia con lo sfruttamento delle acque della Volla, un piccolo fiume
che, scorrendo sotto il convento, azionava i mulini sfruttati per la macina dei
grani, e alimentava le vasche delle "tentone", botteghe che il
convento affittava ai tintori.
È utile precisare che l'intero complesso monastico si componeva di quattro
chiostri e due chiese: quella cosiddetta superiore, e quella inferiore. A
quest'ultima i monaci non rivolsero le stesse attenzioni dedicate all'edificio
superiore.
Ciò ha consentito di conservare quasi intatto l'aspetto della fabbrica
rinascimentale: sull'unica navata, coperta da volta a botte con lunette, coppie
di lesene scanalate scandiscono gli spazi occupati dalle cappelle laterali a
copertura piana.
La chiesa maggiore, edificata secondo il disegno del Mormando, è a unica navata
con cappelle laterali, ampio coro e tribuna. Nel Settecento marmi policromi
hanno coperto tutte le murature preesistenti, lasciando, come unica
testimonianza della decorazione architettonica cinquecentesca, le lesene
scanalate poste su di un alto basamento, visibili sul fianco sinistro della
chiesa (su vico San Severino).
Ai lati dell'altare si segnalano: la cappella Gesualdo (sulla sinistra) in cui
si conserva l'ancona marmorea di Gian Domenico D'Auria; e, sulla destra, la
cappella dei Sanseverino che ospita i sepolcri di Ascanio, Iacopo e Sigismondo
Sansevenino, realizzati nel 1539-40 su disegno di G. Da Nola, e un altare ideato
dal Nauclerio.
In seguito ai danni subiti per i terremoti del 1688 e del 1731,fu ricostruita la
facciata, secondo il progetto di Gian Battista Nauclerio, attivo con i
Benedettini sin dal 1715, e fu realizzato il sagrato con transenne di Piperno
sormontate da sfere di marmo.
L'architetto ricostruì, inoltre, la volta a botte aprendovi ampi finestroni che
dovevano illuminare gli affreschi del De Mura.
Il complesso conventuale presentava quattro chiostri, diversi l'uno dall'altro,
a seconda della funzione a cui erano destinati; uno di essi, quello detto
"di marmo", per la presenza di bianche colonne marmoree, fu seguito
tra XVI e XVII secolo; al suo centro era un pozzo oggi sostituito da una statua
di Michelangelo Naccherino (la Teologia); quello del Noviziato, di impianto
rettangolare, con pilastri di piperno, fu aggiunto agli inizi del Seicento.
Il chiostro del Platano (così definito per l'albero piantato, secondo la
leggenda, da San Benedetto, tagliato negli anni Cinquanta e miracolosamente
rispuntato), riveste particolare interesse per il ciclo di affreschi
rappresentanti le Storie della vita di San Benedetto, realizzati dall'artista
veneto Antonio Solario lungo due pareti del chiostro.
Il monastero dei Santi Severino e Sossio é attualmente adibito alla
conservazione di documenti. L'Archivio di Stato (vi si accede dalla piazzetta
Grande Archivio) fu sistemato in epoca angioina presso il Castel dell'Ovo,
trasferito poi in Castel Capuano; e quando i Borboni decisero di riunire i
documenti in un unico luogo, ne divenne sede l'ex monastero benedettino.
L'architetto Ercole Lauria redasse il progetto di adeguamento del complesso
religioso alla nuova funzione: creò il nuovo androne, controllò le nuove
destinazioni d'uso e la sistemazione dei documenti.
Documenti di importanza notevolissima rendono l'Archivio di Napoli famoso in
tutta Europa.
Percorrendo il vico San Severino si torna su via San Biagio dei Librai e,
all'angolo destro si ammira il palazzo del Monte di Pietà (civ. 114), una
istituzione sorta a Napoli nel XVI secolo, grazie all'azione di A. Paparo e L.
Di Palma, per combattere l'usura.
