Questione meridionale

Sul finire dell'Ottocento, con l'emigrazione di massa e l'esplosione delle tensioni sociali nella grande rivolta dei Fasci Siciliani, il problema del sottosviluppo meridionale si impose come la questione centrale della società italiana. In essa si intrecciavano varie problematiche come l'accesso dei contadini alla proprietà fondiaria, la storica arrettratezza dell'agricoltura meridionale basata sul latifondo cerealicolo e il mancato sviluppo dell'economia meridionale dopo l'Unità, funzionale all'industrializzazione del Nord. Fu inizialmente merito dello storico liberale Pasquale Villari, nato a Napoli nel 1826, che si diffuse tra la borghesia colta il problema del mezzogiorno essenzialmente come problema sociale. Nelle "Lettere meridionali", pubblicate sulla rivista "L'opinione" di Roma nel 1875, Pasquale Villari dediacava un'attenta analisi ai vari aspetti della questione meridionale, sottolineando i temi della corruzione borbonica, della camorra, della mafia, del brigantaggio, dell'analfabetismo, auspicando la riforma morale e politica del ceto meridionale e la formazione di una borghesia liberale moderna contro gli elementi parassitari presenti nel contesto tradizionale. Anche l'inchiesta condotta dai liberali Leopoldo Franchetti e Sidnej Sonnino (La Sicilia nel 1876) traccia un quadro convincente del torbido intreccio tra poteri pubblici, interessi privati e organizzazione malavitose nell'isola ed evidenzia la miseria contadina ancora di più aggravata dalla prepotenza dei proprietari terrieri e dei "gabellotti" (affittuari degli uomini di fiducia dei latifondisti). Allievo di Pasquale Villari e collaboratore del periodico "Rassegna settimanale" di Sonnino e Franchetti fu il parlamentare lucano Giustino Fortunato che continuò la loro opera in numerosi saggi e interventi, tra cui " La questine demaniale nell'Italia meridionale" (1879). Egli ebbe il merito di sfatare la convinzione letteraria della ricchezza potenziale dell'Italia meridionale e di illustrare il complesso legame tra fattori naturali e geografici da un lato e fattori storico-sociali, con una nuova consapevolezza delle radici lontane e profonde dell'arrettratezza del Sud. Tale questione ampiamente trattata da questi primi scrittori meridionalisti fu ulteriormente approfondita nel secolo successivo.

Ritratto di un gabellotto siciliano con il suo fucile: agrari benestanti, spesso amministratori dei fidi, arricchitisi alle spalle dei nobili, i gabellotti speculavano sui subaffitti mantenendo tutta una serie di privilegi semifeudali, in teoria aboliti, ma di fatto violentemente imposti dai campieri armati in stretto rapporto con ambienti della criminalità, dando origine al fenomeno mafioso.

Alle origini del meridionalismo:
Pasquale Villari
E le lettere meridionali

L'opinione pubblica liberale di fine secolo tende a minimizzare il problema del Sud un po' perchè pensa, secondo gli schemi liberisti, che lo Stato abbia poco da fare per correggere gli andamenti autonomi dell'economia; un po' perchè considera il disordine meridionale come un retaggio del passato borbonico destinato ad essere superato quasi spontaneamente nei nuovi ordinamenti, e per il momento è considerato un problema più di ordine pubblico che di politiche sociali. Fa eccezione quella di Pasquale Villari, storico napoletano e deputato. Le sue Lettere meridionali, scritte nel 1875, costituiscono un punto di riferimento per la formazione della corrente meridionalistica che dalla fine dell'Ottocento additerà all'opinione pubblica nazionale i pericoli di disgregazione provenienti dal dualismo economico tra Nord e Sud.

Documento

[...]E da un altro lato abbiamo noi esaminato tutti i danni di un tale stato di cose? La insurrezione è un pericolo; ma l'ozio, l'inerzia, il vagabondaggio e l'abbrutimento sono un pericolo non meno grave, specialmente per un popolo che vuoI essere libero. Il dispotismo si fonda sopra una società che lavora poco e spende poco; può quindi più facilmente tollerare l'ozio e l'abbrutimento, spesso ne ha anche bisogno per la sua sicurezza. Ma un popolo libero è invece un popolo che lavora e spende molto. Se noi avessimo prima trasformata la nostra società, per far poi la rivoluzione politica, non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo, appunto per aver fatto solo una rivoluzione politica, colla quale si sono mutati il governo e l'amministrazione. Le spese sono a un tratto immensamente cresciute, senza che la produzione cresca del pari. E questo stato di cose porta un deficit finanziario, il quale non sarà colmato neppur quando colle imposte avremo pareggiato le spese alle entrate. La più piccola scossa farà riapparire il disavanzo, e le economie necessarie ma forzate, che faremo per alcuni anni, saranno impossibili, se vorremo accrescere il benessere materiale e morale. Ma da un altro lato neppure le spese saranno possibili, se un aumento di lavoro e di produzione non comincerà nel paese. È un circolo vizioso, di certo; ma è pur chiaro che, per andare avanti, bisogna uscirne. E senza redimere queste classi numerose, che nell'abbrutimento in cui sono non lavorano punto o fanno un lavoro improduttivo, il problema non sarà mai risoluto. Questo è per noi non solamente un debito d'onore, ma è pure un nostro interesse: non faremo mai davvero e permanentemente il pareggio finanziario, senza prima fare il pareggio morale. [...]

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