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Elisabetta Facondini (Pesaro-Milano)

Il Libro "I Ragazzi di Paolo" > Milano

La testimonianza di Elisabetta
E’ la primavera del 1994 quando la mia amica Daniela mi invita:
-Sai, sabato prossimo inauguriamo la sede de ‘La Rete’ con una mostra dedicata a Rita Atria, e ci sarà un incontro con il giudice Caponnetto; perché non vieni anche tu?-
All’inizio resto un poco perplessa, perché da poco avevo assistito ad un dibattito pubblico sul tema della criminalità organizzata al quale era intervenuto tra gli altri un ex magistrato siciliano, le cui parole mi erano però ‘scivolate addosso’, senza trasmettermi nulla, anzi lasciandomi un senso di profondo disgusto per il modo in cui taluni gareggiavano tra loro per vantare o millantare l’amicizia con Falcone e Borsellino, le loro confidenze, solo al fine di potere apparire di farsi pubblicità.
Del giudice Caponnetto avevo però in mente due immagini molto nitide ed intense: quella della sua mano fragile e tremante aggrappata al braccio di un cronista all’indomani della strage di via d’Amelio, e poi quella successiva di chi sente comunque di non avere il diritto di arrendersi , ma di dover lanciare un messaggio di speranza, con la mano sollevata in segno di vittoria, per dire che no, non era tutto finito, che bisognava comunque trovare la forza di resistere e lottare.
Dopo un breve attimo di esitazione decido quindi di accettare l’invito di Daniele e questa volta no,le parole non ripassano addosso: come dirò sempre, negli anni successivi, nel ricordare un incontro per me così importante, quel giorno il giudice Caponnetto,colui che per me e per molti altri sarebbe diventato ‘nonno Nino’, parlava direttamente al mio cuore, al mio animo, con quella sua voce flebile carica di dolore e di emozioni, quel suo modo di parlare guardando fisso davanti a se’,poco oltre il microfono, quasi come se parlasse a se stesso e volesse ricordare a sé, prima ancora che all’uditorio, i giorni vissuti con Paolo e Giovanni.
Dopo quel primo incontro torno a casa profondamente turbata, le parole del nonno avevano toccato i tasti giusti: ricordo che per ‘festeggiare’ l’avvenimento mi sono regalata una pianta, il cosiddetto ‘tronchetto dell’amicizia’, quasi a presagire le amicizie che poi sarebbero nate nel corso dei mesi successivi, con tanti che come me, in ogni parte d’Italia, si sentono uniti da una comunanza di valori e dal desiderio di impegno. Soprattutto all’inizio sentivo quasi una frenesia di conoscere, di informarmi, di ascoltare la voce di chi era stato protagonista o testimone diretto di avvenimenti tanto tragici della nostra storia recente.Inizia così un periodo piuttosto intenso in cui inseguo letteralmente Nino Caponnetto, Rita Borsellino ed altri esponenti della società civile nei loro incontri in giro per l’Italia: voglio incontrare, attraverso le loro parole,coloro che purtroppo non ho potuto e non potrò conoscere fisicamente.
Nel frattempo cresce il desiderio di essere a Palermo, di poter dire “ci sono anch’io, sono con voi,non siete soli”; ricordo il turbinio di emozioni contrastanti la prima volta in Via D’Amelio, all’Albero Falcone o allo svincolo di Capaci, il disagio quasi subito cancellato nell’entrare a casa di Rita Borsellino, quella casa che mi diventerà presto quasi familiare ed in cui, però, all’inizio, mi sentivo quasi un’intrusa, con un senso di colpa per il fatto di violare l’intimità ed i ricordi tanto privati e dolorosi dei familiari del giudice. Poi, una volta, una frase buttata lì da Nino Caponnetto: -“Domenica ci sarebbe un incontro da Don Giuliano?”; e, di conseguenza, la scoperta del mondo di Sariano, una serie di momenti e di esperienze indimenticabili,l’incontro con tanti amici che nel loro piccolo, ciascuno per le proprie capacità, si fanno testimoni dei valori della legalità e della democrazia non a parole, o non solo a parole, ma soprattutto attraverso l’impegno di ogni giorno.