La fronte,
impostata su di un massiccio basamento in pietra lavica, si compone di quattro
ordini di finestre, sapientemente collocate in modo da garantire una efficiente
illuminazione agli spazi interni ed è conclusa da un ricco cornicione.
Cinque balconi "alla romana" posti al secondo piano sono sormontati da
timpani circolari e triangolari, e in ognuno di essi é inserito un bassorilievo
raffigurante l'emblema del Monte di Pietà.
Elemento predominante della corte è la cappella, costruita dallo stesso Cavagna
a partire dal 1598 (visite su appuntamento). Quattro lesene ioniche di marmo
bardiglio suddividono la facciata in tre spazi, di cui quelli laterali
contengono due nicchie con le statue della Carità e della Sicurezza di Pietro
Bernini, mentre la zona centrale è occupata dalla porta in marmo rosso
sormontata da una finestra.
Il prospetto è rifinito dal timpano triangolare che contiene la pregevole
Deposizione di Michelangelo Naccherino, mentre nel fregio della cornice la frase
O MAGNUM PIETATIS OPUS enuncia lo scopo per cui la cappella fu edificata.
Percorrendo cardini e decumani spesso è possibile individuare nella struttura
muraria di edifici di diversa datazione la presenza di colonne, frammenti
scultorei, capitelli, risalenti a epoca assai remota. Ne sono un esempio
significativo la colonna e il capitello di scavo posti all'angolo tra
Spaccanapoli e vico Figurari (proseguimento di via San Gregorio Armeno).
In tutti i vicoli del centro storico sono attive botteghe e laboratori che
praticano mestieri antichi; in via San Gregorio Armeno un gran numero di
botteghe, particolarmente affollate nel periodo natalizio, producono e vendono
pastori per il presepe o fiori di carta e seta.
Prima di inoltrarsi nel vico San Gregorio Armeno, è d'obbligo prestare
attenzione alla piccola chiesa di San Gennaro all'Olmo (civ. 33; chiusa), una
delle più antiche diaconie della città, divenuta in seguito sede
dell'arciconfraternita dei Santi Pietro e Paolo dei Muratori.
La particolarità di questa chiesa è nella stratificazione che l'ha
interessata: l'impianto basilicale a tre navate testimonia la sua antica origine
(pare che fosse stata fondata nel VII secolo dal vescovo di Napoli); il forte
pendio del pavimento che sale sensibilmente in direzione dell'altare è dovuto
probabilmente alla presenza di una cripta.
La facciata neoclassica, arricchita da stucchi era preceduta, prima del restauro
settecentesco, da alcuni gradini inclusi nel vestibolo, riducendo, quindi, lo
spazio esterno che formava una pittoresca piazzetta. Il nome della chiesa si
deve collegare a un grande olmo che era prima in questo luogo.
Alla basilica di San Gennaro all'Olmo apparteneva la piccola chiesa di San
Biagio dei Librai (chiusa), situata esattamente all'incrocio tra il cardine e il
decumano inferiore, e segnata dalla presenza di un portale seicentesco e di
crociere gotiche.
Sul fianco sinistro del vicolo si trova il complesso monastico di San Gregorio
Armeno, sorto sui resti dell'antico tempio di Cerere per volere delle suore di
San Basilio, fuggite dall'Oriente con le reliquie di San Gregorio.
La chiesa, divenuta uno dei più straordinari esempi dell'architettura barocca
napoletana, a unica navata con cappelle laterali, luminosa cupola e abside
rettangolare, costituisce la prima opera napoletana di Giambattista Cavagna
(1574).
Per rispettare la rigida clausura l'architetto progettò un ambiente che consentì
di realizzare il profondo pronao d'ingresso, detto dal 1757 il "coro
d'inverno", ricavato tra il tetto e il vecchio coro, dal quale le monache
potevano partecipare alle funzioni liturgiche senza essere viste.
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Si ritorni
sulla pittoresca via San Biagio dei Librai al cui civ. 39 si trova il palazzo di
Capua, attualmente di proprietà della famiglia Marigliano del Monte.
L'attività di architetto nella città di Napoli di Giovanni Donadio, detto il
Mormando, dal nome del paese calabro da cui proveniva, raggiunse il suo acume
nella realizzazione di questo edificio.
Ritornati sul decumano inferiore, si incontra, sul versante sinistro, il vico
Malorani, dove si erge, al civ. 39, l'omonimo palazzo, caratterizzato, come
tanti altri edifici della zona, dall'aggiunta settecentesca di tre piani e
relativi balconi, per un'altezza di circa 20 metri, su un vicolo largo appena
due metri.
Elemento di notevole pregio architettonico, raro esemplare di una tecnica
compositiva catalana, è il portico interno che reca alla scala, composto da due
arcate sorrette da pilastri ottagonali, privi di capitelli. Sulla parete di
fondo del cortile sono inseriti invece frammenti di gusto toscano.
Proseguendo lungo Spaccanapoli si trova, delimitata dall'edificio
dell'arciconfraternita di San Michele Arcangelo ai Pistasi, la piazzetta del
Divino Amore, dove è ubicato l'omonimo complesso religioso (via San Biagio dei
Librai, civ. 84).
Alcuni studiosi hanno evidenziato che il nome Pistasi deriva da pistor,
panettiere, mestiere ricordato dal nome del vicino vico de' Panettieri, attività
assai fiorente nella zona per la presenza di corsi d acqua e mulini.
Inoltrandosi in vico dei Panettieri è possibile osservare altri rari gioielli
d'architettura: un portalino toscano, al civ. 27; un frammento di portale
durazzesco al civ. 42; al civ. 9 un arco ribassato in piperno e una pregevole
scala settecentesca con strutture in pietra; ai civv. 22-23 parte di un
palazzetto durazzesco, caratterizzato, al primo piano, da tre aperture di
impronta toscana.
Si continua il percorso attraversando via Duomo e immettendosi in via Vicaria
Vecchia; sul lato destro della strada si eleva la chiesa di Sant'Agrippino,
risalente al X secolo ma più volte ristrutturata (chiusa).
L'unica navata è conclusa da un'abside poligonale, forata da alte finestre
ogivali e alterata da recenti sopraelevazioni.
Di fronte é la chiesa di Santa Maria a Piazza (chiusa), notevolmente stravolta
nell'articolazione planimetrica e nell'eliminazione del prezioso campanile
preromanico, in occasione dell'ampliamento della strada (1924) per i lavori
previsti dalla società del Risanamento; al suo interno si conserva
un'importante testimonianza della cultura romanica d'oltralpe, un Crocifisso in
legno della prima metà del Duecento.
Nel punto in cui via Forcella si biforca si prenda la via Sersale dove è la
chiesa di Sant'Eligio dei Chiavettieri (civ. 30; chiusa), fondata nel periodo
svevo e così chiamata dalla corporazione dei chiavettieri cui fu affidata sul
finire del XV secolo.
L'edificio, trasformato durante il Cinquecento, presenta attualmente stucchi di
gusto barocco attribuiti alla scuola di Domenico Antonio Vaccaro. La facciata
settecentesca è stravolta dalla recente sopraelevazione di tre piani.
Da via Forcella si sale in via Colletta dove si trova, nella traversa di San
Nicola dei Caserti, la omonima chiesa (chiusa); l'impianto di quest'ultima è
ancora quello che i Padri Dottrinari misero a punto nel 1636 allorché la
chiesa, risalente al 1280, fu affidata loro.
L'edificio fu notevolmente danneggiato durante l'ultima guerra, ed è segnato,
in facciata, da alcuni frammenti dei portali in piperno.
Percorrendo via del l'Annunziata e via Mancini si giunge in piazza Garibaldi.