A questo punto diventa però naturale che anche io mi chieda che cosa posso fare concretamente: si, certo.Non sono mai stata indifferente a certe tematiche, ho sempre seguito con partecipazione gli avvenimenti del nostro Paese, ma penso che ormai non sia più il tempo di delegare, di limitarsi semplicemente ‘a fare il tifo’ per la giustizia e per i suoi difensori, ma che sia giunto anche per me il momento di“scendere in piazza a sporcarmi la mani”, di impegnarsi in prima persona.
Mi torna in mente anche un discorso di Piero Calamandrei;
“Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più difficile,quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre…il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.”
Cosa posso fare dunque io,nel mio piccolo? In realtà uno dei miei più grandi desideri è sempre stato quello di poter conciliare la professione con l’impegno civile, ed in particolare avrei voluto diventare magistrato; scelgo però di entrare in Polizia, perché penso in questo modo di poter corrispondere più da vicino ai piccoli bisogni di tanti con i quali con i quali, quotidianamente, entrerò in contatto per motivi di lavoro. Eccomi dunque nel luglio del 1998, dopo aver superato il concorso ed aver affrontato con entusiasmo il corso di formazione che mi fornirà (così almeno credo all’inizio) la preparazione per intraprendere la mia nuova professione. Probabilmente però le mie aspettative sono talmente tante che un po’ di delusione credo sia inevitabile: non riesco a ritrovare, in tanti miei colleghi, quella tensione ideale che considero invece connaturata al ‘mestiere’ del poliziotto, vorrei che tanti mettessero nel loro agire più umanità, più attenzione nei confronti delle realtà, spesso difficili e drammatiche, con cui giorno per giorno siamo costretti a misurarci;mi accorgo invece che, soprattutto coloro che non sono spinti da una forte motivazione personale, tendono a scoraggiarsi facilmente per le tante difficoltà anche oggettive dell’operare quotidiano ed arrivano quindi a considerare ben presto il lavoro esclusivamente come una fonte di guadagno.
Mi è anche difficile accettare l’idea che alcuni cittadini vedano in noi poliziotti dei prevaricatori, preposti a far subire, piuttosto che a far rispettare, le leggi ed ancora più triste è accorgermi che alcuni colleghi si sentono effettivamente al di sopra delle leggi, che altri sarebbero disposti anche ad accettare, senza troppi problemi, di venire a patti con la propria coscienza: è facile oggi cedere alla non cultura dominante dei facili guadagni, del successo,dell’immagine, della politica urlata e fatta solo di spot pubblicitari, della prevaricazione del forte sul debole.
Fortunatamente però ho conosciuto anche una realtà diversa, fatta di impegno, di ideali, di valori e l’esempio di tanti altri colleghi mi fa invece avere la certezza che è possibile agire con coerenza e che quindi non ho il diritto di scoraggiarmi,neppure nei momenti apparentemente più difficili, perché non è possibile rinunciare ala battaglia in difesa della legalità e della giustizia e soprattutto so che non è giusto sprecare il proprio tempo; Paolo Borsellino,negli ultimi giorni della sua vita, lamentava di dover fare in fretta”,sentiva e sapeva di non avere più tempo: e allora dobbiamo essere noi quel tempo prezioso che a Paolo, e a tutti gli altri che come lui hanno dato la vita per questo sciagurato Paese, non è stato dato di vivere.
“Assai poco in verità ci chiedono i nostri morti.”
Elisabetta




- Io oggi Voglio Vivere Libero - Aggiornato il 30 set 2008 - | ragazzi-di-paolo@libero.it

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